Come due bombe H

La lunga storia del Grande Vajont durò 38 anni e finí in un momento.

Tutto inizia nel 1925 da un'idea di Carlo Semenza

(Da uno scritto di Toni Sirena)

BELLUNO. Da dove si parte per raccontare la storia di una tragedia infinita?
Dal momento in cui tutto, in pochi minuti, finisce e passa alla Storia e al ricordo: l'esistenza di interi paesi, le vite e le storie di duemila persone. In pochi attimi vengono cancellati sogni, speranze, progetti di una intera comunità. E allora partiamo da quel 9 ottobre 1963.

Perchè quella data è l'alfa e l'omega. È l'ora, il minuto che racchiude come in un'esplosione il senso assurdo di una vicenda iniziata decenni addietro. La potenza di due bombe atomiche tipo Hiroshima deflagra in un attimo sopra Longarone. Si sono spezzati gli ultimi fili che legavano la frana alla montagna. Quel giorno si compì un disastro annunciato.
Il livello del lago è in quel momento a quota 700,42metri sul mare. Duecentosessantasei milioni di metri cubi precipitano nel lago alla velocità di 100 chilometri l'ora provocando un'onda stimata in 50 milioni di metri cubi. L'acqua risale i pendii a 200 chilometri l'ora fino a 230 metri sopra il livello del lago.
L'onda poi si divide in due: da una parte risale lungo il versante opposto alla diga, distruggendo le frazioni più esposte di Erto; l'altra, di 25-30 mila metri cubi, vola sopra la diga per un'altezza tra i 100 e 200 metri e si abbatte nella forra della foce del Vajont avventandosi su Longarone, parte di Codissago, Faè e altre frazioni.

I morti accertati furono 1910: 1450 a Longarone, 111 a Castellavazzo, 158 a Erto, 54 nei cantieri della diga, 137 sorpresi in altri luoghi.
Feriti, pochi: 95 i lievi, 49 i gravi, 2 i gravissimi.
1464 'corpi' furono sepolti nel cimitero di Fortogna, dei quali solo 704 identificati.
La storia del «Grande Vajont», cioè il sistema di dighe, bacini e centrali 'Piave - Boite - Maè - Vajont', finisce in un incubo. Ma è storia complessa e antica.

L'inizio risale al 1925 quando Carlo Semenza inizia a pensare a una utilizzazione sistematica del torrente Vajont.
L'ipotesi iniziale è quella di una diga all'altezza del ponte di Casso. Il geologo Giorgio Dal Piaz sostiene invece la scelta della zona del ponte del Colombèr.
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Uno scorcio di Erto vecchia

Un'idea che si concretizza il 30 gennaio 1929, quando la Società Idroelettrica Veneta, filiazione della SADE, presenta il primo progetto di una diga ad arco presso il ponte di Casso, alta 130 metri, invaso di 33,6 milioni di metri cubi. Nel 1937 ecco il progetto esecutivo del Semenza: la diga risulta spostata al ponte del Colombèr, l'altezza è di 190 metri, invaso di 46 milioni di metri cubi. Meno di due anni dopo, il 18 gennaio 1939, nasce la prima idea del «Grande Vajont»: sbarramenti del Boite - a Vodo di Cadore, e del Piave - a Pieve di Cadore. Il progetto è della Società Idroelettrica Dolomiti (appartenente alla S.I.P. - Società Idroelettrica Piemontese, legata alla SADE).

Il 22 giugno 1940 la SADE (alias Semenza) presenta domanda per unificare i progetti e le domande precedenti su Boite-Piave-Vajont. Si prevedono una diga a Vodo di Cadore (700 mila metri cubi), una a Pieve di Cadore (50 milioni), una sul Vajont (50 milioni). L'altezza della diga del Vajont viene portata a 200 metri. Sarà una coincidenza, ma è proprio il 15 ottobre 1943, con il Re d'Italia in fuga e l'apparato dello Stato allo sbando, che il Consiglio Superiore dei Lavori pubblici trova il tempo di riunirsi e approvare. Decisione poi ratificata il 2 marzo 1945 e il 5 agosto 1946, nella vicinanza di date Nazionali altrettanto cruciali.
La concessione definitiva arriva il 24 marzo 1948.

Il 15 maggio 1948, ecco il progetto esecutivo del «Grande Vajont». Con significative modifiche: la derivazione dal Boite viene spostata a Valle di Cadore (il bacino sale a 4.260 milioni di metri cubi). Il serbatoio di S.I.D. sale a 64,3 milioni. La diga del Vajont sale a 202 metri, massimo invaso a quota 679, capacità di 71,4 milioni di metri cubi (pressochè raddoppiata rispetto al progetto del '29). Nuova diga in val Gallina per 6,9 milioni di metri cubi.
Il 'sistemà fa riferimento alla centrale di Sovèrzene, potenza nominale di 97.287,45 Kwh.

Ma non è finita.
Nell'ottobre del 1948, il Semenza chiede a Dal Piaz di elevare il livello del serbatoio da quota 677 a 730 m.s.l.m.. La diga salirebbe a circa 300 metri, per un invaso di 340 milioni di metri cubi (quasi 5 volte il progetto iniziale). Dal Piaz è sconcertato: «Le confesso», scriverà al Semenza, «che i nuovi problemi prospettati mi fanno tremare le vene e i polsi». Il 13 dicembre 1950 arriva l'approvazione del Consiglio superiore Lavori pubblici, e il 18 dicembre 1952 il decreto presidenziale.

Intanto, i lavori procedono alacremente.
Tra il settembre 1950 e il gennaio del 1953 vengono ultimate e collaudate le dighe di Pieve di Cadore, Valle di Cadore e della Val Gallina (piccola valle successiva, a sud del Vajont, dietro il Toc).
Manca all'appello il "cuore" del sistema, il Vajont. Ma si procede spediti.
Alla metà del 1956 Semenza decide tra le diverse ipotesi allo studio: massimo invaso a quota 722,50, coronamento della diga a 725,50, altezza 263,50, capacità utile 175 milioni di metri cubi (quasi 5 volte l'originale dei 36 mln. del '29).

Nel gennaio 1957 iniziano i lavori senza che ci sia ancora l'autorizzazione.

Del resto, gli espropri erano già in atto dal 1948: riguarderanno alla fine 170 abitazioni e 3000 ettari sui 5222 del territorio comunale. La comunità di Erto è già colpita: senza terre e senza case, molti ertani emigrano.

La storia della diga è la storia di continue varianti, subito autorizzate, e anche di controlli mancati, di relazioni ingannevoli e false da parte della società idroelettrica, come emergerà al processo.
Il 31 gennaio 1957 la SADE presenta domanda di varianti alla concessione delle acque del Vajont per il sistema del «Grande Vajont».
Solo il 2 aprile 1957 la SADE presenta il progetto esecutivo: altezza diga 266 m., massimo invaso a quota 722,50, capacità di 168.715.000 metri cubi. Il 15 giugno 1957 il Consiglio Superiore dei Lavori pubblici approva, anche se manca la relazione geologica definitiva, che verrà inviata tre mesi dopo. Il 17 luglio 1957 arriva la immancabile autorizzazione provvisoria ai lavori della diga, che erano - come d'uso - già iniziati.
Ma incominciano gli allarmi.
Nel luglio 1957 la SADE commissiona indagini al geotecnico austriaco Leopold Muller che evidenza un «forte pericolo di frana» in sponda sinistra. Nessuno se ne meraviglia, tanto che il 13 marzo 1958 lo Stato decide un primo contributo di 1.419.090.000 lire (30% della spesa riconosciuta come 'soggetta a contributo'). Nell'aprile viene nominata la 'Commissione di collaudo' del Consiglio Superiore Lavori pubblici.
Il 30 gennaio 1959, decreto interministeriale di concessione per le 'varianti' richieste dalla SADE. I lavori erano già iniziati nel gennaio 1957, ben due anni prima.
Se Muller aveva già individuato un pericolo di frana, il 22 marzo 1959 il campanello d'allarme suona più forte che mai in val Zoldana, dalla parte oposta della valle del Piave, su uno degli impianti del «Grande Vajont». Tre milioni di metri cubi cadono nel bacino di Pontesei provocando un'ondata di 20 metri e la morte - mai ritrovato il corpo- di un operaio. Le dinamiche sono le stesse che provocheranno, qualche anno dopo, il disastro del Vajont.

Se ne preoccupano anche gli Ertani. Il 3 maggio 1959, si costituisce il Consorzio per la difesa e la rinascita della valle ertana, ne fanno parte i capifamiglia. Tina Merlin ne fa il resoconto su "l'Unità" in un articolo che esce il 5 maggio («La SADE spadroneggia, ma i montanari si difendono»). Viene denunciata - dai Carabinieri - per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico", verrà assolta a Milano nel novembre 1960. La sentenza ufficialmente riconosce l'esistenza del pericolo.
Ma lo si ignora.
Tanto che nel febbraio 1960 iniziano gli invasi sperimentali. Proseguono anche le indagini geologiche. Edoardo Semenza, figlio di Carlo, individua nel giugno del 1960 una grande frana di epoca preistorica e avvisa del pericolo di cedimenti.
Ma si va avanti ugualmente. Nel settembre del 1960 sono completati i getti di calcestruzzo.
Un secondo campanello di allarme suona ancora più forte il 4 novembre 1960: 800 mila metri cubi cadono nel bacino in via di riempimento provocando un'alta ondata. Carlo Semenza propone la costruzione di un by-pass per garantire, in caso di ulteriore frana, il collegamento tra le due parti nelle quali sarebbe rimasto diviso l'invaso.
Siamo nel febbraio del 1961. Muller, incaricato di studiare meglio la situazione, dopo la relazione di Edoardo Semenza, individua una massa di frana da lui stimata in 200 milioni di metri cubi. Nella sua relazione scrive che non c'è modo di tenerla sotto controllo, essendo i possibili rimedi (provocare con esplosivo la caduta della frana a pezzi, cementare il versante, costruire reti estese di drenaggio, ecc.) o eccessivamente costosi, o tecnicamente improponibili.
L'unico rimedio possibile sarebbe dunque abbandonare il progetto, ma la SADE non ci sente: gettare la spugna sarebbe equivalso a condannare la SADE al fallimento. Eppure, gli allarmi continuano più forti.
- Edoardo Semenza: «Con un rapido abbassamento del livello del lago sono da aspettarsi i movimenti più forti».
- Carlo Semenza: «Mi trovo di fronte a una cosa che per le sue dimensioni mi sembra sfuggire di mano».

Dunque, si va avanti. Nell'ottobre 1961 c'è l'ultima visita al Vajont della Commissione di collaudo.
Sempre in quell'ottobre muore Carlo Semenza (gli subentra Alberico Nino Biadene). Nell'aprile dell'anno dopo muore anche il geologo Giorgio Dal Piaz.
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Uno scorcio recente della diga

Nel 1962 Augusto Ghetti, luminare del Dipartimento di Idraulica dell'Università di Padova, viene incaricato dalla SADE di eseguire delle prove di laboratorio su cosa potrebbe accadere al Vajont. Perchè si sa che la frana cadrà, prima o poi. Ghetti, in una lettera alla SADE, consiglia di evitare di eseguire i test all'Università o in un luogo accessibile a estranei. Così si sceglie Nove di Fadalto, zona SADE ben sorvegliabile e chiusa.
«La quota di 700 metri può ritenersi di assoluta sicurezza», conclude Ghetti.
Ma nelle simulazioni si «sbagliano» la velocità di caduta e la compattezza del materiale. I risultati vengono comunque tenuti segreti. (Usciranno solo alcuni giorni dopo il disastro grazie a Lorenzo Rizzato, all'epoca tecnico disegnatore dell'Università, che li sottrasse per alcune ore e li diede alla stampa. Venne arrestato, poi assolto per insufficienza di prove).

Intanto, da anni si parlava di nazionalizzazione dell'energia elettrica, che arriva nel dicembre del 1962 decretando la nascita dell'Enel. E proprio in concomitanza, viene messa in attività la centrale idroeletrica del Colomber (che fa parte dell'impianto), ancora una volta senza autorizzazioni, per raggiungere in fretta il collaudo definitivo. Tra il marzo e il luglio 1963 la SADE e i suoi impianti vengono ceduti all'Enel.
Tutto il personale SADE diventa 'automaticamente' personale dell'Enel.

Nel settembre 1963 si invasa, arrivando fino a quota '710' (ben al di sopra della quota indicata dal Ghetti). Il programma prevede di procedere celermente fino alla quota 715. Il collaudo deve avvenire. Ma subito iniziano i franamenti, gli smottamenti, le scosse telluriche. Si va verso il tragico epilogo, ma in condizioni di forte allarme (per l'impianto, NON per le conseguenze N.d.Tiziano).

Il primo ottobre 1963 la situazione di rischio è tale, che si decide uno svaso veloce per ritornare sotto alla 'quota 700'. Ma la frana accelera ancora.
L'8 ottobre 1963 viene diramato l'ordine di sgombero delle frazioni sotto il Toc.
      Si accelera freneticamente lo svaso per portarsi al di sotto della quota di sicurezza indicata l'anno prima dal Ghetti.
                    Il Biadene scriverà in una nota: «Che Iddio ce la mandi buona».

Neanche 48 ore dopo, 9 ottobre, a sera, il Toc cede.

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