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Premessa
- ARRINGA IN TRIBUNALE
Reato colposo
Impercettibilmente
La colpa
Prevedibilità
Previsioni
Indizi
Il documento n. 1999
Le previsioni
Documento n. 1757/20
Agghiacciante
Rottura della diga
Pontesei
Ipotesi Penta
Il caso fortuito
- ARRINGA IN APPELLO
Il vento di frana
Thema decidendum
Le ipotesi
Mòniti
Pontesei
Lo spostamento dei capisaldi
- Note sull'Autore
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Stampato nel mese di dicembre 2009
presso la C.L.E.U.P. - Coop. Libraria Editrice Università di Padova - ============================
Note sull'Autore
Giorgio Tosi è nato a Rimini il 2 novembre 1925 e vive a Padova, dove si è laureato in Filosofia e poi in Giurisprudenza. Ha
esercitato la professione di avvocato per quarant'anni fino al 31
dicembre 1993, partecipando a processi importanti e famosi.
Fu nella Resistenza in Trentino (Alpenvorland). Arrestato dalle SS fu condannato dal Tribunale speciale tedesco il 2 agosto
1944 e liberato per ordine del Comitato di Liberazione di Bolzano il 3 maggio 1945, quando i primi carri armati americani stavano entrando in Bolzano. È stato riconosciuto partigiano combattente con 18 mesi di anzianità, e ha ricevuto due croci al merito di guerra per attività partigiana dall'Esercito italiano
Sono uscite nel frattempo le raccolte di versi 'Uabaia freccia', prefazione della scrittice Antonia Arslan, e 'Ballò una sola estate'
prefazione del prof. Armando Balduino dell'Università di Padova, pubblicate entrambe dalla Ibiskos. Con la silloge 'Ballò
una sola estate' ha ottenuto il 1° premio al concorso nazionale
'Citta di Salò' patrocinato dal Presidente della Repubblica. Seguono 'Billy Budd', prefazione del prof. Umberto Curi e 'Dialoghi
Vagabondi', prefazione del prof. Noè Trevisan dell'Università di
Padova, sempre con la Ibiskos.
Ha collaborato fino al 2006 con «il Mattino di Padova», e con
«Questo Trentino», rivista che viene stampata e diffusa nel
Trentino.
Prima edizione: dicembre 2009
ISBN 9788861294493
"Coop. Libraria Editrice Università di Padova"
Via G. Belzoni, 118/3 - Padova (Tel. 049/8753496)
www.cleup.it
© Copyright 2009 by Giorgio Tosi
Tutti i diritti di traduzione, riproduzione e adattamento, totale o parziale, con qualsiasi mezzo (comprese le copie fotostatiche e i microfilm) sono riservati.
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La giornalista de "L'Unità" Tina Merlin aveva denunciato il pericolo anni prima con un articolo sul giornale. Guglielmo Celso, sindaco di Longarone tempo prima della tragedia, andava ripetendo: "Quella diga è la nostra
morte".
Chi vuole conoscere i particolari anche tecnici può leggere la relazione del prof. Claudio Datei all'Accademia Galileiana di Scienze, Lettere ed Arti di Padova e "La notte del Vajont" a cura di Franco Cadore.
Molti avvocati difesero gli imputati, tra cui il prof. Giovanni Conso (che divenne poi Presidente della Corte Costituzionale).
Dovetti così studiare geologia, idraulica, i metodi per fare gli esperimenti e tutte le carte del processo. Il PM dr. Mandarino e il Giudice Istruttore Mario Fabbri avevano sequestrato il bacino e tutti gli atti della tragedia, con rigore, intelligenza, preparazione giuridica. Passai tre anni a studiare ogni particolare.
Poi la Cassazione inflisse un'umiliazione alle vittime e ai superstiti trasferendo il processo a L'Aquila. Presidente era un certo Dal Forno che tra noi prendevamo in giro chiamandolo "forno crematorio".
Per onorare le vittime e i superstiti, e i difensori delle madri, dei padri, dei fratelli che avevano perso tutto e i loro cari, ho ritenuto opportuno, dopo 49 anni, pubblicare le mie arringhe secondo le indicazioni dei colleghi. Da esse si potrà forse capire il dramma vissuto dai difensori, dagli imputati (uno si suicidò), dai superstiti e dai giudici.
Quando in un giorno di ottobre 1969 il Tribunale di L'Aquila entra in aula, il posto riservato ai superstiti è occupato da donne in nero, da uomini in nero, da giovani vestiti di nero: sono la siepe nera dei superstiti. Il Presidente non ha l'accortezza di osservare un minuto di silenzio in omaggio ai morti del Vajont.
ARRINGA IN TRIBUNALE
Presidente. L'udienza è aperta. La parola è all'avv. Tosi.
Avv. Tosi. Signor Presidente, signori giudici, signor Pubblico Ministero e colleghi, io parlo per la parte civile Terenzio Arduini, nel processo penale Biadene ed altri, imputati dei reati in atti.
Oggetto della causa è un reato colposo, e più precisamente tre reati colposi: frana, inondazione e omicidi plurimi. Il "thema decidendum" è quindi unicamente quello di
stabilire se nel comportamento degli imputati vi sia stata
o no colpa. Problema giuridico, che va risolto con mezzi giuridici, con linguaggio giuridico, con metodologia giuridica.
Domanda: ma allora, tutto ciò che non è strettamente connesso all'oggetto e al criterio dell'indagine giuridica deve e può essere tenuto lontano da quest'aula?
Faremmo torto ai consociati, ai giudici, e a noi stessi, se pensassimo che questo interesse e quest'ansia dipendano esclusivamente dall'entità della catastrofe, dal fatto che, nel giro di pochi secondi, 2.000 persone sono morte e interi paesi sono stati distrutti. È noto che, da un punto
di vista psicologico, la scomparsa di una persona sola, il
crollo di una sola casa, la morte in carcere di un bambino
di otto mesi, come è accaduto due settimane fa, o la fuga
in Libano di un solo bancarottiere fraudolento, fanno più
impressione dell'ecatombe simultanea di duemila persone. Fa più impressione della fuga di 100 anonimi detenuti
e del fallimento di una società per azioni che, per dirla
con Dostojevsky, è sempre una nidiata di gentiluomini,
bancarottieri in potenza e libanesi per tendenza.
Vi è dunque qualche cosa di più di un semplice fatto emozionale, che sollecita a guardare oltre il limite strettamente giuridico della questione. La verità e che la tragedia del Vajont ha assunto per taluni un significato emblematico, quasi che i precedenti, gli antefatti, la catastrofe stessa e alcuni aspetti della lunga istruttoria possano interpretarsi come uno "spaccato" della società in cui viviamo e operiamo. Alcuni hanno detto che la catastrofe del Vajont è un fatto conseguente, lineare, logico, del sistema; è la riprova che il sistema è sbagliato. È dunque il sistema che va giudicato e condannato.
Ora, non vi sfugge che questo tipo di interpretazione sembra mettere la sordina alle colpe individuali e fondare invece l'analisi e la critica sulla natura classista della società e sulle cause sociologiche della catastrofe. Altri invece hanno detto che la catastrofe del Vajont non è una conseguenza del sistema, ma piuttosto una sua non necessaria degenerazione. La tragedia è frutto di una applicazione abnorme delle leggi che regolano il sistema, è una deviazione dalla retta via. Non è, quindi, il sistema che va condannato, ma le colpe individuali. Non è l'albero che va tagliato alla radice, ma il ramo secco che ha dato frutti sbagliati.
Questa, scheletricamente, è la tematica politica nel senso
più alto della parola, che ha interessato e scosso larghi
settori dell'opinione pubblica italiana, attenta alle sorti
del Paese. Tematica politica, signor Presidente e signori
giudici, che è entrata anche nell'aula di questo Tribunale,
con la requisitoria scritta del Procuratore della Repubblica e con la sentenza di rinvio. Noi non possiamo respingerla, ma dobbiamo fermamente sottometterla alle esigenze del diritto, alla sua metodologia e alla sua struttura.
A questa tentazione metagiuridica non dobbiamo lasciare la briglia sul collo, ma non dobbiamo neppure reprimerla o soffocarla. Dobbiamo invece utilizzarla e sottometterla alle regole di diritto, che da altre fonti può richiedere e deve ricevere illuminazione e materiale di verità da tradurre in linguaggio giuridico. Se volessi trasformare il mio dire in un comizio, sarei certamente un pessimo avvocato e anche un pessimo uomo politico. Ma, se ciò vale per la politica e per l'indagine sociologica, vale altrettanto per la tecnica e per la scienza, o forse farei meglio a dire "per la pseudotecnica e per la pseudoscienza": tanto è vero che, se volessi svolgere ora, qui, in quest'aula del Tribunale, una dissertazione di tecnica delle costruzioni, di geologia o di idraulica, sarei certamente un pessimo
tecnico, ma anche un pessimo avvocato.
Bisogna dunque attenersi strettamente al tema, anche a costo di sentire sulla lingua il bove dell'antica tragedia. Ciò non significa, peraltro, che non mi sarà consentito di fare delle considerazioni, qualche breve osservazione metagiuridica che serva - e solo se serve - a gettare luce su
qualche aspetto grottesco ma significativo di questa terribile tragedia.
Voglio liberarmi subito di quello che non è un bove, ma un moscerino: di tutta la lunga relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta della maggioranza, una sola cosa mi ha colpito, ed è un avverbio, l'avverbio "impercettibilmente".
Debbo quindi ritenere che gli estensori della relazione non siano degli ignoranti, ma degli strani e meravigliosi filologi, specializzati in avverbi, i quali, accecati da intuizioni poetiche, hanno tentato di realizzare un impossibile accoppiamento tra filologia e geologia; accoppiamento che ha scandalizzato e scandalizza in modo non impercettibile la coscienza degli uomini onesti. La mia potrebbe sembrare soltanto un'osservazione impertinente. Vi
prego invece di prenderla come un mònito a sbarrare risolutamente la porta alle suggestioni che possono venire da questa 'lex assolutoria' quale sembra essere la relazione di maggioranza; a sbarrare il passo alle suggestioni della menzogna, alle suggestioni di coloro che hanno aggiogato il cervello al pesante giogo dei gruppi di potere.
Un uomo che si sposti in tre anni di quattro metri è praticamente immobile; si sposta indubbiamente in modo impercettibile.
Tutto ciò è stato macroscopicamente percettibile; la grande fessura, lo spostamento dei capisaldi, l'inclinazione degli alberi. Le frane parziali, gli scricchiolii, i boati, il decadimento del modulo elastico, l'allarme delle popolazioni. Le stesse preoccupazioni dei tecnici della SADE sono reali. Dov'è l'errore di fondo, che è percettibile anche da parte di un bambino? È nel fatto di aver riferito una velocità ed uno spostamento microscopici ad un fenomeno macroscopico.
Competerà dunque all'accusa dimostrare l'esistenza della colpa, mentre alla difesa farà carico l'obbligo di provare l'assenza di ogni colpa nel comportamento degli imputati. Non è certo il caso, e non è mio compito, di premettere un'indagine dottrinale o giurisprudenziale sul concetto di colpa; altri l'hanno fatto, altri lo faranno con maggiore autorità di me. Domani parlerà il professor Bettiòl; io desidero solo, per necessità di discorso, ricordare i due criteri da tutti accettati per la costruzione del concetto di
colpa: prevedibilità ed evitabilità dell'evento.
Vi è colpa se l'evento è prevedibile ed evitabile, non vi è colpa se l'evento non è prevedibile e quindi non è evitabile.
Dobbiamo invece accertare le cause umane della catastrofe, e cioè quei comportamenti, che in presenza di determinate situazioni hanno dato luogo ad azioni, omissioni o violazioni di leggi e regolamenti tali da costituire colpa ed essere quindi ritenute penalmente rilevanti. Mi spiego.
Vertendosi in materia di colpa, e necessario accertare se i preposti al bacino e gli organi di controllo potevano prevedere o addirittura previdero, non già l'evento in tutte le sue particolarità e modalità con le quali si verificò poi nella realtà, ma la possibilità che un evento catastrofico si verificasse, tale da mettere in pericolo persone e cose.
Ecco, le previsioni sono conoscenze astratte e non concrete, sono ipotesi di lavoro su ciò che potrà verificarsi.
Un evento produttivo di danno può essere prevedibile, ma può essere altamente improbabile, e può anzi essere
altissimamente improbabile, ma è sufficiente la sua possibilità per realizzare una situazione di responsabilità.
Nel caso di specie, era certamente prevedibile, ed anche probabile, un evento catastrofico, altrimenti non si spiegherebbero le numerose, costose ricerche e indagini fatte dalla SADE per accertare il divenire del movimento in atto e le possibili conseguenze. Tutt'al più si può dire, che era poco probabile un certo tipo di evento catastrofico; ma avendo a che fare con imponenti fenomeni geologici, non ci si doveva aspettare che la natura obbedisse al millimetro agli schemi dagli studiosi.
Questa è una delle affermazioni basilari della prima perizia; ora, questa è una affermazione orgogliosa, superba, che secondo me offende il buon senso ancor prima della logica, e non è motivata.
Ebbene, i responsabili del bacino potevano e dovevano prendere in considerazione anche questa ipotesi; il monte Toc non sarebbe mai precipitato, se ne sarebbe rimasto immobile, per l'eternità, con la sua bocca spalancata verso il cielo, pensile sul lago artificiale beffandosi delle preoccupazioni. Ciò premesso. mi pare che abbiamo il dovere di esaminare se per caso nella tesi della difesa, e cioè che l'ipotesi più catastrofica doveva essere esclusa, non vi sia qualche fondamento.
Non è certo il caso del Vajont, signori giudici. Se vi è stata una catastrofe preceduta nel tempo da mòniti terribili, da indizi macroscopici e non equivoci, questa è la catastrofe del Vajont. Come si può dunque negare che la catastrofe fosse prevedibile?
Altro esempio: il quindicesimo rapporto Müller. Müller non ha mai scritto che la frana aveva un volume approssimativo di 250 milioni di metri cubi, non ha mai scritto che due terzi di essa potevano cadere, non ha mai scritto che il bacino poteva essere diviso in due dalla frana. Müller non ha mai scritto che esisteva con assoluta certezza un diretto legame tra i diversi livelli dell'acqua del bacino ed i movimenti franosi. Müller non ha mai scritto che al serbatoio era da attribuirsi un effetto di accelerazione e di aumento dei movimenti franosi.
Altri elementi: i caposaldi non si sono mai spostati in avanti ed in basso, ma se ne sono andati indietro. Il modulo di decadimento? Ma il rapido abbassarsi della velocità di propagazione del modulo di decadimento non significa una degradazione della roccia, ma significa anzi che la roccia sottostante si salda e diventa più rigida e compatta. La galleria? Ma non è stata costruita in previsione della divisione in due del bacino, ma per motivi estetici o per dare lavoro agli operai. I piezometri? Ma non è vero che sono rimasti integri; si sono spezzati a dieci, venti metri di profondità, quindi dimostrando la validità dello scorrimento superficiale.
Dilemma di Penta? Quando mai Penta ha formulato il drammatico dilemma?
Egli ha sempre detto che la frana non c'era o se c'era era superficiale. Relazione Ghetti? Ma il professor Ghetti non ha mai scritto che la quota di sicurezza era di metri 700. Anzi ha detto: provate pure, andate a quota 710 e più, tanto non succede nulla. Il Ghetti non ha mai detto di continuare gli studi per accertare le conseguenze di una inondazione a valle della diga, cioè nella valle del Piave, anzi ha detto che sarebbe stato inutile, perché qualsiasi
cosa fosse successa, dalla diga non sarebbe uscita una goccia d'acqua.
E potrei continuare all'infinito, con questa lettura paradossale a rovescio. Ma la conclusione sarebbe sempre la stessa; l'ipotesi catastrofica non poteva essere formulata, ed anche se formulata doveva essere esclusa. In effetti, se noi provassimo a rovesciare come un guanto ogni documento del processo, se noi neghiamo i fatti o li leggiamo a rovescio, dobbiamo concludere che l'imputato
Biadene ha ragione, e dobbiamo proscioglierlo con tante scuse.
Ma allora io mi domando: perché l'imputato Biadene ha vergato di suo pugno il famoso documento 1999?
Evidentemente, l'imputato Biadene voleva scrivere "non è pericoloso l'alzarsi dell'acqua, e la discesa 'quasi statica' della frana lenta". Viene spontaneo dire: povero Biadene, trascinato in tribunale, colpito addirittura da mandato di cattura, quando doveva essere invece portato di corsa da uno specialista che lo guarisse dalle sue paranoie, e gli spiegasse il senso ed il significato di queste.
Egli è fuori posto in questo processo, starebbe molto meglio nella calma del suo studiolo a leggersi la psicopatologia della vita quotidiana di Freud. Voi capite che l'ironia aiuta a contenere il tormento, a trattenere l'ira compressa, aiuta a parlare quando si ha il cuore atterrito per le agghiaccianti previsioni fatte tre anni prima della catastrofe, e freddamente consegnate ad un documento che per nostra fortuna, per vostra fortuna, per la fortuna del Paese, si è riusciti a sequestrare.
In esso si radica in modo fermissimo l'aggravante della previsione, che nessuna acrobazia giuridica riuscirà ad eludere. Io ho detto che le previsioni sono conoscenze astratte, sono ipotesi, sono temi di comportamento della realtà, costruite sulla conoscenza completa del passato e del presente. Sulla base di queste, ci si raffigura il futuro, si delinea il possibile divenire degli accadimenti, e naturalmente il futuro potrà confermare o smentire le ipotesi, gli schemi di comportamento che sono appunto le previsioni.
Ebbene, qui vi è consapevolezza, non ignoranza, e duplice consapevolezza, quella relativa al comportamento naturalistico della frana, e quella relativa alle conseguenze del comportamento umano. Questa è appunto l'aggravante
della previsione.
E se il documento n. 1999 è lapidario, quello n. 1757/20 nella sua ampia argomentazione è addirittura agghiacciante. Si tratta del verbale 15-16 novembre 1960, verbale di sopralluogo cui parteciparono Müller, Semenza, Pancini, Linari ed altri. Il tribunale lo conosce e quindi io non lo rileggerò, ma consentitemi di riferire una frase che è estremamente significativa, contenuta in quel verbale.
"È da rifiutare l'eventualità che un grande movimento di massa avvenga con il serbatoio invasato al di sopra di quota 650. Infatti in questo caso sarebbe estremamente pericolosa la formazione di un'onda...".
Dunque, tre anni prima della catastrofe, si prevedeva un effetto idraulico di tali proporzioni da sfondare la diga, cosa che poi non è accaduta, e cioè un fenomeno geologico ed idraulico più grande di quello che si verificò il 9 ottobre 1963. La diga infatti rimase intatta; nel novembre del 1960 si temeva addirittura lo sbriciolamento della diga, si prevedeva cioè la formazione di un'onda gigantesca, in conseguenza di una frana (documento 4951/145). L'ingegner Semenza chiede al professor Marzolo quale altezza potrebbe raggiungere l'onda di piena in caso di rottura della diga.
Poteva anche essere frutto dell'agitazione del momento, ma per me la domanda è retorica. Il 4 novembre 1960, cioè 10 giorni prima, era caduta una frana dalla sponda sinistra del Toc di circa 800 mila metri cubi. La massa si era staccata per crollo, si dice, ma non se ne è certi, nel tempo di dieci minuti, determinando un'onda d'urto di dieci metri. Ora tralasciamo per un momento il tempo di caduta, su cui avremo occasione di tornare poi; probabilmente vi è un equivoco, e si è confuso tra tempo di caduta vero e proprio, come del resto hanno detto onestamente anche i periti di parte, e la durata intera del fenomeno geo-dinamico idraulico, e cioè fino a quando il bacino non è tornato in stato di quiete.
A Pontesei una frana di tre milioni di metri cubi, caduta in circa trenta secondi, cosi dice l'ingegner Linari, testimone oculare, con una durata complessiva di due-tre minuti, aveva provocato un'onda di circa quaranta metri.
Il rapporto volumetrico tra le due frane, Pontesei e Vajont, non è ovviamente da uno a cento, come potrebbe sembrare: Pontesei tre milioni, Vajont 300 milioni, poiché qui abbiamo a che fare con i volumi, e non con le misure lineari. Il rapporto, per l'esattezza, è da 1 a 4,7 perché supposto '1' Pontesei e supposto '100' il Vajont, si ha 103; per semplicità di ragionamento, si può ritenere che il rapporto volumetrico tra le due frane sia di uno a cinque; ma si deve ritenere che lo stesso rapporto da uno a cinque dovesse intercorrere tra le due onde, che pure volumi sono.
I ragionamenti 'post factum' servono e sono illuminanti ai fini della prevedibilità e della previsione, solo se coincidono con quelli che potevano farsi 'ante factum'. E proprio per questo insisto su Pontesei, esso fu l'anticipazione esatta di quello che accadde al Vajont. Abbiamo visto quali sono i rapporti dimensionali e volumetrici tra le due frane: Pontesei fronte alto 40, Vajont metri 200, Pontesei fronte largo metri 400, Vajont 2.000 circa; volume Pontesei 3 milioni, Vajont 300 milioni. Il rapporto volumetrico ed anche quello lineare, per quanto riguarda le distanze lineari, è di uno a cinque. Conclusione su questo punto: se gli effetti idrodinamici a Pontesei furono equivalenti a quelli del Vajont, sempre nel rapporto di uno a cinque, e se pure equivalenti furono i caratteri dimensionali delle due frane, sempre nel rapporto da uno a cinque, ciò significa die la velocità di caduta doveva avere lo stesso ordine di grandezza. In effetti a Pontesei, il tempo effettivo di caduta fu di circa trenta secondi, mentre la durata complessiva del fenomeno fu di circa due, tre minuti.
Nella perizia Desio, a pagina 16, prego di controllare, si legge che per quanto
riguarda il Vajont "l'esame delle registrazioni sismografiche porta a circoscrivere l'intera durata del fenomeno nell'ambito di un paio di minuti o poco più". Siamo quindi nell'ordine di grandezza di Pontesei; ma il tempo di caduta vero e proprio deve essere stato alquanto più breve, e forse inferiore al minuto.
Si potrebbe obiettare che non era scritto nei libri del destino che la frana del Vajont dovesse venire giu nello stesso tempo di quella di Pontesei; questo è un ragionamento che stiamo facendo 'post factum'. È giusto; la frana del Vajont poteva cadere in dieci minuti, in venti minuti, in mezz'ora, anche per la ovvia constatazione che ogni frana scende con la velocità che le compete. È lapalissiano, ma è cosi: ogni frana ha la sua velocità. Pontesei c'era stato, come c'erano state innumerevoli altre frane in Europa e nel mondo; Pontesei c'era stato e la sua velocità era nota.
E badate, non solo non lo esclusero, ma presero in considerazione proprio questa ipotesi, altrimenti non si spiegherebbe la loro categorica affermazione su cui ancora ritorno, circa l'estrema pericolosità della formazione di un'onda a quota superiore a 650.
Nella memoria del 15 maggio 1967, si legge a pagina 88 (prego di controllare) che la frana di Pontesei risaliva di trenta-quaranta metri sul versante opposto. Se il tribunale avesse ritenuto, o ritenesse anche oggi, di fare una gita a Pontesei, avrebbe potuto, o potrebbe constatare, che la sponda opposta ha addirittura gli alberi, alcuni alberi, che prima si trovavano sul fronte di frana. Dunque l'esperienza aveva già insegnato, a prescindere dai numerosi esempi della letteratura, riportati nella magnifica perizia dei professor Roubault ed altri, che la frana, anche se costituita da materiale incoerente, a bassa coesione, cadendo nel lago artificiale che l'ha provocata, è in grado,
per la velocità e per la sottospinta dell'acqua, di risalire per un certo tratto sulla sponda opposta.
Nel caso del Vajont a maggior ragione, trattandosi di roccia stratificata, non si poteva evitare di prevedere il ripetersi dello stesso fenomeno nelle proporzioni competenti al maggior volume della massa in movimento. Noi sappiamo dagli atti, dalle testimonianze, dalle fotografie, dalle perizie che la frana del Vajont è risalita sulla sponda opposta di oltre cento metri, ed in alcuni punti di oltre 150 metri. Questo è pacifico. L'equivalenza, la corrispondenza tra la frana del Vajont e quella di Pontesei è stupefacente, dato il rapporto da uno a cinque, e se la frana di Pontesei è risalita di trenta, quaranta metri, si poteva e si doveva prevedere che la frana del Vajont potesse risalire sulla sponda opposta di 100, 150 metri. Se moltiplichiamo trenta per 5 abbiamo 150.
Il Gortani, per esempio a pagina 67 del suo notissimo libro che stamattina ho ricordato dice: "Se uno scoscendimento cospicuo ha luogo in una valle stretta, la forza viva del materiale che precipita può spingerlo ad appoggiarsi sull'opposto versante, risalendolo talvolta persino di 200 o 300 metri".
Si è molto al di sopra, come si vede, del limite di risalita raggiunto al Vajont. E subito dopo aggiunge che "il fenomeno di risalita si verifica spesso nelle grandi frane, a causa della loro velocità prodigiosa". E tra i vari esempi che il professor Gortani cita c'è quello della frana di Elg, che non è preistorica, dato che risale al 1871, che scivolò con velocità prodigiosa, su una superficie di scorrimento, la cui pendenza era del 3,5 per cento. Il libro di questo studioso è un testo base nelle nostre facoltà.
Non vorrei che qualcuno mi obbiettasse che io cito soltanto la letteratura che mi fa comodo; per prevenire questa eventuale obiezione, cito Müller. Alludo a quel famoso articolo, acquisito agli atti, pieno di se e di ma, con cui Müller cerca di attenuare ed addirittura stravolgere le sue chiaroveggenti analisi del 1960/1961. Proprio per questo, se non erro, il Müller è stato citato come teste a discarico dalla difesa. Ebbene, in questo articolo del 1964 egli espone una tabella di 67 frane conosciute e studiate; molte di queste si sono prodotte in un tempo brevissimo, alcune in pochi secondi.
L'ipotesi alternativa, che non è ignoranza, non è inconoscibilità, ma al contrario è conoscenza dell'incertezza, di una obiettiva situazione di incertezza. Nel dubbio, era norma morale e giuridica adottare il comportamento più prudente in relazione all'ipotesi più sfavorevole. A questo punto si pone un interrogativo, cui risponderò brevissimamente; interrogativo che ritengo importante non per ribadire la prevedibilità e la previsione, che noi crediamo dimostrata con le carte ed anche con le argomentazioni nostre, ma per ribadire la gravissima leggerezza degli imputati di fronte al dilemma di Penta. Essi non fecero nulla, assolutamente nulla per risolvere in un senso o nell'altro il dilemma formulato da Penta.
Certo che esistevano. L'ipotesi Penta tutti noi la ricordiamo: lama, o scoscendimento catastrofico.
I primi periti dell'ufficio, ed anche i periti di parte, mi sia consentito, su queste questioni hanno sollevato molta confusione, oserei dire un polverone come si dice in gergo. Era loro diritto d'altra parte. Ma a me preme sottolineare
solo di sfuggita che da questo polverone in sede tecnico-scientifica emergono almeno tre affermazioni che bruciano, a mio avviso, la linea di difesa dell'imputato.
2) Nel pomeriggio della medesima udienza lo stesso prof. Citrini, rispondendo alla domanda, mi pare proposta dall'avv. Brass, ha così dichiarato: non erano sufficienti tre pozzi piezometrici, ce ne sarebbero voluti almeno una ventina. Ciò dimostra la grave negligenza dei preposti al bacino proprio dopo l'allarme del 4 novembre 1960 nel condurre più accurate indagini di fronte all'enormità del pericolo.
3) Nella medesima udienza il prof. Citrini, rispondendo ad una domanda della parte civile relativa al significato della integrità dei pozzi piezometrici su cui giustamente insiste l'avv. Scanferla nelle sue memorie scritte in istruttoria, ha così dichiarato: "Ritengo che se il movimento si fosse verificato secondo la prima ipotesi Penta dello scorrimento superficiale, la rottura dei piezometri (tubi d'acciaio) sarebbe stata molto probabile".
Si parlava dell'ipotesi Penta e la parte civile ritiene di potere affermare che fu proprio questa seconda ipotesi che i preposti al bacino avevano nebulosamente formulate molti anni prima e di cui fermamente si convinsero almeno a partire dal novembre del 1960. In fondo il prof.
Penta non fece che esprimere in forma dubitativa una
ipotesi che i responsabili, i custodi del bacino, avevano già
risolto nel senso più sfavorevole. In caso contrario non si
spiegherebbero i due documenti di cui ho parlato prima: il 1999 e il 1757. La nebulosità a cui facevo cenno risale
ad anni lontani e diventa acuto assillo già nel 1959.
Più che mai, dice la lettera; quindi il problema è attualissimo, ora, nel 1959. Perché?
E invece i preposti al bacino invasano, continuano ad invasare. E mentre invasano cessano completamente gli studi, le analisi, le prospezioni
geofisiche, l'apertura di nuovi piezometri, che pure erano stati ritenuti insufficienti, l'apertura di nuovi cunicoli, la rilevazione degli spostamenti viene affidata a geometri, la misura di quelli verticali viene opportunamente nascosta e i rapporti quindicinali vengono, come dire, 'cesellati' in
modo che suonino soavi agli organi di controllo. Il comportamento dei responsabili del bacino in quest'ultimo periodo è apparentemente paradossale tanto da suscitare la meraviglia del prof. Müller, che nel sue interrogatorio ha dichiarato di non capire il motivo per cui non fu più interpellato dopo il 1961 sul problema della frana del monte Toc.
Anche la
commissione di collaudo nel 1961 cessa ogni visita: l'ultimo sopralluogo mi pare che risalga all'ottobre, 17 ottobre 1961. Ma anche qui la risposta è semplice: se la SADE avesse richiesto l'intervento della commissione di collaudo, la commissione di collaudo visti i luoghi, esaminati gli studi,
avrebbe imposto lo svuotamento del bacino. Addio allora il sogno del grande Vajont, addio soprattutto la possibilità di passare all'ENEL, sotto silenzio, in vista della nazionalizzazione, un impianto prossimo alla disgregazione. Vi sono dei sogni che sono duri a morire, anche quando si
scontrano con la realtà. Le ambizioni accecano e più ancora acceca l'oro.
In effetti, nel '60, nel '61, nel '62 richiedere la riduzione del massimo invaso voleva dire ritardare notevolmente l'ammortamento del capitale, perdere parte del contributo statale e ridurre di molto il profitto sperato. Noi non possiamo dimenticare che il 17 novembre 1962 inizia lo sfruttamento del bacino e la produzione di energia elettrica con il funzionamento non autorizzato della centrale del Colombèr, mentre già si alimentava da tempo, a fini
produttivi, la centrale di Soverzene con l'acqua del serbatoio.
Per Biadene inoltre la riduzione e lo svuotamento del bacino significava la fine delle sue ambizioni, quale successore del grande Semenza. Posso anche ammettere che la sua mente fosse obnubilata, ma in realtà non è così. La sua mente era chiara quando vergò di suo pugno il documento 1999, la sua mente era chiara quando redasse il verbaIe 15 novembre del '60, la sua mente era chiara quando accettò l'ipotesi alternativa di Penta. Nel verbale di sopralluogo del 28 novembre '60 (documento n. 4083/101) si
legge che le conclusioni del prof. Penta sono pienamente condivise da tutta la commissione e dai tecnici della SADE presenti al sopralluogo e tra questi tecnici vi era Biadene. L'offuscamento, quindi, l'obnubilamento, se ci fu, fu successivo.
Quando un tecnico si affida alla provvidenza vuol dire che
ogni previsione è possibile, anche la più catastrofica; anzi
vuol dire che solo la previsione più catastrofica è ritenuta
realistica. Invocare la provvidenza significa che la tecnica
è ormai impotente a padroneggiare gli eventi. Soltanto
la mano dell'Altissimo poteva fermare la frana, i tecnici
non potevano fare più nulla. Dunque, almeno nella mattinata del 9 ottobre 1963, la mostruosa e tragica realtà
è raffigurata, scolpita nella mente di Biadene, che finalmente china il capo ed invoca la provvidenza. Questa è la
riprova, se ce ne fosse bisogno, non già della prevedibilità,
ma della previsione che è in questo drammatico appello.
Si è dimostrato dunque che nella causazione del disastro
sono risultati imprevidenti i piani, successive colossali imprudenze, e negligenze finali di entità macroscopiche.
Io non credo che la difesa degli imputati riuscirà a provare l'assenza di colpa. Se la difesa si batte per l'assoluzione, l'impresa a me sembra del tutto impossible, sia per le considerazioni che ho già svolto, sia per un ragionamento ulteriore che desidero sottoporre all'attenzione del Tribunale. Posto che era in atto una situazione di pericolo, che tale circostanza era nota, che pertanto un evento di frana ed inondazione rientrava nelle possibili previsioni, tutto.
Ma veniamo al fortuito. Sul concetto del fortuito dottrina
e giurisprudenza hanno ormai raggiunto un punto ferino.
Fortuito è un fatto ineluttabile estraneo alla custodia.
che incidendo in modo decisivo nel processo causale, rompe questo nesso tra la cosa in custodia e l'evento dannoso.
La definizione è discutibile, lo ammetto, perché una certa corrente dottrinale aggiunge che il caso fortuito, oltre
che essere esterno alla custodia, deve anche essere imprevedibile ed inevitabile. Ma ho adottato la definizione sopradetta per due ragioni: primo perché è quella che più
concede agli imputati prescindendo dalla questione della
prevedibilità; secondo perché è quella generalmente acquisita dalla giurisprudenza. Il punto fondamentale e pacifico su cui richiamo la attenzione del collegio è questo:
Prevedibilità, previsione, assenza di cause sopravvenute, inesistenza del fortuito sono le basi indistruttibili su cui poggia la colpa dei singoli imputati e l'intreccio così chiaramente dimostrato dal pubblico ministero e dal giudice istruttore nella cooperazione colposa. Io non posso che
aderire alle argomentazioni del pubblico ministero nella sua requisitoria scritta e del giudice istruttore. Vi è però una questione particolare su cui vorrei dire due parole, anche in relazione alle osservazioni fatte dal collega di parte civile questa mattina e riguarda la posizione del
prof. Ghetti.
La posizione del prof. Ghetti merita una particolare attenzione in questo processo. Per gli altri imputati, ad avviso della parte civile, non vi può essere dubbio. La loro responsabilità, almeno per me, è pacifica e non me ne occupo neppure perché non è il mio compito. Ma per il prof. Ghetti invece si potrebbe obiettare che è almeno dubbio che egli abbia cooperato nell'evento. La sua esperienza infatti, per sua stessa ammissione, è stata dichiarata del tutto inutile. Sta di fatto però che l'ing. Biadene si fa scudo di Ghetti: tu - dice - mi hai indicato la quota di sicurezza, che poi di fatto non è stata rispettata. A sua volta il prof. Ghetti accusa Biadene e la SADE dicendo: voi mi avete fornito dati sbagliati, o mi avete fornito dati inesatti. Ora, questo scaricabarile, questa confusione nel campo di Agramante deve renderci molto
attenti.
L'attuale discordia sembra rivelare, in effetti rivela, una connivenza, una antica connivenza, che in termini giuridici si chiama cooperazione. Da parte nostra possiamo affermare con assoluta tranquillità due cose: primo, l'esperienza modellistica di Nove e soprattutto le sue conclusioni hanno offerto un alibi, una copertura ad un comportamento paurosamente imprudente che si sapeva tale; l'esperienza modellistica di Nove ha trascurato di controllare l'esattezza dei dati geologici trasmessi dalla SADE ed ha ignorato quei dati che erano stati trasmessi e che erano particolarmente significativi.
A tal fine - si legge nelle carte - venne fornita al prof. Ghetti una cartografia, giusta, sbagliata, non lo so, ma per la perfetta - si legge - ricostruzione dell'originale serbatoio. 'Perfetta ricostruzione',
non sono parole mie. Ora, perché il prof. Ghetti, pur conoscendo con approssimazione il volume della frana, la sua
natura geologica, la sua giacitura, fa costruire un modello
che limita la sponda a quota 750?
Io non sono un tecnico di queste cose, mi limito a rilevare questi fatti e dico che per me quello era un modello lunare, non era il modello del Vajont. Non
si dimentichi che scopo delle esperienze era quello di fornire anticipatamente gli effetti di un temuto probabile fenomeno di frana al fine di garantire la sicurezza delle zone abitate, non solo di quelle attorno al lago-serbatoio,
ma anche nella valle del Piave, a valle della diga. Il prof. Ghetti dice: mi avete ingannato, mi avete fornito dei dati non esatti, o incerti. Non è vero, c'è la lettera di Indri che lo smentisce, c'è la deposizione di Edoardo Semenza nell'istruttoria scritta, che si meraviglia quando va a
Nove e dice: ma come, questo è fuori di ogni realtà!
Dunque il prof. Ghetti sapeva di Pontesei, e sapeva che se ne sarebbero
potute trarre utili indicazioni. La SADE non me li aveva
forniti, si giustifica il prof. Ghetti; ma, se anche fosse vero,
poteva andarseli a cercare, poteva fare una gita a Pontesei. Ma io - dice il prof. Ghetti - sono un idraulico, inesperto di geologia.
Il prof. Ghetti conosceva il naturale fenomeno di frana. Se non lo conosceva, non poteva affermare a priori di non poterlo riprodurre. Avrebbe detto: fatemelo
conoscere, poi cercherò di riprodurlo. Egli invece dice "conosco il fenomeno di frana, ma non sono in grado di riprodurlo nel corrispondente modello". È grave, è gravissimo
che a questo punto il prof. Ghetti non abbia abbandonato
l'esperimentazione. Egli doveva rifiutare l'incarico. Cosa
non si fa per la SADE? Il prof. Ghetti continua nei suoi
giochi pur sapendo che non hanno alcun riferimento con
la realtà del Vajont. In questa situazione è grave, in questa situazione è gravissimo che il prof. Ghetti sia giunto
alla folle affermazione che la quota di 700 metri poteva
considerarsi di assoluta sicurezza. Quella quota era certamente di assoluta sicurezza, ma per quanto riguarda
Nove, per quanto riguarda quegli esperimenti, non per il
Vajont. Un'affermazione di sicurezza riferita al Vajont che si
basa sul nulla.
Il prof. Ghetti questo lo sapeva, per la sua stessa ammissione tardiva, e che a mio avviso non gli giova. Egli quindi non poteva e non doveva fornire un alibi
alla condotta della SADE e al comportamento di Biadene. Qui è la sua colpa.
Conclusioni: l'ing. Biadene non può farsi scudo di Ghetti perché sapeva che il modello di Nove era irreale, non riproduceva la frana. D'altro canto il prof. Ghetti non può farsi scudo di Biadene perché conosceva in parte i dati geologici (lettera di Indri eec.), perché in
parte poteva conoscerli (Pontesei, se ci fosse andato), sapeva di non aver rispettato questi dati (vedi lettera all'ing. Biadene in cui dice: 'ho rinunciato all'idea di riprodurre', eec.) e pur tuttavia è stato categorico nella sua affermazione di sicurezza.
I due imputati sono oggi apparentemente, se io ho ben capito, in rotta di collisione l'uno con l'altro; ma l'attuale collisione non può farci dimenticare l'antica cooperazione. Essi nel 1961/62 cooperarono a costruire un alibi che coprisse la responsabilità per la temuta catastrofe. Esempio concreto, tragico, di quella connivenza che si è stabilita da anni tra alcuni istituti scientifici di grandi gruppi industriali e il potere politico. Connivenza, che vizia alle radici quella gara tra l'uomo e la natura di cui parla il dott. Mandarino, gara da cui l'uomo potrebbe uscire vincitore se rispettasse la legge. Non si può non ritornare a questo punto all'angosciosa domanda: perché il Vajont?
Cercare il movente o la causa metagiuridica in un reato colposo è superfluo e talvolta ridicolo e assurdo. Tuttavia questa domanda - perché il Vajont? - non è un artificio. Tanto è vero che l'hanno posta il pubblico ministero dott. Mandarino e il giudice Fabbri. È un interrogativo che brucia nelle nostre coscienze, che affonda come una
lama in tutte le radici della società in cui la catastrofe si è
prodotta. La risposta del perché è nelle carte del processo.
È una risposta secca, lapidaria, rapida, che non concede
nulla al sentimento, ma si attiene ai fatti e ai documenti. A nessuno può sfuggire che uno dei meriti di questi magistrati, il dott. Mandarino e il giudice Fabbri, è di aver costruito un'accusa che, al di sotto della solida struttura giuridica, ha una nervatura morale e politica, nel senso
più nobile della parola, di grande respiro. Essi non hanno deluso il dolore e la commozione e lo sgomento degli italiani di fronte alla catastrofe, la imperiosa esigenza di giustizia che scaturirono da quella commozione. Il loro
merito è di avere spiegato il perché della immane sciagura, il meccanismo in cui si è inserito il comportamento degli imputati. Una spiegazione meditata, ragionata, pacata, che tuttavia si avventa implacabile come un dardo al cuore del problema. Prevalse la logica del profitto sull'interesse pubblico primario penalmente tutelato - scrive il dott. Mandarino - che poi accenna alla drammatica gara tra l'uomo e la natura, gara da cui l'uomo, almeno al Vajont, è uscito perdente.
E vi è in effetti questa gara, giudici dell'Aquila, che sembra contraddistinguere le grandi società industriali. Ma è una gara da cui gli uomini potrebbero uscire vincitori solo che la ragione non
sottomettessero al talento, cioè all'arbìtrio. Ogni giorno
noi ci imbattiamo in questa verità elementare di fatto poi
dimenticata. Nella nostra società vi è la tendenza a sottovalutare la vita umana, la dignità e la libertà umana.
È una tendenza prepotente, per cui di fatto troppo spesso
un Kwh di energia elettrica vale più della vita di un uomo.
In altre parole nella nostra società vi è la tendenza a rovesciare un principio fondamentale stabilito dalla legge
di cui voi siete giudici e di cui voi siete custodi. Il progresso economico, tecnico e scientifico deve servire all'uomo,
non viceversa. Nella nostra società invece troppo spesso
l'uomo è un semplice strumento, una cosa al servizio del
progresso. E quindi, nella drammatica gara tra l'uomo e
la natura, esso è perdente. Ne deriva, schematicamente,
che la tendenza, questa pericolosa tendenza è la seguente: prima la produttività e poi l'uomo, prima il progresso e poi l'uomo, prima il profitto e poi l'uomo.
Una società peggiore delle antiche società tribali, in cui almeno i sacrifici umani venivano fatti per motivi religiosi. Oggi troppo spesso, violando le leggi, gli uomini vengono sacrificati alla produttività e al profitto. E sotto questo profile il Vajont e più che emblematico, esso e un'ara mostruosa e terribile eretta al vitello d'oro del profitto. La tendenza di cui parlo è una lebbra che corrode anche altre società in Europa e altrove. La tematica di Marcuse e di Dutscke non è certo ignota; le splendide analisi di Marx da cento anni ci ammoniscono a non cadere nell'abisso dell'autodistruzione e della disumanizzazione. Possono essere accettate o respinte queste analisi, ma esse indubbiamente ci aiutano a capire perché e come si verifica questa tendenza. L'uomo ad una dimensione, di cui parla Marcuse, è senza dubbio il simbolo soggettivo di questa tendenza oggettiva, di cui sto parlando. Le gravissime imprudenze, se così vogliamo definirle, dei preposti al bacino, ci indicano che essi erano certamente degli 'uomini ad una dimensione', e che vedevano soltanto gli interessi della ditta, vedevano solo la produttività ed il profitto, non vedevano gli esseri umani.
Giudici dell'Aquila, voi avete un compito non facile. Voi dovete dirimere una questione di reati colposi, ma voi siete anche l'ultimo scudo della gente del Vajont, tradita da chi aveva l'obbligo di vigilare; uccisa da chi aveva il dovere di difenderla; voi in questo momento siete la legge e dovete dare una risposta alle genti del Vajont e al paese. Noi ci aspettiamo che nella motivazione della sentenza voi diciate se la tendenza disumanatrice della società industriale moderna e inarrestabile o deve e può essere
ricondotta nell'ambito della legge, se può e deve essere
sottomessa alle esigenze di sicurezza dell'uomo. Aspettiamo che ci diciate, come ha detto il giornalista l'assi nel suo ottimo libro, se le future generazioni dovranno essere spettatrici e vittime di altri Vajont.
I poveri morti del Vajont. tra cui ci sono il figlio, il padre e la sorella di Arduini, giacciono nel cimitero di Fortogna, o ancora insepolti nel limo del Piave o nel lago maledetto. Ma essi sembra che tendano l'orecchio ai rumori
della vita oltre il lieve strato di terra che li ricopre. Essi tendono l'orecchio per sentire quello che noi facciamo. Noi non possiamo, non dobbiamo deluderli. E voi, giudici dell'Aquila non li deluderete. Grazie.
Quando il PM, i difensori e gli avvocati delle Parti Civili ebbero svolto le conclusioni finali, il Tribunale si ritirò in Camera di Consiglio. Dopo ore di accanita discussione (nulla si sentiva all'esterno) il Tribunale uscì con la seguente sentenza:
Il P. M. e le parti civili proposero appello e nell'attesa
diedero inizio di fronte ai Tribunali competenti le cause
civili per il risarcimento dei danni materiali e morali per
quanti avevano rifiutato la transazione. L'Enel infatti aveva costitito un consorzio, di cui era Presidente il nuovo
Sindaco di Longarone, offrendo 10 miliardi di lire a quanti si fossero ritirati dal processo. Molti accettarono, circa l'80 per cento. Bisogna capirli: Longarone era distrutta, le
sue fabbriche, i suoi negozi, i suoi campi un tempo coltivati. Chi era rimasto in vita doveva vivere, mangiare.
L'Enel dal canto suo, in vista dell'Appello, cercava di
sfoltire la schiera delle parti civili offrendo, a chi accettava,
la somma di 10 miliardi di lire, purché rinunciasse a ogni
altra richiesta in sede civile anche per i risarcimenti civili.
La transazione diede luogo a contrasti fra gli avvocati
di parte civile: alcuni volevano che i propri assistiti rifiutassero la transazione, per mantenere forte la spinta psicologica in appello. Ci furono scontri, rottura di amicizie,
accuse calunniose anche nei miei confronti. Lo dissi chiaramente anche in sede di Consorzio di cui facevo parte. Io
lasciai i miei assistiti liberi di decidere come a loro sembrava giusto. Chi avesse rinunciato alla transazione sarebbe
stato difeso da me fino alla fine, rinunciando anche alle
spese legali. Pochi furono quelli che mi difesero. Non capivano che Longarone era distrutto, le fabbriche, i negozi,
le botteghe, i traffici fermi. Ricordo i binari della ferrovia
contorti attorcigliati contro il Piave.
Io e Rosini (che curava l'aspetto civilistico della vicenda e la chiamata in causa dell'Enel come responsabile civile) eravamo molto preoccupati. Dovemmo fare un mutuo con una banca per non chiudere lo studio. Furono tempi amari. Liliana e i piccoli mi diedero molto conforto.
Venne anche il tempo dell'Appello. La Corte era
presieduta dal giudice Fracassi, estensore il giudice Modigliani. Molti i superstiti presenti. Quando, terminata la
scrupolosa relazione del giudice a latere, prese la parola il
Procuratore Generale, che fece un intervento demolitore
della prima sentenza. Poi toccò agli avvocati. Quando venne il mio turno il Presidente mi diede la parola dicendo: "L'altro avvocato è l'illustrissimo avvocato Tosi".
Avv. Tosi: "Sono a disposizione della Corte; ho bisogno di due ore".
(Sono riportate solo le argomentazioni nuove e quelle indispensabili per il fluire del discorso. L'arringa in Appello è infatti nella sostanza una riformulazione di quella in Tribunale.)
Presidente. Già segnato, già segnato.
Avv. Tosi. "Le conclusioni della parte civile Terenzio Arduini sono le seguenti: la Corte, in accoglimento delle impugnazioni del Pubblico Ministero e del Procuratore Generale, voglia, in riforma della appellata sentenza, condannare tutti gli imputati per tutti i reati ascritti: frana, inondazione, omicidi plurimi con ogni aggravante contestata, e condannarli altresì al risarcimento dei danni in favore della parte lesa, con vittoria di spese ed onorari come da nota a parte".
Mi limito a leggere questa, perché le altre conclusioni sono identiche.
Il mio intervento, signori della Corte, e colleghi, potrebbe incominciare così: "Ieri dicevo...", perché, in effetti, nulla di nuovo, di veramente nuovo, potrei dire rispetto alle argomentazioni che ho svolto in primo grado. A ben riflettere, infatti, la sentenza impugnata non è da criticare, da censurare, ma da evitare come una palude, travalicandola di colpo. Taluni l'hanno definita una "manipolazione linguistica".
Presidente. Una manipolazione...?
Avv. Tosi. Linguistica, semantica. Altri, un 'paradosso
giuridico'. Sta di fatto che l'impugnata sentenza, a mio giudizio, è
una fitta nebbia, in cui tutto viene distorto: fatti e concetti giuridici. Secondo me, non bisogna entrare in questa nebbia. Ma, perché la mia affermazione non sembri apodittica, mi sia concessa un'osservazione sulla confusione tra concetto naturalistico di frana e concetto giuridico di disastro di frana. Secondo il Tribunale, tutto ciò che non è roccia o terra, non è frana. Cosicché deriva che tutto ciò che accade oltre l'estremo lembo in cui la frana si acquieta, non dovrebbe
interessare.
Un paese che venga spianato solo dallo spostamento d'aria di una frana, o decine di persone che vengano ferite o uccise solo dallo spostamento d'aria, con la frana non hanno nulla a che vedere e, quindi, non si avrebbe disastro di frana.
Ora, da un punto di vista superficiale, le cose, in effetti, stanno così.
Le cose, le case, gli uomini, non sono colpiti dalla roccia o dalla terra, ma dall'aria. Come può, l'aria, franare? Ma, da un punto di vista corretto, lo spostamento d'aria è conseguenza della frana, è figlio di essa, è strettamente connesso con quella. Se persone vengono ferite o uccise dal solo spostamento d'aria, che le sbatte, per esempio, con violenza per terra o contro un albero, si integrano gli estremi del disastro colposo.
Ora, perché il mio esempio non sembri astratto e peregrino, voglio ricordare che anche al Vajont vi fu un violentissimo spostamento d'aria, che almeno alla Pineda, alle Spesse, a Erto e a Casso, l'urto d'aria arrivò prima dell'acqua, scagliando persone a decine e decine di metri di distanza. Ciò è agli atti, ed è ricordato anche nella commissione Bozzi. Ora, questa frattura logica e giuridica che l'impugnata sentenza opera tra frana e conseguenze della frana, tra frana e spostamento d'aria dovuto alla frana, è quella stessa che ha indotto il Tribunale a separare arbitrariamente la frana dall'inondazione e ad applicare a rovescio il principio del "ne bis in idem" (il principio che esclude che lo stesso evento possa essere punito due volte nell'ambito di due diverse fattispecie).
La causa ha per oggetto tre reati colposi: frana, inondazione, omicidio plurimo.
Presidente. Una delle cause.
Avv. Tosi. L'attività umana fu una delle cause del disastro. Forse, senza la diga e il bacino, la frana sarebbe caduta lo stesso, in tempo diverse e forse con modalità diverse; ma senza l'acqua nel bacino, non vi sarebbe stata la conseguente esondazione, che è stata la causa immediata
delle distruzioni e delle morti.
Direi che questo è un punto pacifico per tutti, anche per
la impugnata sentenza, anche per la difesa.
Ma il punto che ci divide è un altro, che io ricordo solo
per necessità di discorso: per noi il comportamento degli
imputati è penalmente rilevante, perché l'evento determinato da quel comportamento era assolutamente prevedibile. Per la difesa, invece, quel comportamento non è giuridicamente rilevante, perché il fatto era assolutamente imprevedibile o perché il fortuito ha interrotto il nesso
di causalità. Questo è il tema. La "quaestio litis" è unicamente questa.
Scontata, pacifica questa premessa, da cui discende, pero, una conseguenza importante, fondamentale. Dobbiamo accertare le cause umane della catastrofe, quei comportamenti che hanno dato luogo ad azioni, omissioni, violazioni di leggi o di regolamenti, tali da costituire colpa ed essere ritenuti, quindi, penalmente rilevanti. Mi pare che l'impostazione sia corretta. Vertendosi in materia di colpa, è necessario accertare se i preposti al bacino e gli organi di controllo, potevano prevedere, non già l'evento in tutte le sue particolarità e modalità , con le quali poi si verificò nella realtà, ma la possibilità che un evento catastrofico si verificasse, tale da mettere in pericolo persone e cose.
Ma allora, a questo punto, può sorgere una domanda: che
cosa sono le previsioni?
Ora era sicuramente prevedibile e probabile l'evento catastrofico. Se questo evento catastrofico non fosse stato prevedibile e non fosse stato anche previsto, non si spiegherebbero le numerose e costose, anche se lacunose, ricerche ed indagini fatte dalla SADE per accertare il divenire di questa frana. Né si spiegherebbe il cosiddetto "programma Pancini", che non è stato attuato; (e questo è un elemento di colpa, su cui fa giustamente leva il Procuratore Generale nei suoi motivi). I tecnici e i dirigenti potevano solamente formulare delle ipotesi, senza omettere di considerare che in presenza di colossali fenomeni naturali, vi è sempre un notevole scarto tra previsione e realtà. In siffatta situazione, si imponeva la massima prudenza e la massima cautela.
Significa che tra mille frane che cadono, ce n'è anche una che si arresta e che, magari, torna indietro. I responsabili del bacino potevano e dovevano prendere in considerazione, e non escludere, anche questa ipotesi; e cioè che il monte Toc non sarebbe mai precipitato. Ma, dal punto di vista logico, questa previsione vale l'altra, quella più catastrofica; cioè che il monte Tòc, con il suo ventre malato e con i suoi piedi di argilla assai veloci, si è traslato di quattro metri. E, qui, vorrei aprire una brevissima parentesi.
Presidente. Devono sommarsi tutti quanti.
Avv. Tosi. Ecco, esatto.
Presidente. Oppure precipita a valle...
Avv. Tosi. Ecco... vi è tutta una serie intermedia di altre previsioni che potevano e dovevano essere formulate. Tutte, comprese le due estreme che ho fatto, hanno eguale valore logico; ma è certo che da un punto di vista giuridico, cioè sotto il profilo della colpa, la prima ipotesi estrema (il monte Toc non precipiterà mai), è irrilevante e poteva essere tranquillamente esclusa, dato che non poneva in essere alcuna situazione di pericolo. Mentre tutte le altre, e in particolare l'ultima, quella catastrofica, devono considerarsi giuridicamente rilevanti, ipotizzando situazioni di pericolo per case, cose ed uomini.
Se vi è stata una catastrofe preceduta da mòniti terribili, questa è la frana del Vajont.
Come si può dunque sostenere da parte della difesa la tesi della non prevedibilità o della esclusione di una previsione catastrofica che, ripeto, per essere esclusa, doveva essere formulata? A una sola condizione (e io ancora una volta mi ripeterò). quella di negare certi fatti e di leggere a rovescio certi segni o certe carte della causa.
Presidente. Questo, è Désio che lo dice.
Avv. Tosi. Esatto... che una frana in potenza si è trasformata in una frana in atto. Importante è aggiungere che essa distingue in modo caratteristico le frane da crollo, o da rapido scivolamento, dai movimenti tipo "creep" o "flaus".
La fessura indica l'inizio del piano di scivolamento, la parte alta del sedile permette di delimitare il perimetro di frana e calcolarne il volume.
Presidente. Alcuni dicono scivolamento, altri dicono slittamento. Mi pare di aver letto in un libro che, nel caso del Vajont, si debba parlare di slittamento.
Avv. Tosi. Sì, esatto.
Ma, ripeto, se noi rovesciamo, come io ho tentato di fare, ogni elemento del processo, dobbiamo concludere che l'imputato Biadene ha ragione. Egli non poteva prevedere e non ha previsto. Ma allora, perché ha vergato di suo pugno il documento numero 1999 del Giudice Istruttore del 15-16 novembre 1960?
Ne ha parlato l'avvocato Scanferla, ma "repetita iuvant" perché questo è il pilastro del processo. Accanto al disegno che riproduce in modo perfetto nelle sue quattro fasi, nella sua morfologia, nella sua giacitura, nel suo piano di scorrimento l'enorme frana che poi si verificò il 9 ottobre del 1963, l'ingegner Biadene scrive, (tre anni prima della catastrofe): "Invaso: no, perché il fenomeno di frana diventerebbe incontrollato".
Nel documento numero 1999, ci sono altre affermazioni:
"Scivola... si spacca... rottura... superamento della resistenza al taglio..." e, soprattutto, la frase, vergata di proprio pugno dall'ingegner Biadene: "È pericoloso l'alzarsi dell'acqua e il colpo (dinamico) della frana veloce". La parola "veloce" è sottolineata nel testo.
Ora, che cosa prevedeva l'ingegner Biadene all'indomani della frana del 4 novembre? Che cosa prevedevano con lui i tecnici e gli scienziati che si recarono al Vajont, al capezzale della montagna? Ce lo dice, appunto, il documento numero 1999, in cui non vi è soltanto una ipotesi, e, si badi bene, una sola ipotesi sul comportamento della frana ("Si spacca... scivola... supera la resistenza al laglio... precipita veloce con un colpo di clava..."), ma vi è anche una norma di comportamento e, badate bene, una sola norma di comportamento: "Non invasare, perché, altrimenti, la frana diventerebbe incontrollabile". Qui vi è consapevolezza, non ignoranza. Se il documento numero 1999 è lapidario, quello numero 1757/20 nella sua descrittività, diciamo, è addirittura agghiacciante.
Si tratta, appunto, del verbale 15-16 novembre 1960; sopralluogo a cui partecipano i professori Müller e Semenza e l'ingegner Pancini, l'ingegner Linari, e l'ingegner Biadene. È scritto in questo documento: "È da evitare l'eventualità che un grande movimento di massa avvenga con il serbatoio invasato al di sopra di quota seicentocinquanta. Infatti, in questo caso, sarebbe estremamente pericolosa la formazione di un'onda". Anche qui non vi è ignoranza, ma consapevolezza, certezza, affermazione categorica: "È da evitare perché estremamente pericolosa".
Procuratore Generale. A che quota eravamo?
Avv. Tosi. Seicentocinquanta.
A Pontesei che cosa era accaduto? Era accaduto che una frana di tre milioni di metri cubi caduti in circa trenta secondi, con una durata complessiva di due o tre minuti, e così dice appunto l'ingegner Linari, che riferisce il tempo di due o tre minuti allo stato di quiete raggiunto dal bacino di Pontesei, aveva provocato un'onda di circa quaranta metri.
Presidente. Questi quaranta metri di altezza di sovralzo ondoso, lei li riferisce al frangimento contro la diga?
Avv. Tosi. Certo, al frangente; è esatto. Mi trovo costretto ad anticipare un ragionamento che avrei fatto più tardi, ma che è brevissimo. La frana è come una nave che scenda in mare, anziché di prua di fianco; possiamo immaginarla così, e l'onda provocata dalla fiancata della nave - l'esperienza ce lo dimostra - è più alta delle due onde laterali. E un dato pacifico che le due onde laterali a Pontesei furono una di trenta e una di venti metri. È chiaro che la conformazione del fronte di frana può provocare onde diverse. L'onda frontale a Pontesei fu certamente superiore ai trenta metri; secondo calcoli, che io non sono in grado di fare, ma che i periti hanno fatto, quest'onda, tenendo conto anche dell'altezza del ponte che fu investito dall'onda e del fatto che il ponte di 70 tonnellate fu sollevato, non poteva essere inferiore a quaranta metri.
Ecco dunque più che giustificata la previsione, nel novembre del 1960, che la formazione di un'onda per il precipitare di una frana veloce sarebbe stata estremamente pericolosa. I preposti al bacino conoscevano perfettamente la realtà attuale del novembre 1960, ed avevano costruito uno schema di previsione perfettamente aderente a quella realtà. Però non vi si attennero: di qui la loro colpa, aggravata dalla previsione dell'evento.
A Pontesei, volume tre milioni di metri cubi, al Vajont volume di circa trecento milioni di metri cubi. Quindi il rapporto lineare e volumetrico è di uno a cinque. Conclusione: se gli effetti idrodinamici a Pontesei furono equivalenti a quelli del Vajont nel rapporto da uno a cinque, e pure equivalenti furono i caratteri dimensionali delle due frane, sempre nel rapporto da uno a cinque, ciò significa che la velocità di caduta doveva avere lo stesso ordine di grandezza. In effetti, devo ricordare la deposizione Linari: "Fu così che assistemmo alla caduta della frana; questo avvenne con le seguenti modalità: era visibile il fronte di frana, almeno a me che conoscevo la zona, e dopo cinque o sei minuti notai rumore di massi che si scomponevano, e vidi nello stesso tempo il fronte come dissolversi avanzando e cadendo verso il basso. Ciò ebbe la durata
approssimativa di trenta secondi. A questo punto, per mia fortuna, pensai di scappare. Vidi infatti la frana staccarsi anche in sommità e nello stesso tempo vidi il livello dell'acqua salire paurosamente verso l'alto. Corsi lungo la pendice opposta per circa due minuti, e quando mi voltai - ciò feci solo quando non sentii più rumore di massi - vidi che l'acqua subiva un moto ondoso successivo e che la frana era discesa interamente. Constatai approssimativamente il tempo di discesa della frana in due minuti e mezzo, tre".
L'ingegner Linari aggiunge: "Dalla prima osservazione visiva ed uditiva, inizio del movimento rapido a quello di quiete della massa franata". Quindi, due-tre minuti è il periodo, diciamo, totale del fenomeno; altrimenti il
tempo di trenta secondi di cui parla Linari, non avrebbe alcun significato.
Presidente. Scusi, vorrebbe aggiungere qualcosa su quei trenta, quaranta metri? Da che sono desunti? Così il collegio potrà essere più illuminato. Da dove ha desunto quel dato dei trenta, quaranta metri di rialzo?
Avv. Tosi. Dal fatto che le due ondate laterali, provocate dal fronte di frana a Pontesei, furono una di venti metri e l'altra di trenta.
Presidente. Questo, da che documento risulta?
Avv. Tosi. Signor Presidente, lei mi coglie in fallo: ma credo che questo sia un dato pacifico che risulta agli atti. Farò comunque una ricerca.
Presidente. Noi vogliamo la chiarezza; allora domani ce lo dirà. E questo perché tutti noi si possa seguire le sue argomentazioni con dati di fatto.
Avv. Tosi. Giustamente il presidente vuole che io citi il documento. Lo vedremo insieme.
Ebbene, siamo sempre nell'ordine di grandezza di Pontesei. L'ingegner Linari, infatti, lo calcolò - e con tanta paura in corpo, come ha ricordato l'avvocato Scanferla - in circa 30 secondi. Può evidentemente aver peccato per eccesso. Comunque, anche se il tempo di caduta vero e proprio fosse stato al Vajont quasi doppio di quello di Pontesei - 55 secondi invece di 30 secondi - bisogna tener conto anche della diversa lunghezza del percorso fatto dalla frana, lunghezza di percorso che è assai maggiore al Vajont, che non a Pontesei. Ciò significa appunto che la velocità di caduta fu del medesimo ordine di grandezza.
Presidente. Domani mattina, allora, ci porta la documentazione relativa al sovralzo di Pontesei. (Il Presidente dichiara chiusa l'udienza).
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Presidente. L'udienza è aperta. Prego l'avvocato Tosi di riprendere la sua arringa.
Avv. Tosi. Signor presidente, il dato che giustamente mi è stato richiesto ieri ho fatto una rapida ricerca, e posso indicare alcuni punti di riferimento, dai quali, appunto, ho tratto il convincimento che l'ondata frontale a Pontesei fosse di quaranta metri, diciamo di circa quaranta metri.
Presidente. Pensavo di venti metri; poi contro la diga si è alzata un po'.
Avv. Tosi. Ecco: il primo punto di riferimento è il rapporto dei carabinieri, gli allegati interrogatori, tra cui quello dell'ingegner Linari, relativo appunto all'incidente di Pontesei che è contenuto nel volume 1, tomo 1, atti istruttori, là dove per la verità non si enunciano dati relativi all'onda. Si dice soltanto che tutto è accaduto in pochi secondi e si parla di una grande ondata.
Presidente. Morì un operaio.
Avv. Tosi. Sì. Il secondo punto di riferimento è la risposta che l'ingegner Linari diede all'udienza di primo grado del 28 aprile 1969. Ma più importanti sono questi ultimi due punti di riferimento: la seconda perizia dell ufficiò a pagina 166, 167 dice esattamente cosi: "la frana provocò a valle un'onda di più di venti metri e di circa trenta metri a monte". Mi pareva appunto impossibile che io mi fossi inventato questi dati. Questo è affermato dalla perizia dell'ufficio. Nel suo tentativo di annullare le previsioni, la difesa - ricordo il brillantissimo intervento del professor Conso - è giunta al punto di travolgere il documento 1999 che è il pilastro dell'accusa. Ricordate la frase di estremo significato contenuta in quel documento: "invasare, no"?
Come vedete, si è al di sotto della risalita che si è verificata al Vajont. Ed il professor Gortani, subito dopo, nella stessa pagina, aggiunge che il fenomeno della risalita si verifica spesso nelle grandi frane, che di solito precipitano con velocità prodigiosa. E tra i tanti esempi cita quello della frana, avvenuta l'undici settembre 1881, e quindi non in epoca preistorica, che scivolò con velocità prodigiosa su una superficie di scorrimento, era del 3,5 per cento. Velocità prodigiosa, e sono parole del Gortani il cui testo è in ogni università italiana. Bisogna notare che la pendenza del 3,5 per cento è certamente molto inferiore alla pendenza che noi possiamo rilevare al Vajont. Le stesse cose, per decenni, ha insegnato e scritto il Penta, e le stesse cose ha scritto Albert Heim, che pure ieri è stato citato, nel suo famoso libro. Per tornare al professor Gortani, non si può non citare la sua notissima affermazione: "la rapidità di queste frane le rende particolarmente funeste; il fenomeno può svolgersi, anche per grandi frane, in meno di un minuto, e la velocità della massa cadente può superare i cento metri al secondo" (pag. 77 del testo di Gortani).
Ora io domando: quale fu il tempo effettivo di caduta al Vajont, calcolato dalla prima perizia, quella che io, chiamo 'innocentista': 55 secondi, e cioè meno di un minuto. Questo tempo fu poi inopinatamente ridotto, nel dibattimento di primo grado a venti secondi, all'udienza del 9 giugno 1969. Questo per quanto riguarda il tempo di caduta. Ma quale fu la velocità di caduta, calcolata sempre dalla prima perizia? 100 chilometri all'ora; questo si legge a pagina 45 della prima perizia. Se i calcoli non sono errati, cento chilometri l'ora sono pari a 28 metri al secondo; molto meno di quella indicata dal professor Gortani. Ma se in ipotesi fosse vero che il tempo di caduta era stato di venti secondi, anziché di 55, la velocità diventa di sessanta, settanta metri al secondo. Siamo sempre dunque al di sotto, di parecchio, della misura indicata dal professor Gorlani, che appunto parlava di cento metri al
secondo. Come si può dunque parlare di tempo di caduta eccezionale, non prevedibile, di velocità straordinaria, assolutamente imprevedibile?
Avv. Tosi. I piezometri: uno ogni cento milioni di metri cubi. Erano profondi e questo forse ieri non è stato detto, da 167 metri a 221 e venivano quotidianamente attraversati dal freatìmetro (apparecchio che misura il livello della falda freatica) ad una profondità minima di oltre ottanta
metri, e generalmente sui cento, centocinquanta metri.
Questo è un dato indiscutibile. Inoltre, in almeno due occasioni - gennaio 1962 e maggio 1963 - il piezometro 2, quello che viene indicate nelle carte come il P2, fu pulito dai sedimenti fangosi, operazione che comportava ripetute esplorazioni del tubo da cima a fondo. Ora, poiché il vicino caposaldo - parlo del n. 4, che era vicino al P2 - descrisse nel frattempo oltre due metri di spostamento, è impensabile che tale rilevante spostamento, se limitato ai primi dieci-venti metri del sottosuolo, non avrebbe deformato e rotto il piezometro n. 2. Analogamente, vicino al P1, vi era il caposaldo n. 6, che si mosse per circa quattro metri; sono i famosi quattro metri cui facevo cenno ieri. E vicino al P3, era il caposaldo n. 13, che ebbe circa due metri di traslazione. Questi sono i nudi fatti, e sui piezometri ho finito.
Spero che la mia argomentazione sia stata sufficientemente chiara, e io non ci tornerò sopra. Questi quattro elementi, uniti al denunciato decadimento in profondità della roccia, confermato nel suo successivo protrarsi dal comportamento delle acque sotterranee, che gradualmente si
andavano livellando con il lago per la progressiva degradazione degli strati profondi della roccia, erano più che sufficienti, malgrado la lamentata negligenza, ad escludere tassativamente ogni ipotesi di frana superficiale e ad
accettare invece quella del distacco improvviso di suolo
e sottosuolo di una enorme massa di materiale. I primi
periti dell'ufficio, ed anche i periti degli imputati, hanno sollevato, su queste quattro questioni, o meglio sulla questione della caduta 'en bloc' proposta dal dilemma Penta, una certa confusione.
A me preme sottolineare che da questa confusione emergono almeno tre affermazioni, che convalidano la tesi dell'accusa: 1) sentito all'udienza del 9 giugno 1969, il professor Citrini ha così dichiarato: "Non si poteva escludere che la frana potesse venire giù anche in un unico blocco". E quindi i preposti al bacino dovevano atteggiare la loro condotta anche a questa
previsione.
Conseguenza: poiché i tre lunghi tubi di acciaio non si sono flessi, né schiacciati, né rotti, la prima ipotesi Penta dello scorrimento superficiale doveva essere esclusa. Restava dunque l'altra, quella catastrofira, alla cui previsione i preposti al bacino e gli organi di controllo dovevano attenersi. E non lo fecero. Il 9 dicembre 1959, Semenza senior, il grande costruttore, scrive a Dal Piaz una cartolina o lettera che è estremamente significativa. "Spero vederla presto - dice Semenza - anche per riparlare del Vajont che il disastro del Frejus rende più che mai di acuta attualità."
L'ultimo periodo è veramente una folle corsa verso la catastrofe.
Ma in quella che io ho prodotto, si parla del fianco sinistro del Toc, da cui, di quando in quando, cadono dall'alto frane enormi. Naturalmente questo non poteva non essere a conoscenza, non dico dei geologi, ma di comuni ingegneri e di tutte le persone alla cui portata sono le pubblicazioni del Touring Club.
Per le ragioni su esposte può affermarsi senza ombra di dubbio, che i preposti al bacino e gli organi di controllo dovevano attendersi, per le caratteristiche geologiche della sponda sinistra, e per gli effetti sopra descritti dell'acqua dell'invaso, la caduta improvvisa, veloce e compatta di una frana di circa duecentocinquanta milioni di metri cubi. Specialmente negli ultimi giorni precedenti il 9 ottobre 1963, tutti i segni premonitori, nessuno escluso, confermavano la certezza che l'evento sarebbe state prossimo e che la
frana sarebbe precipitata velocemente e compatta.
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La Corte, in riforma dell'appellata sentenza del Tribunale dell'Aquila in data 17 dicembre 1969, dichiara Nino Alberico Biadene colpevole anche dei reati di frana e inondazione, per cui lo condanna per il reato di frana alla pena di un anno di reclusione per il reato di inondazione alla pena di due anni di reclusione.
Al ritorno, appena fu pubblicata nella Rassegna Giuridica dell'ENEL, me ne procurai una copia per vedere se e quante delle mie argomentazioni erano state accolte dalla Corte. Rimasi sorpreso: ero citatissimo. Mi colpirono
due o tre argomentazioni recepite in sentenza. La prima riguardava lo spostamento del monte Toc di quattro metri in tre anni. Il Toc non è una collina (e sarebbe già straordinario che una collina si spostasse di quattro metri in tre anni) ma una montagna grande, poderosa, con alle pendici due villaggi abitati, Erto e Casso, con gente che abitava e lavorava i campi prima della tragedia. Nella relazione d'inchiesta di maggioranza io avevo sottolineato in rosso l'avverbio "impercettibilmente".
determina la pena complessiva per il Biadene in anni
5 di reclusione, unificando i reati di frana e inondazione,
Questa è la storia del Vajont vissuta da un avvocato che, contro il profitto ad ogni costo, ha difeso i Sopravvissuti.
Problemi col sito? Dissensi?
Un tempo, leggevi queste cose e ti trovavi su www.vajont.org.
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