0«... di fronte a una tradizione nazionale che tende sempre a far dimenticare, ricordare la tragedia del 9 ottobre 1963 perde ogni possibile definizione di mesto anniversario, per assumere fortemente quella rivoluzionaria. Anche la ristampa degli atti di allora è tuttora un grido:

"non dimenticheremo MAI"

Dall'infamia delle iniziative industriali a quella della "legittima suspicione" tutto già rivissuto all'epoca del Vajont. Appunto, non chiediamo pietà per i morti, dobbiamo insistere per denunciare le infamie di allora e quelle di oggi. Sicuri come siamo che la Storia porterà un'epoca meno buia.»

Introduzione

All'indomani della tragedia del Vajont vengono aperte due inchieste, una giudiziaria e una governativa.
Quest'ultima, portata avanti da una commissione di cattedratici di varie università italiane presieduta da Carlo Bozzi, allora Presidente del Consiglio di Stato, conclude i suoi lavori il 16 gennaio 1964. Il giudizio è netto: risultano gravi responsabilità del monopolio e degli organi di controllo pubblico a tal punto che non si ammette neppure «l'imprevedibilità dell'evento». A farne le spese, tuttavia, è soltanto il Prefetto di Belluno, Domenico Caruso. Comunque sia, i superstiti riprendono a sperare che giustizia sarà fatta, come ha solennemente promesso Giovanni Leone, Presidente del Consiglio fino a un mese prima, o poco più, sulla spianata della Longarone strappata via dall'acqua. A ricordarglielo, le donne di Erto sono scese a Roma in corriera. Per strada si sono fermate a Ferrara, Bologna, Ravenna, Perugia, Siena, a raccontare in pubbliche assemblee di quella notte, e dei mesi prima, della Sade e dei loro morti. E lo stesso hanno fatto con ministri e sottosegretari. Ma pochi le hanno ascoltate.

A controbilanciare, e poi a smentire, le conclusioni dell'inchiesta Bozzi, viene prontamente istituita una commissione d'inchiesta parlamentare presieduta dal Dc Leopoldo Rubinacci. Nel giro di qualche mese, il 15 luglio 1965 sentenzia a maggioranza che il disastro non era prevedibile, riuscendo a dividere comunisti e socialisti che presentano ciascuno una propria relazione di minoranza.

Nel frattempo alcuni degli ertani sparsi tra Pordenone, Udine, Belluno, Milano e Torino sono tornati furtivamente nel paese abbandonato, decisi a riprendersi le loro case e la loro esistenza, vicino ai loro morti. Quelli che non hanno potuto cercare e che sono lì, fatti terra sotto la terra, o in fondo al lago. La spunteranno alla fine del 1965, quando un secondo referendum riconoscerà loro il diritto di restare parte nella vecchia Erto, parte in quella nuova che sorgerà a monte. Gli abitanti di Casso, non avendo più terre da lavorare, opteranno per la piana di Maniago, là c'è posto in fabbrica, altri si insedieranno a Ponte nelle Alpi, nei pressi di Belluno. E quasi tutti venderanno per pochi soldi le licenze per le attività di prima, per il commercio ambulante soprattutto. Nessuno ha detto loro che con quelle licenze possono esercitare anche altrove. E subiscono un'altra ingiustizia.
E una seconda diaspora.

L'inchiesta giudiziaria intanto va avanti, a passi svelti, per evitare la prescrizione. Dopo quattro anni di raccolta di documenti e testimonianze, di sopralluoghi e perizie, l'istruttoria sembra avviarsi a conclusione. La ENEL/Sade teme e mette a disposizione dei superstiti la somma di 10 miliardi di lire, a titolo di risarcimento e perchè rinuncino a costituirsi parte civile. Di punto in bianco le vittime hanno un prezzo: 1.500.000 lire un figlio, 1.000.000 un genitore, 750.000 lire un coniuge, 600.000 un fratello. 0Il Consiglio comunale di Erto respinge unanime la proposta: si aspetta giustizia, dice in un documento, non soldi; quello di Longarone la accetta a maggioranza risicata. Un'altra divisione che nuocerà non poco.

Il 27 novembre 1967, a Belluno, il Pubblico Ministero Arcangelo Mandarino deposita la sua requisitoria.
In essa si riconoscono gravi responsabilità ai tecnici della SADE-Enel e ai funzionari ministeriali, con l'aggravante della prevedibilità dell'evento fin dal 1960.
Il 20 febbraio, il giudice Mario Fabbri chiude l'istruttoria rinviando a giudizio nove persone, due sono nel frattempo decedute, imputate di delitti di disastro di frana, di inondazione, di omicidio e lesioni colpose plurime, con l'aggravante della prevedibilità dell'evento. Per due imputati si emette mandato di cattura.
La data del processo è fissata al 26 giugno, ma nel maggio la Cassazione fa sapere di aver trasferito il dibattimento all'Aquila per "legittima suspicione" e revoca i due mandati di cattura. Ai superstiti che non hanno voluto saperne della transazione con l'Enel torna l'amarezza. Per loro si apre un'altra odissea. Andare a testimoniare tra le montagne dell'Abruzzo significa sobbarcarsi sacrifici immani di viaggi e denaro, che le pubbliche collette solo in parte alleviano. Dal 1969 al 1971, essi compiranno a più riprese centinaia di chilometri in corriera per essere presenti in aula a dire la loro verità.

Ad assisterli vi è, tra gli altri, l'avvocato Sandro Canestrini.
Tocca a lui, il 23 settembre 1969, sostenere una delle prime arringhe del collegio degli avvocati di parte civile. Lo fa con la responsabilità di chi non ha assunto solo la difesa della vittima, ma un impegno forte, pubblico, nei confronti della verità. Si tratta perciò, in altre parole, di stabilire i perchè dei fatti, ancor prima di protestare giustizia, la loro inespugnabile verità, così che, da questa, quella scaturisca "naturalmente".
Va da sè che un'arringa espone, seppur argomentate, le conclusioni di una riflessione, che in Sandro Canestrini è molto più ampia e profonda di quanto può dire, tra l'altro nel timore di essere interrotto dal Presidente del Tribunale. Una riflessione che si affissa sui tratti distintivi, sui caratteri dell'ltalia, sulla sua classe dirigente, sulla società. E questo perchè la tragedia del Vajont non appaia un evento accidentale, estraneo alla storia di questo paese e come tale da rimuovere o minimizzare.
La tragedia del Vajont è l'ultimo sciagurato esempio di «come la politica sia economia»; è la conferma che la classe dirigente da sempre per dirla con lo storico Silvio Lanaro, così «prontamente, cocciutamente, perdutamente innamorata dell'economia come chiave universale che apre le porte alla felicità» ha rinunciato all'idea di Stato consentendo che la Sade diventasse Stato. Ha perfino, quella classe dirigente, creato un ceto medio (lo intuisce felicemente proprio in quegli anni Pier Paolo Pasolini), prodotto delle alchimie del "Potere" asservito nella casta dei tecnici, alla Biadene e Pancini, complici consapevoli. E se la politica è economia, la legge del profitto determina le scelte politiche. Con la blandizie, con la persuasione della necessità, con la violenza. La prima è adoperata con i tecnici, i moderni yesman, i cortigiani, gli uomini che come il Peter Schlemihl del romanzo di Von Chamisso hanno ceduto la propria ombra a un uomo dall'abito grigio per la borsa della felicità. Ma il progresso non si può arrestare; è una necessità, si ripete nelle aule universitarie, laddove si formano i futuri tecnici "ad uso e consumo della grande industria", e porterà benessere a tutti, costi quel che costi, fanno eco i media.
Anche duemila vite umane.

Di fronte alla fatalità si è impotenti e nessuno ha colpa. A questo punto l'indignazione di Canestrini non è solo morale, è politica.
Perchè quello del Vajont è un "processo politico" nel quale alle tante "verità" del potere è necessario opporre la verità, all'ideologia come falsa coscienza l'ideologia come scienza. Occorre denunciare le perverse connessioni tra economia e politica, dire che la nazionalizzazione, lontana dall'essere strumento di gestione democratica delle risorse, è l'ennesima occupazione del pubblico da parte di un privato mai sazio, e 'violento' se solo lo si intralcia. Di una violenza a volte sottile, subdola come nel caso degli espropri delle terre agli ertani;
- a volte indiretta, come nel caso dello spostamento del processo dalla sua sede naturale all'Aquila,
- a volte spudorata come nel caso della transazione offerta alle vittime dall'Enel in cambio del loro silenzio,
- a volte manifestamente spregiativa delle forme della convivenza umana e civile, della sua storia e della sua memoria, come nel caso della ritardata o mancata - e comunque controversa - ricostruzione.

Ancora una volta a farne le spese erano stati i poveri.
Quelli elogiati nelle virtù di sopportazione e di lavoro quando sono vivi, pianti nel destino gramo quando muoiono di tubercolosi o giù da una impalcatura. Come se vivere e morire a quel modo fosse una scelta e una fatalità, non una costrizione. Sfruttati, raggirati, e poi uccisi, due volte, sotto la frana e sotto «l'alluvione delle menzogne» all'Aquila, il loro era stato un vero e proprio genocidio. Che continuava con i superstiti, sempre più isolati, comprati dal Potere, accusati dai media di volere soltanto soldi, di vivere sulle spalle della collettività: loro, sempre piu' smarriti, infelici, privi di voce, rassegnati. Eppure c'era stato un momento nella loro storia, come in quella del Veneto e dell'Italia, in cui avevano saputo opporsi e attendere il nuovo: la Resistenza. E anche allora qualcuno lo fa.
Terenzio Arduini ad esempio, vicesindaco e poi sindaco pro-tempore del Comune di Longarone, che dai banchi del tribunale grida alla strage degli innocenti, convinto che nel paese di Pulcinella questa sia la volta buona, la volta buona "che la sua antica fame venga saziata".
Non sarà così.

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Il processo dell'Aquila si conclude con la condanna a pene lievi, in gran parte condonate, di soli tre imputati. L'Appello e la Cassazione alleggeriranno ancor di più le condanne, anche se la prevedibilità dell'evento è comunque riconosciuta. Il 23 marzo 1977, quando il lungo iter giudiziario si chiuderà definitivamente, si può dire che nulla è successo. Ma il tempo è galantuomo, si dice. E seppur faticosamente la memoria del Vajont, grazie a Marco Paolini, a Renzo Martinelli, alla sensibilità degli amministratori, all'impegno dell'associazionismo, comincia oggi a diventare patrimonio comune della nazione italiana. Di quella memoria, l'arringa di Sandro Canestrini è una delle pagine più belle. Essa non solo dice che cosa è il potere quando non è dato all'intelligenza e all'amore per il mondo, ma insegna la forza, la nobiltà d'animo di disertarlo.
Insegna l'indignazione contro l'ingiustizia e la violenza, segno di buona salute prima ancora che di necessità democratica.
Insegna a non disperare, chè verità e giustizia sono destinate a trionfare.
E noi non disperiamo, perchè, come Èmile Zola - e Sandro Canestrini che citandolo chiude la sua arringa - amiamo «la luce, in nome dell'umanità che ha già tanto sofferto e che ha diritto alla felicità».

Per quella luce, l'Amministrazione Comunale di Erto, il Comitato superstiti per la difesa dei diritti del Vajont, l'Associazione culturale "Tina Merlin" hanno voluto ristampare l'arringa, che per rigore, veemenza, onestà e passione continua ad essere e ad esigere un impegno per la verità.

Adriana Lotto