Il voltafaccia dell'Ente di Stato

(brano del libro"Vajont senza fine", di Mario Passi)

Vitantonio Di CagnoDal gennaio del 1964 c'è un nuovo ingegnere capo al Genio civile di Belluno. Ha preso il posto dell'ingegner Almo Violin, sostituito dal ministro Pieraccini in seguito alle risultanze della Commissione ministeriale sul Vajont. Per prima cosa, il nuovo funzionario mette le mani sulla scottante partita che era valsa il posto al suo predecessore. L'aria sembra proprio cambiata. Nei lunghi anni passati si avallava tutto ciò che alla SADE faceva comodo. Adesso bisogna essere severi. Le carte dell'ufficio evidenziano che dagli inizi del 1963 e fino al 9 ottobre la centrale del Colombèr sottostante alla diga era stata abusivamente alimentata con le acque dell'impianto ancor privo di regolare collaudo. Così, già il 30 gennaio, ecco il Genio civile di Belluno spedire una bella contravvenzione a carico dell'ingegner Quirino Sabbadini, direttore della centrale del Colombèr, nonché dell'ingegner Vittore Antonello, ex direttore generale della SADE, del professor Feliciano Benvenuti, già amministratore provvisorio del compartimento ENEL-SADE di Venezia, e dell'avvocato Vitantonio Di Cagno, presidente centrale dell'ENEL (nella foto).

Libro PASSI MarioDieci mesi più tardi, il 2 dicembre, tutti questi signori devono comparire davanti al pretore di Belluno per rispondere dell'infrazione contestata. Paga solo il Sabbadini, condannato a 200 mila lire d'ammenda. Gli esponenti dell'ENEL si erano difesi come fanno i bambini: «Ma io non sapevo...» Ignoravano cioè che la centrale fosse in esercizio.
Eppure, avrebbero potuto esibire una carta a loro favore: il foglio 9 dell'allegato «A» del verbale di consegna dei beni nazionalizzati. In questo documento la SADE affermava che l'impianto del Vajont e la sottostante centrale del Colombèr erano «in regolare esercizio».
Gli uomini dell'ENEL potevano sostenere «siamo stati ingannati» invece di «non sapevamo». Avrebbero così iniziato a utilizzare quella «più ampia riserva esercizio tutti i diritti» annunciata dal presidente Di Cagno nel telegramma del 19 ottobre 1963. Evidentemente, la linea della rivalsa nei confronti della SADE era già stata abbandonata. L'Ente elettrico di Stato, sicuramente fra i maggiori danneggiati, almeno sul piano patrimoniale, dalla distruzione dell'impianto del Vajont, non ha nulla da chiedere.
Da questo momento non dissocerà più le sue responsabilità morali, legali, finanziarie da quelle della SADE che gli aveva consegnato ingannevolmente un impianto condannato da una frana gigantesca.

Nel procedimento giudiziario avviato dal procuratore Mandarino e affidato poi all'istruttoria del dottor Fabbri si erano prontamente inseriti come parti civili gli amministratori di Longarone e di Erto e, a centinaia, i familiari delle vittime. Il Comune di Longarone in quanto tale aveva intentato causa civile per danni alla SADE. L'onere della prova in questo caso spettava alla Società adriatica, non all'accusa. La SADE avrebbe dovuto assumersi un ben arduo impegno per dimostrare di non portare alcuna responsabilità nel disastro. La strategia del Comune di Longarone aveva il sostegno di un collegio legale capeggiato dall'avvocato Emilio Rosini di Padova, entrato anni dopo nella suprema magistratura del Consiglio di Stato. Appariva incredibile, invece, che l'ENEL non scendesse in campo, dopo aver subito negato l'esistenza delle «qualità essenziali ai fini elettrici» del bacino del Vajont.
Tutti si attendevano un minimo di coerenza: la sospensione delle quote di indennizzo per la nazionalizzazione da corrispondere alla SADE, l'inserimento nei procedimenti penale e civile, come facevano i singoli danneggiati. Fra le prime vittime della tragica ondata c'erano proprio i tecnici e gli operai dell'ENEL-SADE addetti alla diga, lasciati soli lassù al Vajont nella terribile sera della frana. A nulla valsero gli interventi dei parlamentari di opposizione perché l'ENEL adottasse le decisioni più logiche. Né servirono le denunce del clamoroso voltafaccia di cui io stesso mi facevo interprete sulle pagine de «l'Unità». Ma il telegramma del presidente Di Cagno rimaneva segreto.
L'ENEL non rispondeva alle legittime pressioni del Comune di Longarone, dei collegi legali di parte civile. Aveva già ceduto ad altri occulti richiami. Lungi dal dissociarsi, assumeva il ruolo di centro attivo degli imputati per la catastrofe, sulla scia delle conclusioni «scientifiche» delle varie Commissioni d'inchiesta.

L'Ente elettrico di Stato, nato dalla grande riforma politico-economica del centro-sinistra che doveva tagliare le unghie alle grandi baronìe finanziarie italiane, compiva un clamoroso dietro-front, tornava alle scelte politiche di sempre. Tutto rientrava nella vecchia linea che aveva prodotto l'intera vicenda del Vajont. Il compromesso, la subalternità agli interessi della grande impresa privata, il rifiuto di ogni ascolto della pubblica opinione, persino dei sopravvissuti a un lutto immane, riemergevano in maniera esemplare e drammatica.
Intanto la SADE si occulta, tenta di defilarsi attraverso la fusione con la Montecatini, poi confluita nella Montedison. E l'ENEL non solo abbandona il fronte dei danneggiati, ma pure qualsiasi parvenza di neutralità. Basta vedere cosa succede a Venezia, mentre l'istruttoria del giudice Fabbri e del pubblico ministero Mandarino prosegue serrata. Esamina e vaglia una quantità enorme di documenti. Individua fra continui ostacoli le vie di approfondimento delle singole responsabilità. Fronteggia un numero impressionante di avvocati con le loro istanze e richieste.
Ma altri, a Venezia, marcano dappresso il cammino dei magistrati. La sede di Venezia dell'ENEL diventa un centro di frenetiche attività e di strane manovre legate al procedimento in corso a Belluno. Man mano che l'istruttoria procede, incontri e riunioni si susseguono negli uffici dell'ENEL o nello studio dell'avvocato Brass, difensore di Biadene, il successore di Semenza, l'uomo che aveva spinto gli invasi al Vajont fino al limite estremo.

Ogni qualvolta un ex dipendente della SADE veniva interrogato dal pubblico ministero e dal giudice istruttore, stendeva poi degli appunti, un promemoria sulle domande rivoltegli e sulle risposte fornite. A questa regola si uniformavano anche i più alti dirigenti, come il direttore generale ingegner Marin, il capo del Servizio costruzioni ingegner Pancini, il consulente scientifico professor Tonini, il direttore dell'Ufficio studi ingegner Rossi Leidi, il direttore della centrale del Colombèr ingegner Sabbadini, per finire al guardiano della frana, Felice Filippin. Tutti mettevano per iscritto quanto ricordavano delle deposizioni, e a questi appunti si accostavano fotocopie di atti e di documenti processuali, come ad esempio la lettera che parlava della visita al Vajont, nel periodo in cui si studiava la frana, del consulente della SADE professor Raimondo Selli, dopo il disastro chiamato come esperto geologo nella Commissione ministeriale d'inchiesta.

In tal modo la sede veneziana dell'ENEL si proponeva come una specie di abusiva succursale dell'ufficio istruzione del Tribunale di Belluno. Testimoni e imputati riuscivano a conoscere in anticipo documenti e contestazioni, potevano coordinare le proprie deposizioni, preparare le risposte, tener conto di quelle già fornite da altri, studiare il modo di superare discrepanze e contraddizioni. Nel linguaggio giudiziario, tutto ciò si chiama «inquinamento delle prove».
Anche al professor Augusto Ghetti, autore della relazione sugli esperimenti compiuti al Centro modelli ibraulici di Nove, era stato proposto dal professor Tonini di incontrarsi con l'ingegner Biadene. In quel momento solo quest'ultimo figurava come imputato, Ghetti e Tonini mantenevano il ruolo di testimoni, di persone a conoscenza dei fatti. Dopo la catastrofe, l'ENEL non aveva adottato alcun provvedimento verso i suoi dipendenti in qualche modo coinvolti. Il direttore centrale ingegner Baroncini era stato del tutto scagionato. Per Biadene e Pancini, ogni misura sospesa in attesa del giudizio penale. L'ingegner Marin, promosso direttore del compartimento di Venezia, non aveva nemmeno subìto il rinvio alla Commissione disciplinare. Districarsi nel faticoso percorso di una vicenda così tesa e ansiogena a me non risultava facile. Ormai ero rimasto praticamente solo fra i giornalisti a seguire il Vajont, impegnato dal mio giornale quasi interamente su questo fronte. In quella fase, le mie fonti sono il sindaco di Longarone, Terenzio Arduini, e i legali di parte civile. A quei tempi il segreto őstruttorio costituisce veramente una cosa seria. Incontro, di quando in quando, anche il giudice istruttore. Mario Fabbri è marchigiano, giovane, da pochi anni in magistratura, assegnato alla sede di Belluno poco tempo prima del disastro. Si trova a fronteggiare un impegno che avrebbe spaventato chiunque. Non alto, magrolino, il volto olivastro sormontato da un grosso paio di lenti, dietro alle quali guizzano gli occhi vivissimi, si muove con freddezza e determinazione. Alle mie domande risponde con brevi sorrisi e spesso con altre domande che mi riportano al punto di partenza.

NOTE
(voltafaccia n. 2) Il collegio di difesa degli imputati è costituito da una quarantina di avvocati, fra cui i nomi di spicco abbondano: Degli Occhi, Ungaro, Delitala, Pisapia, Conso, Marinucci, Devoto, Brass, Zuccalà, Romualdi, Malipiero, Sorgato, Tumedei. Si tratta non solo del fior fiore del foro ufficiale italiano, ma di una serie di avvocati piuttosto noti anche per le loro simpatie e per i loro legami politici chiaramente rivolti verso destra o comunque verso le correnti dominanti Dc.

Potrebbe stupire invece aver notato nel collegio di parte civile un uomo come l'on. avv. Bettiol, celebre notabile della destra democristiana.
Ma si trattava di un equivoco della sorte che non avrebbe potuto restare tale, come infatti ha poi dimostrato lo sbalorditivo voltafaccia del Bettiol che nella sua arringa finale, passando disinvoltamente dalla parte opposta, ha chiesto lo scagionamento degli imputati e si è quindi praticamente allineato con gli avvocati della difesa, in una zona politica e a sostegno di tesi a lui sicuramente più omogenee.

(Queste note - di Adriana Lotto - sono nel libro "Vajont - Genocidio di poveri", di Sandro Canestrini).

Alla fine del 1964, in seguito alle elezioni amministrative il Comune di Longarone (decimato dalla tragedia il tradizionale elettorato socialista) era passato a una maggioranza di centro-destra. Nell'aprile successivo, l'amministrazione comunale decide di cambiare improvvisamente la linea processuale. Pochi giorni prima che il processo civile giunga a sentenza, con l'inevitabile condanna della SADE a risarcire i danni, la nuova giunta toglie il mandato all'avvocato Rosini. La causa viene subito sospesa. Il Comune decide di inserirsi nel processo penale, e affida l'incarico allo studio dell'onorevole Giuseppe Bettiol (vedi box a lato, nota mia), notissimo esponente della destra democristiana e docente universitario. I nuovi legali si impegnano con decisione nel procedimento penale e stabiliscono una collaborazione con il collegio costituitosi all'indomani del disastro, che rappresenta le centinaia di superstiti costituiti parte civile. Riesco a stabilire un buon rapporto con l'avvocato Alberto Scanferla, il principale collaboratore del professor Bettiol.

Finalmente, alla metà di novembre 1965, attesa da un anno e mezzo fra timori e speranze, ecco la perizia degli esperti del Tribunale. Un complesso, voluminoso lavoro, protrattosi inspiegabilmente tanto a lungo: difatti, le sue conclusioni ricalcano pedissequamente quelle delle tre commissioni che da tempo hanno già tratto le loro conclusioni. I periti d'ufficio avevano avuto a disposizione tutta l'enorme quantità di materiale sequestrato dal Tribunale, la ricostruzione storica precisa, e occulta, degli studi compiuti dalla SADE sulla frana, delle sue dimensioni calcolate dal geotecnico Müller, delle prove sul modello del professor Ghetti, dell'inevitabilità della sua caduta una volta dato inizio agli invasi nel serbataio artificiale. Il magistrato aveva affidato loro l'incarico di compiere tutte le ricerche più opportune sul corpo stesso della frana, sui resti di quello che doveva essere il bacino idroelettrico del Vajont. Ma dopo un anno e mezzo di attesa, i periti si affrettano a precisare che in aggiunta al materiale sotto sequestro «devono certamente annoverare varie relazioni compilate a seguito del tragico evento e in particolare quella della Commissione ministeriale d'inchiesta, della Commissione nominata dall'ENEL ... e infine quella della Commissione parlamentare».

Insomma, non una autonoma indagine sulla frana, ma un percorso su quanto altri ne pensano. Tengono così ben presenti le tre famose relazioni da parafrasarle con toni ancor più marcatamente difensivi nei confronti della SADE. Scrivono infatti: «Per quanto è a nostra conoscenza, riteniamo che i tecnici non potessero immaginare che si sarebbero verificati contemporaneamente tre eventi straordinari, in precedenza mai constatati neppure isolati: 1) La riduzione improvvisa della resistenza alla base della massa in movimento. 2) La conversione del lentissimo strisciamento in una caduta precipitosa con la velocità di un treno diretto di tutto il corpo di frana in una unica massa di eccezionali dimensioni. 3) La conversione della compagine di tale massa in un insieme unitario... A togliere la disparità fra gli eventi reali e quelli previsti, non risulta a nostro giudizio che alcun mezzo umano potesse venir predisposto».

Nessun «mezzo umano»? Ma fra le carte del processo c'era pure l'ipotesi avanzata dallo stesso geologo della Commissione di collaudo, professor Penta, e cioè «...la possibilità che si verifichi un distacco improvviso di una massa enorme di terreno (suolo e sottosuolo)». Il giudice istruttore, con quella perizia fra le mani, si rende conto che il procedimento rischia di subire un colpo decisivo. E il disastro di frana e di inondazione, gli omicidi colposi plurimi, l'attesa di giustizia dei familiari dei duemila innocenti sepolti a Fortogna, tutto finirebbe archiviato. Ma il giovane marchigiano si rivela un tipo tosto. Non si piega passivamente di fronte alla sentenza degli illustri periti. Si mette prima di tutto ad analizzare alcuni studi basilari di geologia. Per esempio, le Lezioni di Mineralogia e Geologia dello stesso professor Gortani, il membro più anziano del collegio peritale. Vi si può leggere: «La rapidità di queste frane le rende particolarmente funeste: il fenomeno può svolgersi, anche per grandi frane, in meno di un minuto, e la velocità della massa cadente può superare i cento metri al secondo».

Vale a dire 360 chilometri l'ora. La frana del Vajont era precipitata a circa 100 all'ora, secondo i periti. Tutto previsto, dunque, tutto già scritto. Addirittura in un trattato del 1932, il tedesco professor Albert Heim descrive come si verifica un fenomeno che, secondo i periti, «nessun mezzo umano» rendeva prevedibile: «Nessuno scivolamento si produce da un minuto all'altro. Ogni scivolamento deve esordire in maniera lentissima... Più grande è la massa che sta per cadere, maggiore è il tempo necessario per l'avvio dello scivolamento... Deve essere raggiunto l'equilibrio fra le forze gravitazionali dirette verso il basso e le forze resistenti dall'altra, ma anche a questo punto numerosi "fili" devono essere rotti perché la gravità prevalga. E tutto ciò si protrae per un certo tempo e un certo numero di giorni; i "fili" rimasti saranno rotti uno dopo l'altro finché la massa non precipita in qualche minuto con grande accelerazione verso valle». Ecco, già nel 1932 si descriveva esattamente ciò che sarebbe accaduto al Vajont trentun anni più tardi.

Un saggio pubblicato nel 1960 dal Servizio geologico degli Stati Uniti informa di una frana di 35 milioni di metri cubi caduta nella baia di Lituya in Alaska che aveva prodotto un'ondata spaventosa di 510 metri d'altezza. E ammoniva: «La possibilità della generazione di ondate localizzate ma molto distruttive per la caduta o lo scivolamento di masse solide nell'acqua, merita grande attenzione da parte di geologi e degli ingegneri che si dedicano a progetti di serbatoi e di dighe». Ma cosa avevano studiato questi esperti che indicavano al giudice conclusioni esattamente opposte agli esempi di scuola e alle esperienze citate nei testi di geologia? Dopo sei mesi di ricerche e di riflessioni, il 23 giugno 1966, un'ordinanza del dottor Fabbri stabiliva lo svolgimento di una nuova perizia «sulla natura, sulle cause, sulle modalità di manifestazione e caduta della frana del 9 ottobre 1963».


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