Quando arrivò la SADE...


Ad Erto, la SADE arrivò nel 1956. Praticamente poteva agire come in ogni altro luogo, poiché aveva in tasca la concessione di sfruttamento delle acque del Vajont. Aveva, quindi, la «pubblica utilità» che la proteggeva, che le copriva ogni malversazione. Era un formidabile biglietto da visita, che le serviva da lasciapassare. Ma con i contadini di Erto le cose non erano tanto facili. E un popolo per certi versi primitivo, con punte di arguzia e di sospetto; dal grande, generoso cuore verso gli amici, ma soprattutto libero da ogni costrizione. La saggezza gli deriva, forse, da una lunga tradizione di isolamento come comunità, che conserva gelosamente usi e costumi antichi, di una civiltà primitiva, appunto, ma basata sulla giustizia senza cavilli e sulla verità senza veli.

Guidava, allora, l'amministrazione comunale di Erto, la signora Caterina Filippin, che i suoi compaesani chiamavano familiarmente 'Càte'. In quel periodo essa si batté coraggiosamente alla testa del suo popolo, contro gli espropri, che la SADE voleva risarcire a dieci lire il metro quadro. Parlamentò con i tecnici arrivati sul posto per le stime; inoltrò ricorsi e controricorsi. Riuscì, anche, a rialzare le quotazioni che, tuttavia, rimanevano ancora troppo basse. Non era solo il valore reale del terreno che i contadini pretendevano. Su quella terra avevano giocato, erano cresciuti, avevano fatto l'amore, erano nati i loro figli. Senza quella terra avrebbero dovuto andarsene dal paese anche i vecchi e le donne, come i più giovani già facevano per tradizione secolare, per miseria secolare. E dove si trapiantavano con l'elemosina elargita dalla SADE?
Questo era il punto. Cedere sì, ma non prostituirsi.
Inoltre, la SADE pretendeva d'espropriare nuovi terreni, avendo deciso di rialzare ancora di più il livello d'invaso. La concessione parlava, è vero, di una quota massima di 677 metri, ma la società elettrica, dopo aver fatto i suoi conti, intravide la possibilità di altri grandi guadagni, se avesse ottenuto l'autorizzazione a sopraelevare il livello delle acque di altri 45 metri e mezzo, portandole a quota 722,50. Inoltrò la domanda in tale senso al ministero dei Lavori Pubblici ed ottenne la nuova autorizzazione, malgrado l'opposizione del Comune e dei privati cittadini. Con i proprietari il monopolio non intendeva troppo parlamentare. Aveva le carte scritte in mano e, a tempo debito, le avrebbe fatte valere. Era tanto sicuro di ciò che tirava le cose per le lunghe, apposta, per logorare la resistenza dei singoli. Aveva tempo davanti a sé. Stava costruendo la diga, per intanto. I contadini avrebbero ceduto quando si fossero trovati davanti al lavoro compiuto; alla grande e maestosa diga che doveva essere l'orgoglio di tutti e alla «pubblica utilità» che ne derivava di invasare la valle. Per intanto non bisognava urtarli più del necessario.

Per mantenere l'ordine nel paese c'erano i carabinieri. Il primo gruppo della Benemerita fu installato ad Erto qualche anno prima che arrivasse sul posto la SADE. Si disse che ce n'era bisogno, a causa di risse e di adultèri, cui troppo spesso gli ertani si lasciavano andare. Facevano una netta distinzione tra quello che era di Dio e quello che era di Cesare pur essendo, sostanzialmente, religiosi. Anzi, la vita di Gesù aveva tanta attrattiva su di loro, che il venerdì santo quelli di Erto mettevano in scena all'aperto, tra le vie e sulle colline del paese, una rappresentazione della passione di Cristo, forse tra le più belle che esistano ancora in Italia. Era, per la verità, di gusto pagano, ma ad essa si preparavano coscienziosamente tutto l'anno, parti e costumi, con l'orgoglio di far ben figurare il paese di fronte agli spettatori che convenivano ad Erto dalla provincia di Belluno e di Udine e da altre città del Veneto. Era una cosa loro, non volevano preti. I parroci succedutisi ad Erto avevano cercato molte volte di far smettere la tradizione, per oltraggio alla religione. Non vi erano riusciti.

Un brutto giorno la sindachessa cambiò parere. Si mise a spargere la voce che, contro la SADE, nessuno la avrebbe spuntata. Tanto valeva cedere, prima che succedesse il peggio. Qualcuno s'impaurì. Se lo diceva il sindaco che era sempre stato dalla parte dei contadini, voleva dire che ne sapeva qualcosa. Altri non rimasero convinti del nuovo atteggiamento assunto dalla prima cittadina del paese. La SADE, comunque, aveva raggiunto il suo scopo. I cittadini di Erto si trovavano divisi ed era il momento opportuno per approfondire il solco della discordia, per trarne i proprio tornaconto.

Il monopolio elettrico si mosse sul terreno diplomatico, come fosse entro un ministero. Avvicinò i dubbiosi e giocò, con loro, al rialzo dei prezzi. Dalla sua aveva già la sindachessa, che aveva dato l'esempio cedendo le terre al monopolio.
In capo a qualche mese la SADE aveva portato a termine il disegno che si era prefissa. Si era acquistata, pagando bene, la complicità e l'omertà di alcuni proprietari che, ora, facevano la propaganda per la società.
La SADE raccolse un magro frutto da questa manovra. I contadini più deboli e ormai senza una guida, si presentarono spontaneamente al monopolio, che pagò la loro terra a 18 lire il metro quadro. Ma la maggioranza si unì attorno a un capo, il signor Pietro Carrara, che guidava un comitato di protesta. La voce di questi montanari vessati dalla SADE arrivò fin dentro il Senato. Il senatore Giacomo Pellegrini, nel riferire il suo interessamento al comitato di Erto, espresse il convincimento che a Roma la cosa non interessava. Tutto andava come voleva la SADE, che aveva ancora l'ultima carta nel mazzo da giocare. E la buttò sulla tavola vincendo il piatto.

Fece sapere a quanti ancora resistevano che dovevano decidersi. O accettare con le buone, oppure sarebbero stati espropriati con la forza e i denari del risarcimento versati in banca a nome del titolare catastale del fondo. Era una operazione che le veniva consentita in virtù della concessione che teneva in mano per «pubblica utilità». I lavori nella valle, li doveva fare e lo Stato le dava questa facoltà.

Era la fine per i montanari di Erto. Resistere ancora voleva dire non vedere forse mai quei pochi denari. I terreni, in moltissimi casi, erano ancora intestati al primitivo proprietario, morto da tanto tempo. Gli eredi erano molti e sparsi un po' ovunque, ad Erto e in altre città italiane e straniere. Per entrarne in possesso, essi avrebbero dovuto fare lunghe pratiche burocratiche e procure notarili. Spendere molti denari. Alcuni cedettero al ricatto. Altri resistettero, ma si trovano ancora oggi con i soldi vincolati in una banca.

La SADE aveva ormai mano libera per costruire l'impianto. Ai contadini espropriati fu offerto un posto di lavoro sulla grande diga e molti di loro morirono nel corso della sua costruzione.

È bene spiegare in che modo la SADE ottenne la concessione per lo sfruttamento delle acque del Vajont. Alla luce della terribile tragedia, il pensiero di come essa riuscì ad averla in mano fa semplicemente rabbrividire.

Il decreto porta la data dell'ottobre 1943. L'Italia era precipitata nel caos. Non esisteva, praticamente, un governo. A Roma, in quei giorni gli ebrei venivano rastrellati dai tedeschi. Nulla più era efficiente. Le donne italiane rivestivano di abiti borghesi i soldati fuggiaschi per sottrarli alla cattura. L'unica cosa valida di quei momenti erano i gruppi antifascisti che si andavano organizzando per la lotta partigiana. Eppure, dentro il ministero dei Lavori Pubblici di Roma, la SADE trovò o pagò un funzionario disposto a mettere un timbro e una firma di un ministro fasullo sotto la concessione. Un documento che nessun governo del dopoguerra contestò mai al monopolio elettrico. Mentre il popolo italiano pensava ad organizzarsi e a lottare per la liberazione del paese, moriva per i propri ideali di democrazia e di giustizia sociale, la SADE maneggiava nei ministeri, imbrogliando le carte, per non perdere quella che credeva l'ultima partita. Il Vajont aveva avuto un assurdo inizio prima di avere una tragica fine.

La costruzione del lago artificiale e la sopraelevazione delle acque a quota 722,50 creava un altro grosso problema per i valligiani di Erto.
Il centro veniva diviso da alcune sue frazioni, situate sul versante sinistro della valle. In quella zona sorgevano tre centri abitati: Pineda, Prada e Liròn. Inoltre molti abitanti di Erto possedevano ancora terreni sul lato opposto del paese e case, dove si trasferivano con il bestiame dalla primavera all'autunno. I contadini raggiungevano i due versanti in un batter d'occhio, attraverso sentieri che percorrevano veloci quanto gli scoiattoli. Erano abituati da sempre a quelle primitive vie di comunicazione. Perciò avevano costruito i villaggi dall'altra parte del paese, dove c'era l'unica buona terra da coltivare. Le donne s'erano allenate fin da piccole a portare la gerla in spalla carica di fieno, letame e patate. I bambini percorrevano gli stessi sentieri per recarst alla scuola del paese, anche con la neve.

La SADE era tenuta, secondo quanto era scritto nel disciplinare di concessione, a mettere in opera tutte le misure necessarie per garantire il normale bisogno delle popolazioni. Ed esse volevano una passerella che attraversasse la valle. La SADE, in un primo tempo, accettò di costruirla. In seguito, probabilmente dopo l'autorizzazione a sopraelevare il livello dell'acqua, si rifiutò. Disse che avrebbe, invece, costruito una strada di circonvallazione, bella e panoramica. Per i contadini la strada significava sette chilometri di percorso per andare e tornare dal paese. A piedi, poiché, a quel tempo, nessuno possedeva neppure una motocicletta. Significava fatica e perdita di tempo per le donne che dovevano recarsi al paese per le spese, per i bambini che dovevano andare a scuola. Ed era un grosso inconveniente in caso di urgenti necessità, quali un medico o qualche ammalato grave da trasportare. Per di più, la strada veniva costruita su un percorso che ad ogni primavera con il disgelo e ad ogni autunno con le piogge, franava. La gente si oppose. Iniziò la seconda ondata di proteste anti-SADE.

La società elettrica corse ai ripari. Capì che con i contadini di Erto bisognava mettere nero su bianco per convincerli. E il nero che stava scritto sulle sue carte ufficiali parlava chiaro in favore dei contadini. Bisognava allora modificare e carte. La sua mano era abbastanza lunga per arrivare dappertutto. Un giorno si presentò ad Erto con un nuovo disciplinare di concessione, con il quale il ministro competente la esonerava dal costruire il ponte perché «la natura del terreno non reggeva all'opera». Il terreno di Erto era tutto della stessa natura. Secondo le carte dei ministeri e della SADE il ponte non si poteva costruire perché era pericoloso, ma la diga e il bacino, invece, si potevano fare.

I contadini ricorsero contro il nuovo disciplinare. Nessuno li ascoltò. La SADE, intanto, segnò il tracciato della strada e cominciò a costruirla. Man mano che i lavori avanzavano espropriava i contadini, senza nemmeno chiedere il loro permesso. Passava sui loro terreni, rovinandoli; davanti alle loro case; sui loro cortili. «Pubblica utilità» - diceva. Gli ertani, umiliati e inferociti, protestarono giustamente, verso autorità locali, provinciali e nazionali, il loro diritto ad essere trattati almeno umanamente. Le loro proteste suonarono sempre a vuoto. Ci fu una persona, per la verità, che ritenne giuste le proteste dei contadini. Fu l'ingegner Desidera, allora ingegnere capo del Genio Civile di Belluno. Questi, di sua iniziativa, fece fermare i lavori della strada. Il giorno dopo questa sua presa di posizione venne trasferito da Belluno.

Una mattina, un contadino, esasperato, affrontò i tecnici della SADE brandendo un'accetta. «Se fate ancora un passo sul mio vi ammazzo tutti», gridò. I carabinieri lo andarono a prelevare e lo denunciarono per minaccia a mano armata.

Cosa dovevano fare gli ertani di fronte alla prepotenza legalizzata, di fronte a una società privata che dettava legge, di fronte a uno Stato che proteggeva i forti contro i deboli? Pensarono di costituire un consorzio di capi famiglia, che avesse veste giuridica per affrontare i potenti. Indissero una pubblica assemblea, che si tenne una domenica mattina, con il vento che spazzava via l'ultima neve. Invitarono, per l'occasione, i parlamentari della circoscrizione, di ogni partito. Tranne l'on. Giorgio Bettiol di Belluno, nessuno si fece vivo.

La riunione ebbe luogo il 3 maggio 1959 nella rustica sala da ballo dell'ENAL, alla presenza del notaio dott Adolfo Soccal di Belluno, che redasse l'atto costitutivo e legalizzò le firme dei 136 capi famiglia, che sottoscrissero il documento. La riunione fu molto più numerosa. Intere famiglie si recarono sul luogo dell'assemblea, anche molte donne con i bambini, che nel corso della prima messa domenicale avevano sentito le parole di esortazione del parroco don Doro, affinché tutti aderissero all'iniziativa «sacrosanta».

Quella mattina successe un fatto che turbò un poco i presenti. Un imponente vecchio, Giovanni Martinelli, era giunto da oltre la valle con due cartelli. «Abbasso la SADE» e «Abbasso il governo» - c'era scritto. Aveva ragione da vendere, visti i precedenti. I carabinieri si indispettirono e gli ordinarono di depositarli in un angolo. Lui si rifiutò fieramente. I carabinieri glieli strapparono con la forza, malgrado che egli tentasse di trattenerli. «Se non li molla la denuncio per resistenza a pubblico ufficiale» - scandì l'uomo in divisa. Giovanni Martinelli aveva fatto la guerra del '15-18; aveva aiutato i partigiani nell'ultima guerra; aveva avuto la casa bruciata dai tedeschi e dal governo non aveva ricevuto una lira per i danni subiti. Era uno dei più energici nelle proteste; uno dei più sicuri che la montagna dovesse franare e provocare una tragedia. Quella terribile notte del Vajont, l'acqua gli avrebbe portato via un figlio di 23 anni.

L'assemblea si svolse con ordine, ma in un clima di ribellione che ognuno covava dentro il petto da tempo. Una vecchia disse: «Se i ladri vengono a rubare in casa mia, io ho ben il diritto di prendere il fucile e di difendermi».

A presidente del consorzio fu eletta la signora Lina Carrara, moglie di quel Pietro Carrara che fu uno dei primi animatori delle proteste anti-SADE. Egli, dopo l'esproprio dei terreni, era stato costretto ad accettare lavoro dalla società elettrica. Morì in un infortunio occorsogli durante la costruzione della diga. Sua moglie, insegnante elementare a Pordenone, accettò subito l'incarico degli ertani, in nome di una solidarietà umana che non si sentiva di tradire verso i compaesani di suo marito, che avevano offerto il proprio sangue numerosi all'epoca dell'infortunio, nel generoso tentativo di salvarlo.

Molti ertani parlarono quel giorno. Degli espropri, della strada e del costruendo bacino. Qualche mese prima, nel vicino lago artificiale di Forno di Zoldo, era franato un pezzo di montagna. Anche ad Erto il terreno era di natura franosa, in pendenza dal 40 al 70%. Il paese era addirittura costruito su terra di riporto alluvionale. I contadini portavano l'esempio di Forno di Zoldo e di Vallesella di Cadore. In ambedue i casi l'acqua dei laghi artificiali, col suo continuo movimento ondoso, aveva «mangiato» il terreno di natura franosa e provocato disastri. A Vallesella tutte le case si erano spaccate. Gli ertani manifestarono la loro apprensione e si proposero di condurre avanti una lotta organizzata «per la difesa e la rinascita della valle ertana». Questa fu, appunto, la denominazione data al consorzio.

Una giornalista dell'«Unità», presente all'assemblea, riferì sul suo giornale la cronaca dell'avvenimento, registrando le impressioni della popolazione di Erto in merito all'invaso. Fu denunciata all'autorità giudiziaria, dal brigadiere dei carabinieri Battistini, per «notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico». La denuncia aveva il chiaro scopo di intimorire gli ertani; di stroncare la loro resistenza. Ottenne il risultato opposto, poiché molti contadini si offersero di andare a testimoniare al processo.

Tra la denuncia e la celebrazione del processo passò un anno. Nel frattempo, precisamente il 6 novembre 1960, dal monte Toc franarono alcune centinaia di metri cubi di materiale. Un appezzamento di bosco, della lunghezza di duecento metri, sprofondò nel lago. L'ondata che si sollevò fu abbastanza grande, ma non fece vittime, essendo il livello dell'acqua alquanto basso. Il franamento spazzò via numerose case che erano state espropriate per l'invaso e provocò larghe fenditure in tutta la zona del Toc. Chi non aveva ancora creduto al pericolo si rese conto che il paese era destinato alla rovina.

Il 30 novembre 1960 si celebrò il processo a carico dell'«Unità». I giudici di Milano ascoltarono con interesse la deposizione della giornalista e quella dei montanari di Erto. Esaminarono attentamente le fotografie che riproducevano la zona. Si informarono minuziosamente della situazione di Erto e Casso, facendo un po' di confusione nel pronunciare i due strambi nomi. Gli ertani si appellarono ai giudici con foga contadina, affinché la loro sentenza fosse un allarme che destasse l'attenzione delle autorità sulla sorte della zona. I giudici, alfine si ritirarono. Rimasero pochissimo in camera di consiglio. Quando ritornarono in aula lessero una sentenza di piena assoluzione, ritenendo che, nell'articolo incriminato «nulla vi era di falso, di esagerato o di tendenzioso».

Ma neppure l'autorevole sentenza di un tribunale indusse la pubblica autorità ad intervenire in difesa delle popolazioni minacciate. Il consorzio di Erto intensificò la lotta, interessando della sicurezza delle popolazioni prefetti, uffici del Genio Civile, la SADE, la Provincia, il Parlamento. Il consiglio provinciale votò all'unanimità un ordine del giorno in data 13 febbraio 1961 sulla situazione di pericolo del Vajont, che fu personalmente recato a Roma da una delegazione dello stesso consiglio, guidata dal presidente dott. Alessandro Da Borso. Di ritorno da Roma, nel riferire al consiglio sull'esito della missione, egli espresse il suo sconforto dichiarando: «la SADE è uno Stato nello Stato».

La solita giornalista dell'«Unità» scrisse un altro articolo, in data 21 febbraio 1961, denunciando un pericolo che avrebbe potuto divenire tragedia. In esso, tra l'altro, diceva: «Una enorme massa di 50 milioni di metri cubi di materiale, tutta una montagna sul versante sinistro del lago artificiale, sta franando. Non si può sapere se il cedimento sarà lento o se avverrà con terribile schianto. In questo ultimo caso non si possono prevedere le conseguenze. Può darsi che la famosa diga tecnicamente tanto decantata, e a ragione, resista. Se si verificasse il contrario e quando il lago fosse pieno, sarebbe un immane disastro per lo stesso paese di Longarone adagiato in fondovalle».

Qualcuno si domanderà: ma la SADE sapeva, era al corrente della situazione di pericolo nel Vajont? La risposta è: sì, la SADE sapeva perfettamente, ma aveva tutto l'interesse a non renderlo pubblico, in vista della nazionalizzazione. L'impianto doveva passare allo Stato in piena efficienza, affinché venisse ripagato per intero, dopo che era già stato sovvenzionato nel corso della sua costruzione con altissime percentuali sulla spesa totale, dal 10 all'80%.

Tuttavia, in segreto, la SADE fece i suoi esperimenti. Incaricò l'Istituto di idraulica dell'Università di Padova di cui era ed è titolare il prof. Ghetti, di effettuare una prova su modello per misurare, su scala ridotta, gli effetti della caduta del Toc e della tracimazione delle acque del lago oltre la diga. L'esperimento venne fatto a Nove di Fadalto. Diede risultati sconcertanti, che furono tenuti segreti. In base alla prova effettuata, l'acqua sarebbe tracimata in misura di 2-3 milioni di metri cubi e il Toc avrebbe franato di 50 milioni di metri cubi di materiale. La notte del 9 ottobre franò per 200 milioni di metri cubi di materiale e tracimò (30 milioni di metri cubi d'acqua. L'esperimento, condotto con dovizia di mezzi e da tecnici altamente qualificati, si dimostrò errato. Ma anche se l'acqua del Vajont fosse precipitata nella misura calcolata sull'abitato posto sotto la diga, dove si trovava anche la cartiera di Verona sarebbero morte due o trecento persone, nella migliore delle ipotesi.

Per la SADE il problema era quello di poter continuare ad utilizzare il bacino, di non interrompere la produzione, quando la montagna sarebbe caduta. L'invaso del Vajont era il più importante invaso dei collegati Boite-Maè-Piave-Vajont. Era un grosso bacino di riserva le cui acque venivano avviate ad alimentare la grossa centrale di Sovèrzene in tempo di «magra» del Piave. Era, perciò, il più importante. Interrompere l'attività del bacino, sia pure a causa di una grossa, minacciosa frana in movimento, voleva dire perdere miliardi di guadagno. Ormai il bacino era fatto e bisognava utilizzarlo al massimo. Si doveva andare avanti fin che si poteva. E prevedere il modo di utilizzare le acque anche dopo. Per la SADE il rischio valeva la candela.

Il monopolio elettrico chiamò dall'estero varie commissioni di esperti per studiare il problema. Essi consigliarono di costruire un tunnel di scarico sotterraneo, con sbocchi a monte e a valle della diga, nel caso che la montagna, cadendo, formasse due laghi. Erano già in grado di prevedere con esattezza come la caduta del Toc sarebbe avvenuta. La SADE li ascoltò e costruì l'opera.

Nella primavera del 1963, poco prima del decreto di nazionalizzazione, il lago venne riempito per la prima volta fino a quota 702 metri. Per «precauzione» ci si tenne al di sotto di 20 metri dal massimo livello consentito.

Bisogna dire che la commissione di collaudo nominata dal Consiglio superiore dei Lavori Pubblici non collaudò mai l'impianto del Vajont. Tra gli stessi componenti esistevano opinioni opposte sulla validità dell'opera fin dall'autunno 1960, all'epoca della caduta della prima frana. Proprio per l'esistenza di queste opinioni diverse la commissione divenne un organismo permanente, con facoltà di collaudo in corso d'opera. Ciò voleva dire provare, tentare e vedere. Fino alla primavera del 1963 si erano fatti soltanto tentativi e prove. Il bacino veniva «invasato» di pochi metri alla volta e poi svuotato per misurare la stabilità del terreno. Nell'estate del 1963 esso appariva colmo d'acqua. Ma anche in questa occasione il collaudo non ebbe luogo. Il geologo prof. Penta dissentì dagli altri colleghi della commissione, manifestando seri dubbi sulla stabilità futura della zona. Il ministro dei Lavori Pubblici al quale furono presentate le due ipotesi contrarie formulate dai membri della commissione, accolse la più ottimista. E diede parere favorevole al pieno invaso del bacino senza che questo fosse stato mai collaudato dai tecnici.

Dopo qualche mese, la spalla sinistra della diga presentò qualche difficoltà. Forse la pressione dell'acqua era troppo forte. Si corse ai ripari, immettendo continuamente «iniezioni» di cemento nei punti ritenuti più vulnerabili. L'operazione non risultò di grande sollievo. Bisognava ridurre il livello del lago, per salvare la diga. Riducendo l'acqua era probabile che cadesse il Toc. La SADE si trovò di fronte a un grosso problema tecnico.

Venne presa la decisione di abbassare le acque a ritmo lentissimo, tenendo contemporaneamente d'occhio la montagna. I tecnici incominciarono a svuotare il lago mentre la frana avanzava, ormai, di 40 centimetri il giorno. Pensavano di poter terminare lo svaso entro la fine di novembre.

Un mese prima della catastrofe, il vice-sindaco di Erto, Martinelli, scrisse una allarmante lettera all'ENEL-SADE, alla Prefettura e al Genio Civile di Udine, esprimendo seri dubbi sulla stabilità delle sponde del lago e chiedendo «di provvedere a togliere dal Comune di Erto e Casso le cause dello stato di pericolo pubblico prima che succedano, come in altri paesi, danni riparabili e non riparabili; quindi mettere la popolazione di Erto in uno stato di tranquillità e di sicurezza e solo dopo rimettere in attività il bacino di Erto». L'ENEL-SADE rispondeva dichiarando «piuttosto azzardate» le previsioni del Comune, e asserendo che l'abitato non correva assolutamente alcun pericolo.

Una settimana prima della tragedia i tecnici in servizio sulla diga manifestano apertamente, ai dirigenti, la loro preoccupazione. Sordi boati e scosse del terreno sono all'ordine del giorno. I tecnici parlano del pericolo anche con gli amici, tramite il filo del telefono: «Qui da un momento all'altro si va tutti in barca»; «Sto mangiando, e la scodella balla». Tre giorni prima del disastro l'ing. Caruso dell'ENEL viene delegato a seguire in permanenza l'andamento della frana. ll geometra Rittmayer che era stato trasferito a Venezia viene bloccato sulla diga. Gli operai addetti ai servizi non vogliono più andare a lavorare. Il vice-sindaco di Longarone, Terenzio Arduini, telefona al Genio Civile di Belluno per essere rassicurato sulle voci di grave pericolo che circola nella zona. Viene rassicurato. Nel pomeriggio del 9, fino alle ultime ore prima della tremenda valanga d'acqua, partono per Venezia, sede dell'ENEL-SADE, drammatiche telefonate dai geometri sulla diga, annunciando l'imminente pericolo. «Mi lasci vedova» grida la moglie del geometra Giannelli, inutilmente tentando dl convincere il marito a non tornare al suo posto di lavoro. Alle ore 21 si risponde al geometra Rittmayer, che tempesta di telefonate la direzione di Venezia, di «dormire con un occhio aperto» ma di stare calmo, ché a Venezia non si prevede tanto pericolo. Sempre alle 21 si mandano due carabinieri a Longarone nei villaggi sotto la diga per avvertire la popolazione di non allarmarsi «se dalla diga uscirà un po' d'acqua». Alla stessa ora l'ing. Caruso chiede ai carabinieri di far bloccare il traffico sulla statale d'Alemagna, senza preoccuparsi del fatto che la strada passa proprio in mezzo al centro abitato di Longarone. Nessuno pensa di far evacuare i paesi. Probabilmente ci si fidava fin troppo della prova sul modello effettuata dai grandi professori, equivalente al gioco dei bambini che buttano sassi in un catino d'acqua.

Alle 10,45 il Toc frana nel lago, sollevando una paurosa ondata d'acqua. Questa si alza terribile un centinaio di metri sopra la diga, tracima dalla stessa e piomba di schianto sull'abitato di Longarone, spazzandolo via dalla faccia della terra. A monte della diga, un'altra ondata impazzisce violenta da un lato all'altro della valle, risucchiando dentro il lago interi villaggi. Oltre 2500 vittime in tre minuti d'apocalisse. L'assassinio è compiuto.

(articolo di Tina Merlin su «Rinascita», 28 dicembre 1963)


FONTE: se non altrimenti specificato sopra, dal giornale «L'Unità». Articoli a firma della giornalista Tina Merlin.

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