Vajont, una tragedia che racconta l'Italia

(frammento "Vajont" proveniente da: Novecento, domenica 9 ottobre 2005 )

All'origine del disastro sta il fatto che non si effettuarono i necessari studi
sulla solidità della sponda sinistra del bacino.

di Odoardo Ascari -- Tratto da del 7 settembre 2005

Da oggi (n.4 luglio-agosto 2005 N.di M.) è in edicola Nuova storia contemporanea
Qui pubblichiamo il saggio di Odoardo Ascari che è stato avvocato di parte civile in grandi processi: «Triangolo della morte», «Piazza Fontana», «Delitto Moro», «Achille Lauro» e maxi processo contro la mafia

Si trattò di un disastro umano, giuridico, politico, che dette origine alla vicenda processuale cui mi sono dedicato interamente per anni, e che, più di ogni altra, ha alimentato il mio perdurante pessimismo sulla realtà italiana. Inducendomi a concordare con la constatazione di Gobetti, il quale scriveva che il nostro vero dramma consiste nel fatto che non sappiamo essere un grande popolo e non possiamo essere un piccolo popolo. Quella del Vajont è infatti una storia che riguarda tutta l'Italia, e parla a volumi sulla realtà italiana.

Previsioni e fatti
I fatti possono essere così riassunti. La sera del 9 ottobre 1963, alle ore 10.39 circa, una frana dell'ordine di 250 milioni di metri cubi di roccia, da anni in movimento su un piano di scorrimento sub-verticale nella prima parte, e inclinato verso il basso nella seconda parte, si staccava dal monte Toc sulla sinistra del torrente Vajont, in corrispondenza del bacino idroelettrico formato dallo sbarramento costituito dalla famosa diga, la più alta a doppia curvatura del mondo. La frana era per metà circa immersa nell'acqua, che si trovava, quella sera e a quell'ora, a quota 700,42. Il piano di scorrimento, mai identificato con esattezza, arrivava sulla forra del Vajont a una quota variante tra i 580 e i 630 metri. Il mostro di roccia attraversò rapidamente il bacino idroelettrico in senso trasversale schiacciando contro la sponda destra, come un enorme pistone, tutta l'acqua antistante il fronte di frana - circa 50 milioni di metri cubi - cui veniva impressa un'enorme forza ascensionale.
La massa d'acqua dapprima cagionò la distruzione di Erto Casso, che sovrastava di circa sessanta metri il livello dell'invaso, alzandosi poi a fungo, spinta verso l'alto a quasi duecento metri d'altezza. Quindi ricadde in parte sul bacino a monte, dove non poteva fare che vittime occasionali, mentre a valle scavalcò la diga per oltre cento metri e si abbatté come un maglio gigantesco su Longarone, all'altezza della confluenza del Vajont nel Piave. La diga, come ripetiamo, fu scavalcata e fu per questo che non crollò: se fosse stata investita direttamente, sarebbe stata letteralmente travolta, essendo l'energia scatenata pari a quasi due volte quella della bomba di Hiroshima; e le vittime sarebbero state decine di migliaia, perché l'ondata avrebbe travolto tutto e tutti sino a Belluno.

L'onda liquida, che, cadendo, abbassò persino il livello del suolo, si estese a valle e a monte lungo il Piave sino a Ponte nelle Alpi e a Castellavazzo. 1994 furono i morti, immense le rovine: dal 1945 in poi, la notte più calda di lacrime e di lutti.
Perché il lettore possa comprendere in tutta la sua estensione la gravità drammatica dei fatti, occorre premettere che la costruzione della diga, vanto dell'Italia, era iniziata, mi pare, nel 1957 ed era stata ultimata nell'agosto del 1960. Ne era proprietaria la Sade - Società Adriatica di Elettricità - che faceva capo a un grande potentato economico. L'enorme quantitativo di acqua contenuto nel bacino - oltre cento milioni di metri cubi - avrebbe garantito una riserva di energia praticamente infinita. Ma, prima che entrasse in funzione, la Commissione istituita presso il ministero dei Lavori pubblici aveva disposto che il collaudo avvenisse in tre fasi. In una prima fase, ovviamente a diga finita, si sarebbe autorizzato l'invaso del serbatoio sino a una quota di 680 metri, seguito da un successivo svaso; la seconda volta sino a quota 700, e relativo svaso; la terza volta a quota 715, traguardo finale, con successivo svaso.

Quando il bacino avesse superato queste tre prove senza incidenti sarebbe potuto diventare funzionante. Ma, quando, nel 1960, era in corso il primo svaso da quota 680, la montagna si mise a correre: e ciò perché al peso della roccia si aggiungeva, aumentando notevolmente la spinta verso il basso, quello della massa d'acqua che la montagna aveva assorbito. Appunto questa era la ragione per la quale lo svaso sarebbe dovuto essere lentissimo: ma nemmeno tale precauzione fu osservata.
All'origine di tutto il dramma sta il fatto che non si erano effettuati i dovuti e necessari studi sulla solidità della sponda sinistra del bacino. Si sarebbe in tal caso constatato che l'enorme massa della frana poggiava su un setto roccioso che si era venuto inclinando e frantumando: «milonitizzando», come avrebbero detto i tecnici.

E fu così che il 4 novembre 1960 - tre anni circa prima del disastro - si era verificata, appunto, nel corso del primo svaso, la frana, per così dire, prodromica. Si era staccata dalla montagna una massa relativamente modesta di circa un milione di metri cubi di roccia, sicché si era disegnata sulla sponda sinistra della montagna, davanti alla quale scorreva il Vajont, una fenditura a M - iniziale della parola morte - lunga circa 2500 metri. La Sade, ovviamente molto allarmata, dette incarico a un validissimo professore austriaco di geomeccanica, Leopoldo Müller, di far conoscere le sue valutazioni su quanto era accaduto e, in particolare, sul significato di quella gigantesca M.
Lo scienziato amico constatò anzitutto la frantumazione del setto roccioso su cui poggiava la frana, aumentando così inesorabilmente il pericolo di caduta. E a questa conclusione inoppugnabile era giunto facendo esplodere a novembre, in occasione del suo primo accesso, appunto, al setto roccioso, una piccola mina, calcolando poi il tempo di traslazione, per così dire, del suono alla distanza di circa 200 metri. Aveva poi ripetuto l'esperimento negli stessi luoghi e con le stesse distanze due mesi dopo, constatando che quella velocità era considerevolmente aumentata; il che dimostrava che il setto roccioso su cui poggiava la frana si stava «milonitizzando». Maturò così il suo famoso quindicesimo rapporto, consegnato alla Sade nel febbraio del 1961, nel quale Müller scriveva:

«La massa di frana occidentale (la vera zona Toc) [....] senza dubbio si muove come corpo unico; non sono riconoscibili zone parziali e movimenti relativi tra esse».
Ed ecco alcuni passi letteralmente drammatici:
«Io comunque suppongo che le masse fossero in movimento da sempre e, in ogni caso, che in periodi di forti precipitazioni fossero sempre soggette a piccoli spostamenti. Comunque esse hanno i segni caratteristici di un'alta instabilità. Prima dell'esistenza del serbatoio questi movimenti saranno stati di qualche centimetro all'anno, mentre con lo sbarramento sono aumentati a molti decimetri. Di conseguenza, al serbatoio è da attribuire un effetto di accelerazione e di aumento. [....] Le pieghe della zona superiore, aventi gli assi inclinati verso nord, escludono la possibilità di un movimento del tipo ghiacciaio, ma favoriscono lo scorrimento «en bloc»».
Conclusione:
«Le masse rocciose si muovono verso valle su una larghezza di 1700 metri. La lunghezza media delle masse di scorrimento è di 500 o al massimo 600 metri nella direzione di movimento, misurata frontalmente. Il suo spessore, nella metà inferiore, è di 250 metri. A mio parere non possono sussistere dubbi su questa profonda giacitura del piano di slittamento della quale il volume, come sappiamo, è di 200 milioni di metri cubi.
Alla domanda se questi franamenti possono venire arrestati mediante misure artificiali, deve essere risposto negativamente in linea generale; anche se in linea teorica, si dovesse rinunciare all'esercizio del serbatoio, una frana talmente grande, dopo essersi mossa una volta, non tornerebbe tanto presto all'arresto assoluto».
La previsione, formulata tre anni prima del tragico evento del 9 ottobre 1963, era drammaticamente fondata, anche tenendo presente che Müller veniva pagato dalla Sade e non aveva certo interesse a dare giudizi troppo pessimistici e a scoraggiare il proprio committente: ma i fatti erano quelli. Senonché, quando cadde la prima frana del 4 novembre 1960 - il primo disastro in senso tecnico e giuridico - la diga era già finita ed erano già stati spesi circa diciassette miliardi di lire. La rinuncia all'esercizio del bacino, cui aveva esplicitamente fatto riferimento Müller, diventava pertanto, per così dire, costosa, perché toglieva al bacino e alla diga il valore di «beni elettrici». E la legge che aveva disposto la nazionalizzazione dell'energia elettrica e la creazione dell'Enel prevedeva il pagamento, da parte dello Stato, di un indennizzo il cui ammontare era correlato alle quotazioni in borsa della Sade negli ultimi anni (non ricordo quanti). Ma il pagamento presupponeva che si trattasse di beni elettrici, cioè di beni capaci di produrre energia: tale non era quel bacino, su cui incombeva la previsione precisa della caduta «en bloc» della frana e la conseguente rinuncia all'esercizio del bacino, formulata con impietosa precisione da Müller.
Nessuno - per fare un esempio banale - vorrà mai comprare una casa destinata, con tutta probabilità, prima o poi, a cadere.
E fu per questo che la Sade, da un lato, nascose nel cassetto il rapporto Müller (e l'ingegnere fu esonerato da ogni incarico ufficiale), mentre, dall'altro, lasciò che trascorresse circa un anno per poi, sperando nella buona sorte e restando vittima di una sindrome di rimozione, chiedere il secondo invaso, che provocò la solita accelerazione di movimenti. E ciò perché, e la circostanza è essenziale, il rapporto tra il peso della massa premente e la capacità di resistenza, per così dire, del setto roccioso su cui poggiava, era divenuto quasi uguale a zero: il che affidava migliaia di vite umane letteralmente al capriccio del «caso».
Si trattava di un tragico equilibrio tra la vita e la morte: non tenerne conto dava corpo a una colpa di incredibile gravità, tenendo presente anzitutto il senso comune, e la conseguente regola antica secondo la quale il rapporto tra massa resistente e massa premente avrebbe dovuto essere del 2,70%, a favore, ovviamente, della massa resistente.

Ma poiché non vi sono limiti alle dimensioni della colpa umana - essendo, da sempre, l'uomo quale Machiavelli lo ha descritto nel capitolo diciassettesimo del Principe, con particolare riferimento alla qualifica di «cupido di guadagno» - la Sade, nell'intento di raggiungere la quota massima di 715 chiese, il 20 marzo 1963, il terzo invaso che, gradatamente, portò il bacino, alla data del 15 settembre, a quota 710. Ma, a quella data, l'accelerazione dei movimenti della massa rocciosa verso il basso convinse i responsabili Enel-Sade a interrompere l'invaso e a iniziare, il 27 settembre, lo svaso. Ma, quando si raggiunse quota 708, si verificò la catastrofe. Bisogna ora ricordare che la nazionalizzazione dell'energia elettrica, decisa legislativamente nel novembre-dicembre 1962, aveva avuto come prima conseguenza il passaggio del bacino, il 16 marzo 1963, all'Enel, restando però la Sade «custode»; ed era divenuta operante soltanto il 27 luglio 1963, quando il bacino era passato, a tutti gli effetti, in fatto e in diritto, all'Enel. Ne seguiva che di tutti i danni derivati dalle condotte colpose, poste in essere dopo questo passaggio, avrebbe risposto l'Enel.

Qualora invece si fosse dimostrato che a cagionare il disastro avevano contribuito condotte colpose antecedenti, la responsabilità civile sarebbe ricaduta anche sulla Sade, che era stata incorporata dalla Montedison. In tal caso, gravissima sarebbe stata la responsabilità della Commissione di collaudo istituita presso il ministero dei Lavori pubblici, che aveva autorizzato gli invasi, con conseguente responsabilità civile dello Stato. Tornando ai rapporti Sade-Enel, i colpevoli potevano risultare le stesse persone, essendo rimasta invariata la struttura imprenditoriale preesistente. Ma, quando essi avevano agito per conto della Sade, ne avevano coinvolto la responsabilità che, invece, sarebbe ricaduta interamente sull'Enel, quando fosse emerso che le condotte erano state poste in essere successivamente al 27 luglio 1963, data in cui il bacino era passato, appunto, in fatto e in diritto, all'Enel.

Il balletto delle perizie

La catastrofe, che ebbe una eco immensa in tutto il mondo, provocò quasi 2000 morti e distrusse praticamente Erto Casso e Longarone. Ebbe allora necessariamente inizio davanti al Tribunale di Belluno un'istruttoria a carico di dieci imputati tra i quali, ovviamente, sia i responsabili del bacino - e cioè Sade ed Enel - sia i funzionari ministeriali, ivi compresa la Commissione di collaudo istituita presso il Servizio dighe del ministero dei Lavori pubblici, sia, infine, l'ingegnere capo del Genio civile di Belluno. Il giudice istruttore nominò, necessariamente, un collegio peritale, composto dai professori Ardito Desio, Michele Gortani e Goss Cadisch, ai quali fu dato l'incarico di «accertare le cause prossime e remote del fenomeno».
Ebbene, le conclusioni della perizia, depositate il 15 novembre 1965, furono letteralmente disastrose per l'accusa, perché escludevano, tra l'altro, la stessa sussistenza dei reati di frana e di inondazione e, quel che è peggio, condensavano tutte le responsabilità negli ultimi giorni di settembre, fino alla tragica conclusione del 9 ottobre 1963. In tal modo, tutto l'onere del risarcimento dei danni ricadeva sostanzialmente sull'Enel, anche perché la responsabilità dell'ingegnere capo del Genio civile di Belluno era non solo ipotetica, ma secondaria e marginale. Il giudice istruttore, Mario Fabbri, che era una persona capace e onesta, non poteva accettare simili conclusioni e, dopo complesse e lunghe indagini e ricerche, nominò un nuovo collegio di periti, scelti tra i membri dell'Accademia di Francia.
Essi erano il professore Marcel Roubault, direttore della Scuola nazionale superiore di Geologia applicata dell'Università di Nancy, il professore ingegnere Alfred Stucky di Losanna, direttore del Politecnico di Losanna, dottore honoris causa in scienza delle costruzioni, ed Henry Gridel, professore di idraulica presso l'Università di Parigi. A questi fu aggiunto Floriano Calvino, professore incaricato presso l'Istituto di Geologia dell'Università di Padova. Resta da aggiungere che la nomina di tre membri dell'Accademia di Francia rendeva necessaria la traduzione in francese dell'immensa mole degli atti processuali.
E fu così che il 23 giugno 1967 fu depositata la seconda perizia, che travolgeva la perizia Desio, nonché le conclusioni della Commissione parlamentare di inchiesta - queste ultime messe addirittura in ridicolo - arrivando alla seguente testuale conclusione:
«L'ipotesi di una frana rapidissima della montagna del Toc non poteva essere esclusa e doveva essere considerata in tutte le sue drammatiche conseguenze; si può anzi dire, alla luce delle osservazioni che erano state fatte e dei fatti similari descritti nella letteratura, alcuni dei quali notori, che l'evenienza di una frana rapidissima era la più probabile.
In queste condizioni è incontestabile che dovessero essere prese le misure necessarie per salvaguardare le vite umane».
L'Accademia di Francia era stata degna delle sue grandi tradizioni: le considerazioni sulla gravità delle condotte colpose poste in essere, a cominciare dalla costruzione della diga senza le preventive necessarie indagini sulla solidità delle sponde del bacino, erano incontrovertibili. Nessuno era riuscito a influenzare le perentorie conclusioni degli accademici francesi.
<b>Le azioni legali</b><blockquote> E ora veniamo a un altro versante. I congiunti dei morti aventi diritto alla costituzione di parte civile e al risarcimento dei danni erano migliaia: risarcimento che spettava, naturalmente, anche ai comuni di Longarone ed Erto Casso, letteralmente devastati dalla gigantesca ondata. Ma non era pensabile, specie tenendo presente la necessità di avvalersi di consulenti tecnici, che una ridda di avvocati e di parti trovasse, non diciamo la concordia, ma l'accordo sulle nomine di consulenti tecnici di statura europea, cui era necessario rivolgersi per fronteggiare l'imponente apparato difensivo: a difendere gli imputati e i responsabili erano, infatti, schierati alcuni tra i migliori avvocati italiani e uno stuolo di consulenti tra i migliori d'Europa. Fu così che il Comune di Longarone costituì un consorzio tra i danneggiati dalla catastrofe del Vajont e nominò tre avvocati, ai quali tutti gli aventi diritto potevano rivolgersi gratuitamente per ottenere il risarcimento dei danni, fermo restando che chi voleva affidarsi a un avvocato di sua fiducia poteva farlo.
I tre prescelti furono:
- Giuseppe Bettiol, titolare della cattedra di diritto penale dell'Università di Padova, al quale fu in quella prima fase affidato anche il patrocinio del Comune,
- Ettore Gallo di Vicenza, pure docente universitario, poi divenuto presidente della Corte costituzionale,
- e chi scrive. Molti si chiesero perché fossi stato scelto proprio io, considerato fino a quel momento quasi un avvocato di provincia. Tale non ero avendo, tra l'altro, partecipato, come patrono di parte civile nell'interesse dei congiunti di dodici delle sedici vittime, al processo per la strage di Piazza Fontana. Ma ero stato sconfitto, perché tutti gli imputati erano stati assolti. Comunque, la ribellione alla mia nomina fu molto diffusa, in tutti i settori, grande stampa compresa.
Ed ecco la spiegazione del mio ingresso in questa causa, la più difficile e la più impegnativa della mia vita. Tra coloro che avevano diritto a costituirsi parte civile vi erano i fratelli Galli che, dopo il 9 ottobre, avevano trovato, alla deriva, sul Piave, il corpo della madre, ma non quello del padre, scomparso per sempre. Erano l'anima dell'accusa: non aspiravano a ottenere risarcimenti più o meno cospicui, ma la condanna di chi aveva fatto morire il padre e la madre, tenendo condotte letteralmente imperdonabili dalle quali era derivata quell'autentica tragedia familiare. Sapevano che la difesa era molto forte e, soprattutto, molto potente: temevano accordi fraudolenti, aggiustamenti e compromessi obliqui.
Si consultarono dunque con un grande avvocato di Padova che, per avventura, era un mio vecchio compagno di Università: mi stimava e mi voleva bene, e suggerì il mio nome. Mi sentii coinvolto, dunque, non solo e non tanto sotto il piano professionale, ma anche morale, civile e umano. E compresi subito che la prima battaglia si combatteva sul piano tecnico.

Cominciò così il mio pellegrinaggio per arruolare i più autorevoli esperti in idraulica e geomeccanica d'Europa, tenendo presente, appunto, che i periti d'ufficio erano di fama e livello internazionale, ma che, in Italia, era molto difficile trovare chi fosse disposto a sostenere le nostre ragioni. Vi era di più: essendo nel frattempo intervenuta la nazionalizzazione dell'energia elettrica e, conseguentemente, l'attribuzione all'Enel della proprietà, per così dire, di tutti gli impianti idroelettrici capaci di produrre energia, l'accettazione da parte di scienziati italiani di un incarico, che possiamo definire accusatorio, diventava del tutto improbabile.
Ricordo, infatti, che un professore, titolare di una cattedra prestigiosa, ribadendo il suo rifiuto, mi disse testualmente: «Lei non può pretendere che io mi metta contro il mio unico possibile datore di lavoro».
Cominciò così il mio pellegrinaggio in America e in Europa, sulla scorta delle indicazioni di un acutissimo, sorprendente scienziato francese che, pur essendo colpevolista acceso, non poteva, per ragioni sue, accettare un incarico ufficiale. Mi incontravo con lui - che abitava nell'Alta Savoia - a Susa, e ricordo bene che, in un colloquio avvenuto tra il 16 e il 17 luglio 1966, mi disse che era disposto a redigere un documento fondamentale per l'accusa dell'ampiezza di circa dieci-quindici pagine che, però, doveva essere trasfuso in una memoria come se fosse stato redatto da me: e fu quello che feci. In tale occasione mi disse che, negli Stati Uniti, vi era un'Autorità, la U.S. Geological Survey, che aveva il compito di sorvegliare le condizioni di sicurezza delle più grandi dighe degli Stati Uniti, e a capo della quale vi era un famoso professore, Willard J. Turnbull.

Presi allora contatto, tramite la nostra Ambasciata a Washington, con Turnbull che si dichiarò disposto ad accettare l'incarico di consulente nell'interesse dei congiunti delle vittime, anche perché conosceva perfettamente la storia e i fatti della tragedia di Longarone, che aveva avuto grande risonanza in tutto il mondo. Vi era peraltro una difficoltà da superare. Nel momento in cui aveva assunto l'incarico dal governo degli Stati Uniti, concordando uno stipendio astronomico, quale responsabile, appunto, del funzionamento e dell'esercizio delle grandi dighe americane, aveva anzitutto dovuto dichiarare sul suo onore di non possedere azioni di nessuna delle grandi compagnie proprietarie delle dighe. Ma aveva anche dovuto assumere l'obbligo inderogabile di non lasciare il territorio degli Stati Uniti senza il permesso del governo, attesa la funzione, per così dire, di garante della sicurezza nazionale, con riferimento, appunto, a quelle grandi dighe. Era, dunque, il governo italiano che doveva chiedere a quello americano di accordare al professor Turnbull il permesso di lasciare, sia pure per i brevi periodi necessari, l'America. Noi ci rivolgemmo allora al ministero degli Esteri perché formulasse la formale richiesta al governo americano di autorizzare il professor Turnbull a lasciare il territorio americano e venire in Italia. E ciò non solo perché senza una conoscenza diretta dei luoghi della tragedia non avrebbe mai potuto espletare l'incarico, ma pure in quanto avrebbe dovuto necessariamente assistere alle operazioni peritali dell'Accademia di Francia, che si sarebbero svolte a Nancy, e, soprattutto, partecipare al dibattimento in Italia. Ma la risposta di Roma fu negativa, il che dette origine a una interpellanza parlamentare, in cui si leggeva, tra l'altro:

«I sottoscritti chiedono di interrogare il Presidente del Consiglio dei Ministri ed il Ministro degli Affari Esteri, per sapere se sono a conoscenza del profondo disagio e della viva protesta che ha suscitato nel comune di Longarone e tra le popolazioni colpite dalla catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963, la comunicazione con la quale si è reso noto che «il Ministero degli Esteri non ravvisa la possibilità di promuovere un passo ufficiale presso il governo americano, al fine di ottenere che il signor Willard J. Turnbull sia autorizzato a prestare la propria opera in relazione al processo per il disastro del Vajont». Il comune di Longarone, infatti, dopo aver interpellato numerosi scienziati italiani e dell'Europa Occidentale ed averne constatato purtroppo un sistematico rifiuto, si era rivolto al capo del servizio di Stato in America per il controllo e la sicurezza dei bacini artificiali, noto negli ambienti scientifici, per avere un'assistenza in sede tecnica e peritale per i procedimenti in corso nei confronti dei responsabili della catastrofe del Vajont. Solamente un passo ufficiale del governo italiano verso quello statunitense, come vuole la prassi trattandosi di un funzionario di uno Stato estero, poteva rendere formale e, quindi, attuabile la richiesta del Comune di Longarone».
Gli interroganti chiedevano di sapere infine:
«come possa conciliarsi siffatto comportamento del Governo, di cui il comunicato del Ministero degli esteri, nei confronti della richiesta del comune di Longarone è l'ultimo grave atto, con la ricerca della verità e della giustizia ancor recentemente promesse dal Presidente della Repubblica nel corso della sua visita a Longarone, e tanto attese dalle popolazioni colpite e dall'opinione pubblica di fronte a duemila vittime e a un disastro di così immani proporzioni».
Gli interroganti Busetto, Alicata, Lizzero e Vianello, parlamentari comunisti, avevano ragione da vendere: infatti, il rifiuto del Governo italiano di aiutare le famiglie delle vittime e il Comune di Longarone a ottenere giustizia parlava a volumi sul degrado morale dell'Italia. Ma fu necessario arrendersi.
Il nostro consulente riservato, il «professor B», mi fece allora presente, dopo il fallimento della missione americana, che si poteva tentare a Praga: in quella Università vi erano tecnici di grande valore e, in particolare, i professori Theodor Jezdik e Ladislav Votruba, titolari della cattedra di Idrotecnica, la cui collaborazione poteva risultare preziosa. Ma per andare a Praga era necessaria la «benedizione» del Pci, che non tardai ad ottenere, anche perché il Partito comunista aveva cavalcato la protesta, facendone un cavallo della battaglia contro il «regime democristiano», cui veniva attribuita la responsabilità della tragedia, anche se aveva commesso il consueto errore di politicizzare troppo la causa, fornendo così preziosi argomenti alla difesa.

Da parte mia, invece, intendevo affidarmi interamente ai dati tecnici, che sapevo essere indiscutibilmente favorevoli alla tesi dell'accusa: volevo insomma riportare la vicenda processuale nel suo naturale solco giuridico, al di fuori e al di là di ogni implicazione politica, ma avevo bisogno di tecnici di cui avrei potuto avvalermi solo con la «protezione» del Pci.
Presi così contatto direttamente, tramite i vertici del Pci con l'Ambasciata della Cecoslovacchia a Roma e, dopo avere ottenuto tutti i visti necessari, accompagnato dall'amico Luciano Galli, che era l'animatore dell'accusa «privata», mi recai a Praga dove, dal 7 all'11 gennaio 1966, incontrai Jezdik e Votruba, che mi presentarono anche il collega Alois Myslivec.
I colloqui con gli scienziati cecoslovacchi si svolsero con estrema franchezza e facilità, grazie anche a un interprete italiano che, durante la guerra, era stato per anni in quelle regioni come partigiano e, poi, si era fatto una famiglia. Rientrato in Italia, si era sposato, ovviamente con un'altra donna. Aveva perciò due famiglie - con figli e mogli - una in Italia e l'altra, appunto, a Praga: l'una sapeva dell'altra, ma entrambe avevano rimosso questo particolare, consentendogli due vite assolutamente indipendenti. E tutto funzionava a meraviglia.
Torniamo alla nostra storia.
Fortunatamente gli scienziati cecoslovacchi avevano studiato - e bene - il francese, sicché fu possibile utilizzare la traduzione di tutti gli atti, che era stata disposta per rendere possibile l'intervento dell'Accademia di Francia.
Per rendere completa e decisiva la collaborazione degli scienziati cecoslovacchi dovetti tornare più volte a Praga, sempre accompagnato dall'amico italiano e dall'interprete con due famiglie. Debbo ricordare che durante tutta la nostra permanenza a Praga eravamo sorvegliati e seguiti, ovunque ci recassimo, per tutta la giornata. E, cosa incredibile a dirsi, allo Yalta Hotel, dove alloggiavamo e dove l'unica lingua straniera parlata era il francese, le «guardie» occupavano le stanze confinanti con le nostre e ci sorvegliavano discretamente anche di notte.
Una sera, a Praga, assieme all'amico Galli e all'interprete, ci recammo in una sorta di locale notturno, con ballerine abbastanza scoperte. Ma anche in quell'occasione fummo accompagnati dalla «scorta», che non ci lasciò mai: non avevo mai vissuto un'esperienza simile, che dimostrava, inconfutabilmente, quale fosse il vero volto delle «democrazie popolari». [...] Ma i due consulenti trovati a Praga non bastavano, e così continuò il mio pellegrinaggio in Europa, a Lisbona, Parigi, Vienna, Grenoble, Zurigo, città, quest'ultima, nella quale presi contatto con un professore di fama europea che però rifiutò l'incarico di consulente di parte, dichiarandosi disposto ad accettare soltanto l'incarico di perito d'ufficio, ben sapendo che era stato affidato ad altri. Reclutammo, per così dire, tra l'altro, i professori Jacques Verdeyenne, titolare della cattedra di geologia presso l'Università di Bruxelles, ed Ervin Nonveiller, titolare della cattedra di geomeccanica presso l'Università di Zagabria. Aggiungasi che i nuovi periti d'ufficio - dell'Accademia di Francia - facevano i loro esperimenti a Nancy, città nella quale dovetti recarmi più volte coi nostri consulenti cecoslovacchi.
Si trattò, dunque, più che di una vicenda processuale, di una «storia» che riempiva la mia vita: sentivo di essere non tanto una parte processuale, quanto il rappresentante di un'altra Italia, quella «ideale», e debbo confessare che mi sentivo degno di quella che, per me avvocato, era una sorta di missione.

Tornando al processo, l'istruttoria condotta dal giudice istruttore Mario Fabbri si concluse col rinvio a giudizio davanti al Tribunale di Belluno di otto imputati, chiamati a rispondere dei reati di frana, di inondazione, di omicidio colposo plurimo: reati tutti aggravati dall'avere gli imputati «agito nonostante la previsione dell'evento» (art. 61 n. 2 C.P.). E ciò rendeva letteralmente enorme lo spessore della colpa, a prescindere dalle conseguenze giuridiche. La sentenza del giudice istruttore Mario Fabbri cominciava col citare la Genesi:

«In quel giorno le acque eruppero.... ingrossarono e crebbero grandemente e andarono aumentando sempre più sopra la terra... e sorpassarono le vette dei monti. E ogni carne che si muove... tutto quello che era sulla terra asciutto, e aveva alito vitale nelle narici, morì». (Genesi, 7- 11, 18, 22).
Ed ecco la conclusione:
«Nel corso della lunga discussione, più di una volta, ci siamo imbattuti in difficili interrogativi, ai quali abbiano risposto per la parte di nostra competenza, senza tuttavia non segnalare quelli - di diversa natura - che da altri esigevano una risposta. E ciò abbiamo fatto per l'ossequio dovuto alla Giustizia che - come altrove dicemmo – è sinonimo di civiltà. Perché, anche ciò riteniamo rientrare nel preciso ed ineludibile dovere dei giudici: dovere giuridico e morale, se non vogliamo che in avvenire, in nome del progresso tecnico, dell'esigenza produttiva dello Stato, del profitto di pochi o di molti, i nostri stessi figli siano testimoni e vittime di analoghe tragedie».
L'abbiamo citata per esteso perché è una delle sentenze più degne che, in più di mezzo secolo di professione, io abbia letto: tra l'altro era, sul piano logico e giuridico, argomentata molto meglio di tutte le sentenze collegiali successivamente intervenute.

A istruttoria conclusa, la Procura generale di Venezia ritenne che il processo non potesse essere celebrato a Belluno, perché valutava che i 2000 morti rendessero impossibile lo svolgimento sereno del processo. E chiese allora alla Corte suprema che fosse designato altro giudice, che fu individuato nel Tribunale di L'Aquila: iniziativa, questa, sulla quale i giudizi furono, e restano, molto diversi. Il processo ebbe inizio il 25 novembre 1968. Le parti civili erano, per la maggior parte, appunto, assistite dall'avvocato Giuseppe Bettiol, che rappresentava anche il comune di Longarone, dal professor Ettore Gallo e da me: anche i comuni di Erto Casso e Castellavazzo si erano costituiti parte civile.
Ma la cosa più singolare era che lo Stato aveva due posizioni letteralmente opposte. Da un lato, infatti, si era costituito parte civile con l'Avvocatura distrettuale dello Stato di L'Aquila, chiedendo il risarcimento di tutti i danni che aveva subito in seguito al disastro (erano, oltretutto, andate distrutte opere pubbliche e strade statali).
Dall'altro lato lo Stato era, per così dire, dalla parte di alcuni imputati, perché, qualora fosse intervenuta la condanna dei componenti della Commissione di collaudo, o dei funzionari ministeriali coinvolti del Servizio dighe, oppure dell'ingegnere capo del Genio civile di Belluno, ciò avrebbe comportato la sua responsabilità civile. E perciò doveva essere assistito dall'Avvocatura dello Stato.

Fu scelta l'Avvocatura di un altro capoluogo di regione, ma le due posizioni, in cui veniva a trovarsi lo Stato, al tempo stesso creditore e debitore [contemporaneamente guardia e ladro, giudice e imputato, assassino e vittima, n. di Tiziano], erano e restavano opposte. Il che rendeva sempre attuale la constatazione di Longanesi che l'Italia è la patria del diritto, ma anche del rovescio. E fu una vera fortuna che l'avvocato dello Stato, che rappresentava l'accusa, fosse uomo di eccezionale valore giuridico e umano: Vincenzo Camerini. Resta da aggiungere che alle udienze partecipavano anche moltissimi cittadini di Longarone - congiunti dei morti - che si trasferivano a L'Aquila e vivevano il processo come un loro dramma. Il processo si fermò a lungo sulle cosiddette questioni pregiudiziali, in particolare sull'eccezione di nullità della perizia dell'Accademia di Francia. Si sosteneva, infatti, che, essendo i periti cittadini stranieri, questi non avrebbero potuto assumere in Italia la qualità di pubblici ufficiali, indissolubilmente correlata alla loro qualità di periti d'ufficio. Ma proprio la natura esclusivamente formale di quell'eccezione rendeva evidente la consapevolezza che eravamo di fronte a condotte colpose di inusitate dimensioni.
A cominciare dagli uomini della Sade, che senza essere certi della solidità delle sponde del bacino, avevano costruito la diga e chiesto gli invasi pur conoscendo, per fare solo un esempio, il quindicesimo rapporto Müller che prevedeva la concreta eventualità di rinunciare all'esercizio del bacino. Il fatto che la Sade fosse nel processo una parte non giustificava certamente quelle condotte.
Ma certamente più grave era stato il comportamento dei «ministeriali», che autorizzando gli invasi pur conoscendo la situazione di estrema pericolosità del bacino, avevano avuto un ruolo determinante nella causazione dell'evento, pur essendo funzionari di Stato cui era affidata la tutela della pubblica incolumità. [....]

Giudizio di appello

Mi preparai comunque con ogni forza al giudizio di appello che ebbe inizio davanti alla Corte di appello de L'Aquila il 25 novembre 1968. E le mie responsabilità erano di molto aumentate perché avevo assunto, nel frattempo, anche il patrocinio dello stesso comune di Longarone, in sostituzione del professor Giuseppe Bettiol.
Il processo fu lunghissimo e si concluse solo il 3 ottobre 1970: la Corte, operata la separazione nei confronti di Curzio Batini, gravemente infermo, e poi deceduto nel corso del processo, dichiarava finalmente il Biadene colpevole anche dei reati di frana e di inondazione a lui ascritti, con l'aggravante di avere «agito nonostante la previsione dell'evento». E lo condannava alla pena complessiva di sei anni di reclusione.
La pena, che gli era stata inflitta in primo grado per il solo reato di omicidio colposo, veniva divisa in due parti, ma restava identica: fu condannato, infatti, a un anno di reclusione per la frana, due per l'inondazione, tre per l'omicidio colposo. Sei anni, insomma, come in primo grado. Non è il solo aspetto grottesco di tutta questa vicenda processuale.

Venendo ora alle responsabilità civili, le conseguenze erano di grande rilievo, perché comportavano sia la responsabilità civile della Sade e, conseguentemente, della Montedison, sia dello Stato. Infatti, anche la Commissione di collaudo, con la conseguente responsabilità civile dello Stato, veniva coinvolta nella persona di uno dei suoi membri, l'ingegner Sensidoni - ispettore generale del Genio civile presso il Consiglio superiore dei Lavori pubblici - che veniva condannato alla pena di quattro anni e sei mesi di reclusione, essendo stata ritenuta sussistente, anche per lui, l'aggravante della previsione dell'evento. La pena fu, per così dire, distribuita: dieci mesi per la frana, un anno e otto mesi per l'inondazione, due anni per l'omicidio colposo. Mai tragedia e farsa furono così vicine.

Degli altri due membri della Commissione, Penta era nel frattempo deceduto, e Frosini, di cui era dubbia la partecipazione alle decisioni, fu assolto per insufficienza di prove. La sentenza veniva depositata in Cancelleria il 5 gennaio 1971, quando, tenendo presente che gli imputati avevano fruito delle attenuanti generiche, gravava sul processo l'ombra della prescrizione, destinata a maturare il 9 aprile 1971.
E, per ottenere una fissazione rapidissima, fu giocoforza impegnarsi a fondo, ricorrendo ad alcuni interventi a muso duro: è necessario ricordare che talvolta bisogna vestire i panni degli ingiusti soldati della giustizia. Comunque, il processo davanti alla Corte suprema ebbe inizio il 15 marzo 1971 e si concluse con la sentenza del 25 marzo, che rigettava i ricorsi e, confermando la sussistenza dell'aggravante della previsione dell'evento, attribuiva la responsabilità civile oltre che all'Enel - responsabile civile per le condotte posteriori al 27 luglio 1963 - anche alla Sade e, conseguentemente, alla Montedison, che ad essa era subentrata, nonché alla Commissione di collaudo e, conseguentemente, allo Stato.
I condoni successivamente elargiti ridussero praticamente a zero le pene detentive, ma, come si usa dire, i princìpi erano salvi.

Infatti, nella sentenza della Cassazione si legge finalmente:

«In tema di esercizio lecito di attività pericolose il parametro di valutazione della condotta del soggetto deve essere rapportato alle cognizioni e capacità di chi abbia una particolare attitudine a prevedere gli eventi lesivi che l'attività è suscettìbile di provocare, ma nell'esercizio di tali attività non è comunque consentito porre a rischio l'incolumità di persone estranee all'attività medesima o dell'intera collettività ».
Un ricordo ancora. Quando si stava discutendo in Cassazione mancavano pochi giorni alla prescrizione. Taluni difensori «celebri» discutevano molto a lungo e le udienze si protraevano fino a sera: un avvocato si interruppe alle ore 22, riservandosi di parlare il giorno dopo, dicendosi stanchissimo. Ma il presidente Rosso gli disse che l'udienza sarebbe continuata - dopo la sosta di un'ora, per concedergli di riposare - fino all'esaurimento; e questo indusse quel celebre difensore a non oltrepassare la mezzanotte. Fui soddisfatto di quella decisione, perché il fatto che il Presidente non volesse togliere la parola anche a chi parlava troppo mi convinse che la Corte avrebbe rigettato tutti i ricorsi. Resta solo da aggiungere che l'Enel aveva anticipato a molti tra i familiari delle vittime aventi diritto al risarcimento del danno la somma di dieci miliardi di lire, assicurandosi peraltro il diritto di rivalsa nei confronti degli altri corresponsabili, e cioè la Montedison, subentrata alla Sade, e lo Stato. La maggioranza aveva infatti accettato risarcimenti modesti, facendo propria una vecchia massima di esperienza: pochi, maledetti, ma subito. Ma la controversia civilistica relativa alla ripartizione dell'intero onere risarcitorio fra i tre soggetti obbligati - lo Stato, la Montedison e l'Enel - restava sempre insoluta, anche perché lo Stato, come abbiamo visto, aveva due parti in causa. E si è conclusa soltanto, incredibile a dirsi, a distanza di decenni, tra il 1999 e il 2000, grazie all'intervento decisivo di Giuliano Amato, presidente del Consiglio. La soluzione fu salomonica: un terzo a ciascuno dei tre soggetti civilmente obbligati. E così il Comune ottenne, sia pure con un ritardo tutto italiano, i miliardi che gli spettavano.

Per quello che ho fatto in questa battaglia processuale, che resta la più difficile della mia vita, mi è stata conferita, nella sala consiliare del Comune di Longarone, il 9 ottobre 2003, a 40 anni dalla strage, la cittadinanza onoraria, alla presenza del presidente Ciampi, con la seguente motivazione:

«Per la lunga, generosa e proficua opera, condotta per oltre trent'anni come legale del Comune di Longarone nei procedimenti giudiziari conseguenti al disastro del Vajont, opera condotta con grande impegno e passione in difesa della memoria delle Vittime, volta alla soddisfazione dell'esigenza di verità e di giustizia della comunità superstite, e continuata poi nel prezioso aiuto fornito al Comune nella delicata conclusiva fase degli accordi transattivi intesi a risarcire Longarone dei danni subiti».
È stato un giorno di commozione, ma, per arrivare a una giornata di luce, sono state necessarie troppe giornate di ombra cupa.
Mai disastro era stato tanto umanamente e chiaramente previsto: e il fatto che siano occorsi anni ed anni perché una punizione irrisoria raggiungesse alcuni tra i colpevoli e trent'anni di liti per chiudere tutti i risvolti civilistici accresce, se possibile, la gravità della tragedia.

(Una) conclusione

Ho narrato una storia che non riguarda soltanto una vicenda giuridica, ma parla dell'Italia, dei suoi drammi che si ripetono sempre, e con la stessa intensità, in diversi settori, ancorché senza esclusione della possibilità di «miracoli». Il che si verifica ogni qual volta pochi uomini onesti riescano a stabilire, sia pure con molta fatica, un equilibrio, peraltro assai instabile.
L'Italia resta, comunque, uno Stato nel quale ogni tanto bisogna cambiare qualcosa perché tutto resti come prima. Mi sia consentito di ricordare la conclusione della mia arringa in primo grado davanti al Tribunale de L'Aquila, che poi mi dette rovinosamente torto:

«...Questi essendo i fatti, io credo di poter affermare che una società e uno Stato che assolve costoro, pronuncia contro se stesso la più dura ed inesorabile sentenza di condanna. Non farò retorica nel finale perché ritengo che sarebbe offensivo per la memoria dei morti. Vorrei solo ricordare che, in una pagina non dimenticata, Croce scrisse che noi non possiamo non sentirci cristiani. A questo pensava, ricordando l'inizio del Vangelo di Giovanni, non nella traduzione di San Girolamo, che tante volte abbiamo sentito, ma nell'originario testo greco, il solo che dia il vero senso di una prodigiosa intuizione. Solo la lingua greca rende adeguatamente il concetto, che può essere così enunciato: all'inizio e a sostegno di tutto vi è la capacità raziocinante dell'uomo, «il logos»; ma se «il logos» non è assistito da una volontà morale o religiosa - sostanzialmente equivalenti - che lo sostenga e lo ispiri, solo se la Sapienza diventa Dio, l'umanità sarà salva.
In questo senso la sentenza che vi preparate ad emettere è una sentenza religiosa»
Le follie tecniche e senza volontà morale dei nostri tempi mi rendono orgoglioso di quell'inascoltata conclusione.


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