Difesero gli impianti SADE, ora la diga li ha uccisi


Longarone non era solo un agglomerato di case con il nome di un paese: era il maggior centro industriale della nostra provincia; rappresentava il cuore di ogni bellunese democratico, poiché la storia faticosa ed eroica della rinascita civile della nostra coscienza è partita da questo paese, da un gruppo di uomini che costituirono, proprio nella valle del Vajont, il primo gruppo di combattenti della libertà, che diede vita al grande esercito partigiano sviluppatosi in seguito nella provincia.

Il vecchio Deon

Su questa terra arrivarono, alla fine del 1943, un gruppo di antifascisti bolognesi che si unirono a quelli del Longaronese e formarono il primo gruppo organizzato per combattere i fascisti e i tedeschi.
Il gruppo, stabilitosi proprio alle falde del monte Toc, ebbe fraterni e duraturi legami con le popolazioni di Longarone, Dogna, Provagna, Erto, Cimolais e degli altri paesi, dalle quali ebbe aiuto economico e morale per tutto il periodo della guerra partigiana. Di questo primo gruppo facevano parte, tra gli altri, Gugliemo Celso, divenuto sindaco del suo paese e deceduto sotto le macerie di Longarone assieme a tutta la sua famiglia; Luigi Dall'Armi (Franco) che poi fu comandante della divisione «Belluno»; Leo De Biasi (Mario), fucilato a Bolzano (in sua memoria venne dato il nome ad una brigata). E poi Garibaldi, e il vecchio Deon, ex garibaldino. E i bolognesi Modesto Benfenati (Boretti); Duilio Argentieri (Turiddu); Ezio Antonioni (Gracco); Ildebrando Bilacchi (Brando); Ugo Clocchiatti (Ugo).

Bolognesi e bellunesi furono, allora, una unica grande anima. Come potevano questi nostri carissimi amici e compagni bolognesi, che ogni tanto venivano a Belluno per risalire le valli e trovare coloro che li aiutarono, a parlare con i compagni di lotta per rievocare la vita di allora, come potevano non precipitarsi in questa terribile occasione, per aiutare i sopravvissuti della catastrofe che aveva sconvolto la valle che li ospitò; per andare alla ricerca dei compagni; per piangere sulla sventura assieme a noi tutti; per chiedere con noi che giustizia sia fatta contro i colpevoli?

Quando sono arrivati sul grande spiazzo di ghiaia di Longarone distrutta, hanno incontrato Franco, il comandante della divisione «Belluno» che, dal giorno della catastrofe, non si è più mosso dal suo paese e organizza, corre, scava, incanutito ancora di più per il dolore che gli sconvolge l'anima. «Vieni a trovare Deon?» disse amaramente a Boretti. Era la stessa frase che gli rivolse venti anni fa, quando Boretti salì a Longarone con i bolognesi per prendere contatto con i partigiani locali, e Franco lo indirizzò al vecchio garibaldino Deon.

I partigiani bolognesi si aggiravano angosciati nel deserto di Longarone distrutta, chiedendo a quanti incontravano notizie dei compagni: «Che ne è di Massimo? E Racc? E Paolino? E Brega, e il barbiere?» Ancora non si erano trovate le salme. Quaranta compagni di lotta erano spariti nel disastro. I partigiani cercarono il luogo dov'erano le loro case. Ma non riuscivano a raccapezzarsi. Tutto era sconvolto. Allora hanno fatto un lungo viaggio per arrivare a Dogna e Provagna, al di là del Piave. Arrivarono inzaccherati e stravolti che sembravano quelli del '43'44 scampati da un rastrellamento. Le due frazioni erano devastate, ma ancora in piedi per la maggior parte. Le donne corsero loro incontro, li abbracciarono. «Siete le prime persone che arrivano fin qui. Si sono tutti dimenticati di noi. Qui non si è vista nessuna autorità». Avevano fame e paura; terrore che la diga cadesse o cadesse un'altra frana, e investisse in pieno anche i loro paesi. I partigiani recavano agli amici i soccorsi delle cooperative emiliane, che avevano il significato della polenta con la quale la popolazione li sfamò per tanti mesi. Parlarono dei morti, dei vivi, del periodo della guerra.

Dentro la valle del Vajont, l'onorevole Bettiol consegnò al distaccamento partigiano la prima bandiera di combattimento confezionata dalle donne di Longarone. Era intitolata a Tino Fregnani, il primo caduto partigiano della provincia, che era un emiliano. Lungo la stessa valle percorse il suo ultimo tragitto verso la morte Caterina Filippin di Erto, morta sotto le torture dei nazisti nella gendarmeria di Belluno. Su queste valli bellunesi 13 emiliani sacrificarono la vita per la nostra libertà. Tra essi Bordogni (Giordano) alla cui madre venne conferita, dopo la Liberazione, dall'allora sindaco socialista, Lante, la cittadinanza onoraria di Belluno. Renato Cappelli (Delle Donne) commissario della «Pisacane», impiccato a Peron assieme a Checco Da Gioz, l'allora segretario della Federazione comunista; la medaglia d'oro Mario Pasi (Montagna) impiccato assieme a 10 bellunesi nel bosco delle Castagne.

Un aiuto prezioso

Quanto prezioso fu l'aiuto che ci diedero allora gli amici emiliani! Cicchetti, il popolare Tim, fu uno degli autori della brillante azione partigiana che liberò dalle carceri di Belluno ottanta detenuti politici. Gracco, assieme al partigiano di Feltre, Bonatto, si recò a chiedere la resa incondizionata del presidio tedesco di quella città. Landi (De Luca) e sua moglie Emma (che aveva sopportato torture e la deportazione) furono i primi ad accompagnare in Belluno liberata i carri armati dell'esercito americano. E quanti altri noi potremmo citare. I partigiani bolognesi furono nostri fratelli per lunghi mesi di pericoli, di lotte, di speranze. E non passa anno che qualcuno di loro non venga a trovarci per rievocare il comune periodo più bello della nostra vita, quando soltanto noi partigiani rappresentavamo in queste valli la volontà e le aspirazioni popolari, quando della loro difesa soltanto noi ci siamo assunti piena responsabilità delle vite e dei beni. Non dei beni della SADE, che ritenevamo un patrimonio nazionale, di tutti i cittadini e che perciò abbiamo difeso dalla distruzione tedesca.

Il piano partigiano

Il Comando Zona Piave, diretto allora dal bolognese De Luca, approntò un piano dettagliato allo scopo di impedire che il nemico dlstruggesse i complessi industriali ed elettrici della nostra provincia. Ecco un breve ma indicativo stralcio tratto dal piano di una Brigata della divisione «Belluno» trasmesso a tutti i battaglioni dipendenti:

«Zona di operazioni. Oggetto: Centrali elettriche, cabine di trasformazione, fabbriche, ecc. Nel caso che il nemico abbandoni la zona bisogna effettuare una protezione delle centrali elettriche, cabine di trasformazione e stabilimenti in genere. A questo scopo vi accludiamo un grafico delle principali centrali elettriche nella zona della Brigata. Spetta alla vostra Brigata la protezione delle centrali segnate in azzurro. Ciò si otterrà presidiando le centrali elettriche, le cabine e facendovi resistenza armata. Ove si trovino già presidi tedeschi in centrale, si provvederà, se possibile, al disarmo del presidio. Dopo la occupazione si esaminerà subito la centrale per evitare la eventuale distruzione mediante ordigni o mine nascoste in precedenza dal nemico... Le centrali e le linee elettriche devono essere nostra particolare cura e obiettivo in quanto la loro distruzione in caso di ritirata generale del nemico pregiudicherebbe la riattivazione rapida della vita nazionale del dopoguerra.
Molti dei morti di Longarone furono gli stessi che difesero a rischio della loro vita gli impianti della SADE pensando che dopo sarebbero divenuti cosa di tutti, sarebbero divenuti veramente patrimonio nazionale. Non solo quelle speranze furono tradite per tanti anni, ma gli errori della società elettrica e dei governi li ha uccisi sotto una montagna di fango.

Era doveroso scrivere queste cose in un momento in cui gli sciacalli della notizia scandalistica scrivono e stampano montagne di piombo sulla «speculazione politica»; sulle «centinaia di attivisti rossi» arrivati nella zona della tragedia. Sono i nostri amici di sempre che vengono ad aiutarci, che vengono a porgere l'estremo saluto a chi di noi non è più. Imparino la storia, Spadolini del «Resto del Carlino» e tutti quei giornalisti che gridano alla «speculazione politica». L'ignoranza in simili circostanze non può essere giustificata per nessuna ragione.

(18 ottobre 1963)


FONTE: se non altrimenti specificato, dal giornale «L'Unità». Articoli a firma della giornalista Tina Merlin.

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In questi tempi men feroci e più leggiadri, le croci vanno a appendersi sui ladri."