Fonte: Epoca speciale/ott1963

LA STORIA DI UNA NOTTE MALEDETTA

Tutto fu orribilmente assurdo. Un vento spaventoso precedeva la muraglia d'acqua, che avanzava col rumore di mille treni. Automobili fluttuavano più in alto dei tetti. Le rotaie si torcevano a spirale. Edifici scomparivano lasciando un terreno raso come una pista da ballo. Corpi e oggetti si amalgamavano al terreno. Anche i feriti furono pochissimi: essere catturati dal vortice grigio significava la morte senza scampo.

di Brunello Vandano


Longarone, ottobre   

Al crepuscolo del 9 ottobre l'autista Giovanni Pradella tornava al suo paese, Longarone, quando vide d'un tratto le lepri in fuga.

Si andava spegnendo il verde del lago artificiale, mentre gli alberi sul fianco ripido del monte Toc, si tingevano di bronzo un attimo prima di mutarsi in un blocco di tenebre. In quel tempo che ormai sembra lontanissimo, la sera del 9 ottobre 1963 ancora una comoda strada che veniva da Cimolais costeggiava il bacino del Vaiont, scendeva dinanzi alla diga e passava sulla riva opposta del Piave presso Longarone. I molti turisti che la frequentavano potevano sostare sul bordo della diga e ammirare una delle più grandi opere d'ingegneria in Europa, volgendosi poi da un lato al lago incastonato tra due montagne, dall'altro all'abisso che s'apriva sul fiume lattiginoso. Lungo quella strada, la sera del 9 ottobre, le lepri si avviarono freneticamente chissà dove.

Sulla riva settentrionale del bacino non s'incontrava molta gente. I due paesi di Erto e Casso, con le loro frazioni, erano centri isolati piccoli e tranquilli. Di fronte, sulle pendici del monte Toc, vivevano pochi contadini in cascinali sparsi, e i sessanta tecnici e operai del bacino erano quasi invisibili nel loro formicaio. Abitavano in casette basse con le loro famiglie, e quelli di guardia s'aggiravano nelle cabine costruite sul ciglio della barriera alta 261 metri, e nello stesso spessore della diga, percorso da gallerie e munito pure d'una cabina blindata di emergenza. Ma da molti giorni un'ansia univa quella popolazione così dispersa. Si diceva che i tecnici dell'ENEL - o della SADE che aveva costruito la diga e che dall'ENEL era stata assorbita - tenessero d'occhio fessure e movimenti del monte Toc.
A Erto era stato affisso un manifesto che consigliava cacciatori e pescatori di non avventurarsi sulle sponde del lago, e che a un certo punto assumeva un tono cupo parlando di frane e di «onde paurose» che sarebbero potute salire per decine di metri. Dal fianco del Toc erano stati sgomberati d'autorità i pochi abitanti: non tutti, perché i più anziani si erano nascosti. Quella sera, poi si parlava di una telefonata fra la diga e gli uffici della SADE a Venezia, e di una centralinista che aveva intercettato questa frase: "Qua, fra poco, 'ndemo tuti in malòra". Pattuglie di carabinieri serpeggiavano silenziose lungo i costoni. Ma pareva comunque che il pericolo riguardasse solo i cacciatori, i pescatori e i pochissimi abitanti del monte Toc.

L'autista Pradella, scendendo verso Longarone, vide una lepre in fuga, poi subito un'altra, e altre ancora. Non è cosa insolita, in quei luoghi, scorgere un guizzo di lepre. Ma quelle 11, tutte assieme, erano troppe. E non fuggivano per via della macchina, anzi, pareva che al rombo e ai fari non dessero alcuna importanza. Non cercavano di rifugiarsi nel folto, ma seguivano la strada per far più presto. Quelle lepri se ne andavano, emigravano. Il giorno avanti, il contadino Berzan era stato preso in giro quando aveva raccontato in che modo le sue mucche lo avevano guardato. Tutti notavano che il bestiame era diventato nervoso. Ma secondo Berzan le sue mucche, quando a fatica le aveva rinchiuse, lo avevano guardato con odio e disperazione, come a supplicarlo: «Lasciaci andare».

0A Longarone, che era quasi una cittadina, piena di edifici moderni, di stabilimenti industriali negozi e ritrovi, non c'erano bestie da stalle o da cortile. Però due sorelle di mezza età che pur abitando quasi al centro avevano un pollaio, s'erano accorte che le loro galline erano «diventate cattive». Ma la sera del 9 dimenticarono quell'osservazione spiacevole perché arrivò in vacanza la loro sorella più giovane, che faceva la cameriera in Svizzera.

Alla stessa ora, il gelataio Giacomo Filippin era giunto con la moglie dalla Germania per passare l'inverno accanto ai numerosi parenti.
I gelatai di Longarone sono specialisti apprezzatissimi nell'Europa del Nord, dove molti di loro svolgono lavoro stagionale tornando poi a casa in autunno. La maggior parte dei gelatai era rientrata in quei giorni, e il paese con loro aveva acquistato una maggior vivacità, fatta di incontri festosi con gli amici per le vie, di abbracci coi parenti, di bevute di grappa nei prosperi bar del centro. Appunto davanti a un bicchiere di grappa, Filippin parlò agli amici della Germania: un Paese ricco, modernissimo, impareggiabile nella tecnica. Però anche in Italia si andava di corsa, e si facevano cose che pure i tedeschi ci potevano invidiare. «Per esempio», disse facendo un cenno in direzione del Piave «una diga come quella». D'un tratto provò uno strano brivido, e il suo cuore divenne più freddo dei suoi gelati. Bevve d'un fiato la sua grappa, e non ci pensò più.

La sera era dolce, una serata da golf e da soprabito leggero, appena velata da quella malinconia autunnale che induce alle riunioni affettuose. Un vecchio, magrissimo ma duro e scattante come un motorino, Arduino Burrigana, era rientrato dal lavoro alla Cartiera di Verona, dov'era capo officina. Confessava alla moglie - anziana, magrissima e solida come lui - di cominciare a sentirsi un po' stanco. Però amava la sua cartiera, e se un giorno avesse dovuto lasciarla ne avrebbe provato troppa nostalgia. Poche ore dopo avrebbe pensato alla fabbrica in modo mostruosamente diverso. Non si può infatti provare nostalgia, e nessun sentimento immaginabile, per una cosa che è stata cancellata senza che ne resti la minima traccia, come se non fosse mai esistita.

Solo i lumi fiochi dei custodi indicavano ormai gli edifici industriali della zona: la segheria Protti, lo stabilimento Ilom, la Procond, la Cartiera, e più a sud, a Faé, la fabbrica del materiale che da quel paese ha preso il nome, la 'Faesite'. Tutti gli abitati della valle, Longarone, Castellavazzo più a monte, verso sud Villanova, Pirago, Faé, e Codissago sulla riva di fronte, erano illuminati gioiosamente. Il brusio che fondeva le chiacchiere, i richiami, le note dei juke-box, i rumori delle automobili e dei motoscooters, gli schiocchi delle palle da biliardo, e il vociare impastato che trapelava dal cinema, cancellava il bisbiglio del Piave, che pareva scomparso nel buio con i suoi greti interminabili.
A Longarone taceva soltanto l'asilo, ora che i bambini erano tutti nelle loro case. Suor Pia Antonia, suor Arcangela e suor Lucina avevano chiuso il giardinetto ove ciangottava una fontanella, e l'ingresso fatto ad «elle», dipinto in celeste di cui erano assai orgogliose. Avevano controllato il refettorio, la sala da giuoco, la cucina e le aule e in fila dietro la superiora, suor Gianluigia, erano salite al terzo piano per andare a dormire.

I bambini erano piuttosto agitati, quella sera, ma per molti c'era un motivo: certe palle di gomma arancione, di cui era pieno il negozio di giocattoli, che parecchi di loro s'erano fatti comprare, e che non volevano smettere di far rimbalzare contro i muri.
Christian Da Cas, quattro anni, aveva invece una ragione personale per far dannare sua nonna. Il giorno seguente doveva partire per raggiungere i genitori in Francia, ove suo padre lavorava a La Garenne-Colombés. Era eccitatissimo, e durante il giorno aveva fatto notare ai suoi compagni di giuoco che lui era diverso dagli altri bambini del paese perché il suo nome portava una «h» (come la nonna gli aveva spiegato) mentre nessun altro fra loro poteva vantare un suono così strano nel nome. Un'altra persona, lontana da lui qualche chilometro e agli antipodi per età, si preparava tutta eccitata a partire: una vecchina ottantunenne di Castellavazzo, che aveva deciso di andare a trovare i suoi ventuno parenti: figli, nuore, generi, nipoti e pronipoti. Stavano tutti a Longarone, si può dire a pochi passi, ma a lei quella gita pareva una grande avventura.

Pareva che tutto fosse acqua in movimento

Da La Roggia, l'estremità nord di Longarone, la signorina Irma Pradella si avviò al centro per incontrarsi con le amiche. La madre le aveva raccomandato di tornare a casa presto, e lei l'aveva rassicurata con distratta e blanda convinzione, come fanno tutti i figli in quei casi. Ma poco dopo ebbe l'impulso di tornare: le era parso che nell'esortazione di sua madre suonasse qualcosa d'inconsueto. Pensò che l'ansia era la caratteristica di tutti i genitori, andò fino al centro e trovò le amiche.

0Nel paese, un viavai di uomini e giovanotti. Andavano tutti nei caffè o nelle case di amici per assistere alla partita di calcio Real Madrid contro i Glasgow Rangers, che alle 21,55 sarebbe stata trasmessa in televisione. Solo un giovanotto sembrava disinteressarsene. A cavallo d'una motoretta, pronto a partire, rispondeva scherzosamente alla madre che dalla finestra cercava di dissuaderlo dicendogli a bassa voce che «non era bene». Dall'interno della casa il padre disse di lasciarlo fare, che i giovani dovevano sbrigliarsi e che anche lui, alla sua età... Il ragazzo fremeva: doveva andare in un altro paese, a Perarolo, dove avrebbe trascorso la notte presso la sua innamorata. E la madre, che aveva capito, non voleva sentire ragioni. Però d'un tratto la donna cambiò idea, gli disse dolcemente: «Ma vai, vai», e sospirando chiuse la finestra.

Tutti avevano l'aria di divertirsi. Non si divertiva invece Irma Pradella, che l'ansia di sua madre, pur essendo quella di sempre, aveva contagiato. Senza sapere il perché, salutò le amiche e tornò in fretta a casa mentre nelle strade che si andavano vuotando, rimbombava la voce dello speaker che da tutti gli apparecchi televisivi del paese commentava le prime schermaglie della partita. Nelle pause di silenzio si sentiva il fruscio del Piave. Lo ascoltava (e del resto lo aveva sempre nell'orecchio) un signore paralitico che abitava sull'altra riva, in una delle prime case di Codissago. Suo figlio era andato al caffè per vedere la partita, e sua moglie sfaccendava prima di andare a letto. Così immobilizzato, si sentiva sovente un po' solo, specialmente alla sera. Chiuse gli occhi per udire ancor meglio il rumore della corrente, un suono di continuità e quasi di vita, che gli teneva sempre compagnia e non lo avrebbe mai lasciato.

L'autista Giovanni Pradella, che aveva dimenticato le lepri emigranti, poco prima delle 22.30 andò a cercare i suoi due fratelli al caffè. Faceva un po' freddo, ed ebbe una sensazione gradevole entrando nel locale denso di fumo e di odore di grappa, ove una piccola folla in penombra era rivolta al teleschermo. Trovò i fratelli e li invitò a tornare a casa. Scherzava? Gli scozzesi erano ormai polverizzati, ma i "ricami" di Gento, Puskas e Di Stefano erano così spettacolosi che loro due se li volevano godere fino in fondo. I suoi fratelli tornarono a fissare il televisore e non gli diedero più retta.
Giovanni si avviò alla sua casa nella parte alta del paese. Verso la collina, e a buona distanza da lui camminava un altro autista, Mario Sacchetti. Dipendente dell'ENEL, aveva lavorato fino alle dieci, e al momento di andarsene un assistente gli aveva chiesto di accompagnarlo con la macchina alla diga. Ma la sua macchina non funzionava, e l'assistente era dovuto partire con un'altra automobile. Stanco com'era, Sacchetti pensava tra sè di averla scampata bella; e non sapeva fino a qual punto l'avesse scampata davvero, quella sera.

Giovanni Pradella entrò in casa andò in camera da letto e stava cominciando a spogliarsi, quando vide che lo specchio si muoveva. In un modo irreale, sinistro, e che gli fece subito rammentare le lepri. Erano le 22,40. «Sarà un terremoto», si disse. Poi udi uno scroscio. Era scroscio d'acqua, ma così forte e immenso che l'orecchio si rifiutava d'udirlo tutto. Si dilatava alle spalle, intorno, sopra la testa, all'infinito. Gli sembrò che tutto l'universo fosse d'acqua in movimento, e lui si trovasse al centro in una sorta di bolla. La finestra s'era spalancata.
Simultaneamente, nella casa della signora Carmela Bratti, anch'essa in alto, si spalancò la finestra della camera da letto. Quindi, come braccato da un urlo insostenibile qualcosa cercò rifugio nella stanza irrompendo dalla finestra e piombando al suolo con un rumore da esplosione. Seduta sul letto, la signora Bratti restò come inchiodata a guardare l'oggetto: era una cucina a gas.

La nuvola bianca inseguiva le prede come una belva

Giovanni Pradella si affacciò e al di sotto, dove prima era il paese, vide una massa illimitata color grigio-argento. La massa era tanto compatta da sembrare immobile, ma dalla velocità delle innumerevoli cose che passavano e roteavano sulla sua superficie - e tra quelle cose certi strani fagotti che somiglġavano a corpi umani - egli capiva che si muoveva e torceva in mille direzioni con celerità vertiginosa. Poco dopo l'acqua colò, anzi precipitò, con uno scroscio pari a quello precedente, ma uno scroscio all'incontrario, un risucchio da far immaginare che un foro di lavandino largo chilometri le si fosse all'improvviso spalancato sotto. Pradella uscì di casa e per ore si aggirò su una piattaforma grigia ove era stato il paese, alla ricerca dei fratelli che non doveva vedere mai più.

Mario Sacchetti era ancora a venti metri da casa sua nel momento in cui si sentì leggerissimo, come di carta. Una ventata breve ma di violenza assurda, gli aveva tolto il peso. Ritrovò coi piedi il terreno, si voltò. Tutto il pezzo di mondo ov'erano situati Longarone, i paesi adiacenti e il fiume che li bagnava, era ora colmato da una nube lattiginosa. L'acqua compatta era coperta e preceduta da uno strato d'acqua polverizzata. Preceduta, in quanto stava cadendo, cadeva verso l'alto. E verso l'alto Sacchetti si mise a correre, tallonato dalla nuvola. D'improvviso l'acqua si fermò, e ridiscese scomparendo nel solco buio del fiume. Sacchetti allora si avventurò in basso, credendo di trovar macerie. Ma vide solo spianate e declivi di un pietrisco stillante. Le macerie del paese erano solo tritume, simile a quei residui che sedimentano sulle spiagge dopo una mareggiata. In quella plaga lunare incontrò due fantasmi: i suoi amici Vincenzo Teza e Attilio Marogna. Insieme trassero in salvo cinque persone, che erano ferite ma non gravemente. E gli altri?
Non si udivano lamenti né invocazioni: perché non c'erano macerie sotto le quali potessero essere rimasti, magari agonizzanti, schiacciati e al contempo riparati da un trave, da un blocco di cemento, da un assito, o in un vano sconvolto, in un'improvvisa caverna, come avviene nei bombardamenti o nei terremoti o nei semplici crolli provocati da inondazioni. Migliaia di persone, erano letteralmente svanite e murate.

Una ragazza di ventidue anni che abitava accanto alla Chiesa, Maria Teresa Galli, alle dieci e tre quarti stava chiudendo le imposte del balcone al secondo piano. Ebbe l'impressione di un gran vento. Pavimento e soffitto scomparvero, e tutto diventò buio, ma lei restò in piedi. Capì che il freddo era terribile, ma era tanto stupefatta da non avvertirlo appieno. Qualcosa la sosteneva e la trasportava. «Io volo», pensò, «volo, nuoto e cammino.» Procedette verso le colline in cielo, quindi planò in curva su un abisso. A La Roggia, Irma Pradella si domanda ancora il perché dell'ansia che l'aveva fatta tornare in casa prima del previsto, quando sua madre indicò le finestre che pulsavano e disse: «Che succede?». «È il vento», rispose la ragazza: «un temporale».
Ma il vento aumentava con progressione d'una rapidità innaturale. La madre impallidì: «Non è vento», disse: «è qualcosa che fa vento». Si guardarono in viso, e istintivamente si dissero: «La diga!» L'intera famiglia di Irma, la madre, il padre, la nonna, il fratello Italo con la moglie e i tre figli, si riunì nell'ingresso. Il vento cessò di scatto, e si udì un rumore di treni. Migliaia di treni, uno a fianco all'altro, che avanzassero sferragliando e fischiando. Poi, il gorgoglio d'una titanica bestia che stesse deglutendo.
Si avventurarono nella strada mentre i fari di alcune automobili che provenivano dal nord rendevano diafana un'immensa nuvola bianca verso destra. Giunse di corsa il medico condotto Giancarlo Trevisan, si riunì un po' di gente del quartiere, e tutti insieme si diressero al centro del paese. Furono fermati da una barriera di alberi abbattuti dove, prima di essi, uno del gruppo inciampò in qualcosa. Una lampada tascabile illuminò due bambini: che erano morti, ma non erano del quartiere, e nessuno poteva immaginare da dove fossero caduti. Al di là della barriera, soltanto buio e silenzio. Pareva che oltre quel confine il mondo fosse finito.

Si mosse con tetro fragore la "croda morta"

A pochi passi invece, Gianna Burrigana, la moglie del capo officina della Cartiera, stava rannicchiata contro il muro maestro al secondo piano della sua casa, che era l'ultima ove fosse arrivata la zampa della morte. La zampa aveva svuotato il pianterreno dopo avervi depositato qualcosa di palpitante, e s'era ritratta asportando tonnellate di calcinacci. Gianna Burrigana udì un lamento. Scese al pianterreno e vi trovò Maria Teresa Galli, tutta pesta ma viva. L'ondata aveva trasportato la ragazza in una parabola di duecento metri, e l'aveva deposta laggiù. La vecchia signora riuscì a trascinare Maria Teresa al piano superiore, la mise a letto sotto un cumulo di coperte e le fece inghiottire un bicchiere di grappa.

Prima di valicare la barriera e cominciare l'opera di soccorso, il gruppo che veniva da La Roggia guardò in direzione di Codissago. Ma del paese sull'altra sponda non si scorgeva nemmeno un puntino di luce. Il rullo d'acqua aveva investito laggiù solo le case più vicine al greto del Piave, e in una di quelle case abitava, con la moglie, il figlio piccolo e il canarino, un marittimo. La sera del 9 ottobre stava guardando anch'egli la partita alla televisione, ma il canarino lo disturbava svolazzando e sbattendo nella gabbia come impazzito. «Non mi piace» disse il navigante: «sta per succedere qualcosa.» La moglie obbiettò che per agitare un uccellino basta un temporale. Passò un quarto d'ora. Il marinaio diede un'occhiata alla gabbia, poi balzò in piedi e disse: «Scappiamo! Il canarino si è suicidato». Per il terrore, l'uccellino si era strangolato tra i fili di ferro. I tre fuggirono all'interno del paese mentre già si udiva il boato prodotto dal pezzo di montagna caduto nel lago artificiale.

Il signore paralitico, che abitava non lontano dalla casa del marinaio, udendo il rombo e lo scroscio pensò anche lui: «La diga» e chiamò la moglie che era uscita sul balcone. Ebbe l'impressione che un direttissimo trascorresse rasente la casa, e quando il frastuono si fu placato, chiamò ancora: «Dove sei?». Netto come un taglio di mannaia, il fianco di un'ondata aveva raschiato via sua moglie dalla facciata della casa.

Ciascuno dei rimasti aveva nozione d'un solo spicchio del cataclisma. Per raccontare tutto il mostruoso e complicato movimento bisogna pensare a ciò che un essere immaginario, in grado di abbracciare con l'occhio tutta la scena, avrebbe visto. Verso le 22,30 la «croda morta» di monte Toc cominciò a muoversi. I contadini di Erto e Casso definivano il fianco della montagna «croda morta», cioè roccia morta, putrefatta. Una massa di oltre duecentomila metri cubi di roccia e terra cadde nel bacino artificiale come una pietra dentro un secchio colmo d'acqua. Le onde proiettate contro le due rive del lago inghiottirono cinque villaggi: Frasegn, San Martino, Col di Spesse, Patata e Il Cristo, e strapparono via i margini di Pineda e Casso. Dal lato della diga l'acqua s'innalzò più di un centinaio di metri oltre il ciglio della barriera artificiale, e dall'alto di quei trecentosessanta metri precipitò sui paesi della vallata sottostante.

Un'onda piegò a destra e spianò le prime case di Codissago.
Un'altra investì frontalmente Longarone con un volume d'acqua e velocità tali, che non lo distrusse ma lo 'triturò'. All'urto dell'andata spazzò via case e abitanti. Al riflusso, sgretolò tutto in frammenti minutissimi, allo stesso modo che col palmo della mano noi si polverizza un pezzo di calcina, e impastò corpi ed oggetti col pietrisco. 0Nessuno sa quanti minuti il paese sia stato sommerso. Sotto metri e metri d'acqua la fontanella del giardino delle suore, seguitava a fiottare acqua per conto suo, e avrebbe continuato a zampillare anche i giorni seguenti, nella morta piattaforma ove dell'asilo non restava più nulla. Al di sopra della massa argentea qualcuno vide saltellare e svolazzare minuscole forme bianche e arancione. Le galline (i soli animali rimasti in vita) delle tre sorelle, e le palle di gomma arancione che avevano tanto divertito i bambini del paese. Davanti a una grossa casa moderna, tra le più avanzate verso il Piave, la muraglia liquida si divise in due bolidi che passarono oltre, lasciando intatto l'edificio. Di questi, la parte sinistra asportò per tre quarti la chiesa del cimitero, staccandola dal campanile che aggirò senza abbatterlo, così come aggirò un gruppo di abeti, sui quali però un'automobile cadde dall'alto a guisa di un meteorite. Il resto della muraglia proseguì a sud, si gonfiò, raggiunse un'altezza inverosimile e scavalcò il ponte della ferrovia, piegando le rotaie non solo in volute ma in strettissime spirali. A Villanova, a Pirago, a Faé, compì lo stesso lavoro di triturazione.

A tutti, la donna chiedeva la cortesia di ucciderla

Quando l'ondata defluì, centinaia di cadaveri seguivano la corrente già molti chilometri più a valle. Sorse una luna macilenta, e delle ore più tardi la spianata di pietrisco fu illuminata dalle lampade degli alpini che, giungevano al soccorso. I primi morti che i soldati trovarono, i soli rimasti alla superficie, erano seduti fianco a fianco di fronte a un nulla dove prima stava certamente un televisore. Poi, sotto una duna di ghiaia, scoprirono due giovani sposi: abbracciati sotto la coperta che avevano tirato sino a nascondere le teste nell'attimo del terrore.
0Il giorno chiarì la scena. I morti, più di duemila, o erano stati trascinati a valle lungo il corso del Piave, oppure erano cementati in quell'infernale pietrisco grigio che si asciugava con rapidità bizzarra. I pochissimi superstiti guardavano allucinati le file di militari che si snodavano sulla distesa di ghiaia, e gli elicotteri che andavano e venivano senza posa. Ma non erano in grado d'indicare dove prima fosse la chiesa, dove la banca, dove quel dato cortile e quella certa officina, o dove le case dei loro familiari e conoscenti.
E che cos'erano quelle lucenti cose metalliche sparse dappertutto, simili a enormi fogli gualciti di stagnola da cioccolatini? Automobili. Lamiere di automobili ripulite d'ogni residuo di vernice e lustrate fino all'inverosimile. Solo i corpi delle mucche, chissà perché, non erano finiti sotto il tritume: stavano su un fianco con una rigidità leggera, da cartapesta, che rammentava i cavalli a dondolo esiliati nei solai.

Via via che passavano le ore, affioravano altre assurdità. Un bulldozer arava il suolo e per metri e metri sollevava caramelle, solo caramelle. Due soldati sostavano un attimo a fumare dopo aver zappato per ore, e nella ghiaia ai loro piedi notavano qualcosa di strano, di orrendamente familiare, una patina indefinibile di ciò che era stato vita. Un lieve smottamento del suolo, e trovavano l'inizio d'un fitto strato di cadaveri: può darsi fossero i ventuno parenti, tutti scomparsi, che la vecchietta di Castellavazzo si apprestava a rivedere.

Due preti frugarono a lungo nel punto dove, a occhio e croce, era stata la chiesa. Rinvennero solo qualche santino, e due altri oggetti che portarono via delicatamente, tenendoli tra i palmi delle mani quasi a scaldarli: due palle di gomma arancione.
0Il gelataio Battista Dal Molin, ai soccorritori che gli chiedevano chi fosse, rispondeva ogni volta con una specie di inchino: «Dal Molin - famiglia distrutta». Le parole «famiglia distrutta» facevano ormai parte del suo cognome. Dal gruppo di case rimaste in piedi, il capo officina Arduino Burrigana spuntava ogni istante per guardare la sua cartiera. Ma nel punto ov'era stata la cartiera, si vedeva ora qualcosa di più perfetto che una spianata: un'autentica pista da ballo. Accanto a un gruppo di genieri che scavavano, il giovanotto reduce dalla notte d'amore fissava ad occhi sbarrati il terreno aspettando di vederne affiorare i genitori che concedendogli la scappatella gli avevano salvata la vita. Ai militari, ai funzionari, ai giornalisti d'ogni nazione, che si moltiplicavano di minuto in minuto una donna con un bambino in braccio, che aveva perso tutta la famiglia, si avvicinava implorando a voce pacata e senza lacrime: «Copéme, ve preghe, copéme (uccidetemi, vi prego, uccidetemi)». Di fronte, gli elicotteri ronzavano sopra il blocco di terra che intasava il bacino, si fermavano a perpendicolo sulla diga che ancora sorgeva intatta. Da uno degli apparecchi la sorella del capo centrale, che conosceva l'impianto in ogni segreto, scrutava le aperture del muraglione nella speranza di cogliervi un cenno di vita. Forse qualcuno dei sessanta si era salvato rifugiandosi nella camera blindata. Due alpinisti degli «Scoiattoli» di Cortina, il tecnico Schneider della SADE e un montanaro di nome Triesi, si calarono attraverso la tromba dell'ascensore per cinquanta metri dal culmine fino alla cabina blindata, che trovarono colma di olio uscito da qualche macchina. L'acqua aveva risucchiato via dai cunicoli ogni resto umano.

Due giorni dopo il disastro, la zona cominciò ad affollarsi di parenti e amici delle vittime, arrivati dalle altre parti d'Italia e dall'estero.
A sera un operaio di Longarone, venuto dal Belgio dov'era emigrato, sedette sulla valigia al centro dello spiazzo donde pensava fosse stata rapita, o dove supponeva fosse murata, l'intera sua famiglia. Restò lì immobile e in silenzio, tutta la notte. A giorno fatto si alzò, trasse di tasca una sigaretta gualcita, prese la valigia e camminando chiese del fuoco a un soldato.
Disse che ripartiva per il Belgio, e che non sarebbe tornato mai più.

Brunello Vandano

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