Giancarlo Zanarini lavorava alla Faesite. Per la prima volta racconta.

Solo buio e silenzio. "Riuscii a salvare una donna ferita". Come in un incubo tra le tombe del cimitero di Pirago.

Quello che vide e che fece la notte del 9 ottobre 1963 non lo ha mai rivelato.
Schivo di natura, Giancarlo Zanarini non ama le ribalte e poi "Chi c'era sa già tutto". Sono passati quarant'anni, eppure il racconto scorre fluido, quasi i fatti narrati fossero accaduti ieri. "Come fai a dimenticare..." trattiene il respiro mentre gli occhi si fermano in un'espressione di pietra "Ci ha salvato il bosco di Protti, altrimenti non sarei qui". Quella sera Zanarini era capo turno di notte alla Faesite e con lui c'erano 120 operai.
I problemi del Vajont erano arrivati anche in fabbrica, attraverso la voce di alcuni dipendenti che ci andavano a pesca. "Mi raccontavano che lungo il lago si notavano dei movimenti franosi, ma quella notte del 9 ottobre nessuno pensò al Vajont, ma alla diga di Pontesei".
•  Quella notte cominciò così
"Verso le 10 venne a farci visita il direttore dello stabilimento, Lucio Della Mora. Poi risalì in macchina e fece per ripartire verso Pirago, dove abitava con la famiglia. Fu richiamato da un mio collega che voleva istruzioni sul giorno seguente. Ridiscese dall'auto e si fermò per altri dieci minuti. Uscito dallo stabilimento, sul rettilineo che dalla fabbrica va verso Faè, fu investito dalla coda dell'acqua e per questo si salvò. Se non si fosse fermato quei dieci minuti in più sarebbe morto".

"Appena l'auto se ne andò sentii alcuni autisti che urlavano perchè i loro autotreni si muovevano verso il Piave investiti dalla prima ondata di acqua e le cisterne vuote, facendo da galleggiante, spostavano i camion.
Dalla finestra della centrale ho visto arrivare l'onda di piena. Sul piazzale c'erano stivati 200mila quintali di legno. Fino a quando l'onda non ha investito la parte bassa della nostra centrale elettrica, i piazzali erano illuminati a giorno. Come ho visto i rimorchi carichi di legna che si rovesciavano nell'acqua, istintivamente ho staccato l'energia dall'interrutore principale e poi ho cercato di scappare. Siamo rimasti al buio, ma i due fuochisti Giobatta De Dea e Angelo De Col, insieme all'elettricista di turno Giacomo De Bettio, hanno salvato la fabbrica. A rischio della vita, prima di scappare hanno aperto gli sfiati della caldaia impedendo che implodesse".

"Sembrava il terremoto", prosegue Zanarini, "tegole che cadevano, poi all'improvviso il silenzio, si sentiva solo l'acqua scrosciare. Il direttore era rientrato in fabbrica e abbiamo cercato di capire cos'era successo. Abbiamo subito pensato alla diga di Pontesei. Dalla centrale elettrica, risalendo verso la portineria ho trovato sulla scala del laboratorio parte del cadavere di una donna: non avevamo dipendenti donne, e ho capito che era successo qualcosa di molto grave. Il direttore è partito per andare verso la centrale di Col San Martino sopra Fortogna, io insieme a un operaio, Rodolfo Maravai, abbiamo messo in sicurezza i forni perchè c'era il pericolo che scoppiasse un incendio. Poi, verso le 23, arrivato in portineria ho cercato di raccappezzarmi con i rimasti, mentre la maggioranza era scappata sopra la ferrovia. Con un camion parcheggiato nel piazzale alto abbiamo cercato di andare verso Longarone. L'autista era Piero Burigo e con noi c'erano Antonio Moro, Luigi Scarpa e Rodolfo Maravai. Arrivati al curvone di Faè abbiamo trovato la strada ostruita da macerie. E i primi cadaveri. La prima in mezzo alla strada era una ragazzina di sedici anni, figlia del guardiano di casa Protti e c'erano alcune persone che urlavano sotto le macerie. Si vedevano solo le stelle. A questo punto gli operai hanno cominciato a scavare e dopo alcuni minuti ho pensato di salire verso Villanova per vedere cosa era successo".

•  Se avessi saputo non sarei andato
"Ho chiesto che qualcuno venisse con me, ma nessuno ha voluto per la paura che venisse ancora giù dell'acqua. Se avessi saputo cosa avrei trovato non ci sarei andato. Mi sono fatto consegnare una torcia e mi sono incamminato lungo la strada, a tratti praticabile a piedi. C'erano mucche morte e non riuscivo a capire perchè ci fossero tutte quelle bestie. C'era un toro che muggiva in fin di vita, io non sapevo più se andare avanti o tornare indietro. Arrampicandomi fra macerie e legname sono arrivato al ponte sul Maè, poi la strada non esisteva più. Si sentiva solo il rumore dell'acqua del Maè, un silenzio tombale e il buio che riempiva tutto. Stavo per tornare indietro, quando ho visto un raggio di luce dalla parte opposta del Piave. Erano i fari di una macchina che saliva da Codissago verso la diga. Era uno di Belluno che trovava le gallerie a monte bloccate e il ponte di Codissago distrutto. Il raggio di luce mi ha permesso di vedere, nel suo ruotare, il campanile di Pirago ancora in piedi".

•  Il paese non esiste più
"Mi sono arrampicato fino al campanile, l'unica costruzione rimasta in piedi. Non sapevo che lì vicino c'era il cimitero, quando l'ho attraversato pensavo di avere gli incubi, perchè i morti recenti erano mescolati a quelli vecchi. L'acqua aveva divelto colombaie e loculi, le casse erano sfasciate e gli scheletri sparsi ovunque, insieme ai resti delle persone travolte dall'onda. Ho avuto un momento quasi di panico, non capivo se stavo sognando, se era l'apocalisse ed ero morto. Mi sono fermato un attimo a ragionare e ho ripreso il cammino fino in cima al colle di Pirago. Lì mi sono reso conto che il paese non esisteva più. La villa dove abitava il mio direttore era sparita. Avevo ancora il dubbio da quale diga provenisse tutta l'acqua scesa. Mi sono avviato verso il centro di Longarone, ho camminato su ghiaia, sassi, macerie, accompagnato dal silenzio rotto solo dallo scrosciare dell'acqua.
A un certo punto ho visto una torcia elettrica che scendeva dalla parte opposta. Gli sono andato incontro e ho trovato un uomo che non conoscevo. Era il fratello di Angelo De Col il fuochista della fabbrica, Ado De Col. Mi ha chiesto informazioni su Pirago e gli ho detto che non esisteva più, senza sapere che lì lui aveva i genitori e parenti. Con la poca luce che rimaneva nella torcia ho fatto un piccolo giro a Longarone, all'altezza del centro e tra le macerie ho riconosciuto una trave del ponte sul Piave e lì ho capito che l'acqua veniva dal Vajont. Ho camminato per un bel po', ma non sono riuscito a vedere nè vivi nè morti, al che ho deciso di tornare verso Pirago. Alla scarpata sul ponte del Maè ho sentito le voci di Dalla Mora, del vice direttore della Faesite Austoni e di Pellizzari, un dipendente, che parlavano tra loro cercando di risalire. Mi sono nascosto perchè non avevo il coraggio di dir loro quel che avevo visto. Li ho lasciati passare, sapevo che il direttore là aveva moglie e figli. Giunto sopra il ponte, sotto la ferrovia ho sentito delle voci, il lamento di una bambina e le grida di aiuto di una donna".

•  La signora De Col
"Erano le prime voci che sentivo nel silenzio di quella notte. La torcia elettrica ormai non funzionava più, ma la vista si era abituata al buio e alla luce delle stelle. La signora De Col urlava e piangeva e implorava il suo bambino. Era una ragazza da poco sposata, di 21 anni, il suo bambino l'acqua glielo aveva portato via mentre stava allattando. Ho cercato di liberarla dalle tavole, ma urlava anche dal dolore perchè aveva un braccio, un femore e delle costole rotte. Una volta liberata la signora, ho cercato di raggiungere la bambina che era intrappolata tra le tavole, e sanguinante in diversi punti. Ho cercato di sollevarle la testa, ma stava morendo. A quel punto ho visto delle torce elettriche sopra il ponte della strada e ho chiesto aiuto. Mi sono caricato la signora De Col sulla schiena, ho attraversato il Maè nell'acqua e sono riuscito a portarla sopra il ponte. Fra quelle persone c'era il mio collega Bruno Andriolo, uno degli operai, Antonio Moro, un poliziotto e un signore che si è presentato come un dipendente dell'Enel". [ La signora De Col si salvò e alcuni anni più tardi si risposò con Angelo De Col, il fuochista della Faesite che quella notte aveva salvato la caldaia. Entrambi erano superstiti, avevano perso le rispettive famiglie, ma decisero di ricominciare insieme]. Il dipendente dell'Enel si tolse l'impermeabile e lo utilizzò per coprire la signora, completamente nuda. "A turno, in spalla, la portammo a Pirago dove è stata caricata su una Bianchina e portata all'ospedale di Agordo. Poi ho deciso di scendere verso Faè. Sulla strada ho sentito un vociare e mi sono visto una torcia elettrica puntata sul viso". Dietro quella torcia c'era un generale degli alpini, era Cavanna con 150 alpini".

•  I primi soccorsi organizzati Alle 3 del mattino i primi veri soccorsi arrivavano a Longarone.
"Il generale mi chiese cos'era successo. Gli dissi che Longarone non esisteva più. Mi chiese se stavo bene o se mi sentivo alterato. Guardi che sono un ex ufficiale della Cadore, dissi. "Allora le credo", mi rispose. Gli ho indicato l'unica strada per arrivare rapidamente attraverso Pirago. Alla Faesite alcuni operai, ripreso un po' di coraggio, erano ridiscesi dalla ferrovia. L'elettricista mi avvisò che la parte bassa della fabbrica era completamente distrutta. Lì erano spariti 104 fustini corazzati di isocianato (cianuro). Presi la macchina e venni in questura a Belluno per avvisare che lungo il Piave potevano esserci questi fustini pericolosi. Partì un appello radio".

"Erano le 5, passai a casa per avvisare i genitori e mia moglie che già mi piangevano morto. Ero stravolto, stanco, pieno di graffi e di sangue. Raccolsi le mie cose e tornai alla fabbrica, senza più muovermi da lì per venti giorni. Il direttore aveva perso la famiglia, l'ingegnere era morto, ero rimasto l'unico tecnico che conosceva l'impianto. Iniziò la conta dei morti.
Il primo giorno uscirono dai cancelli della Faesite 173 cadaveri, tutti abitanti di Longarone e dintorni trascinati dall'acqua".

(fonte: Corriere delle Alpi. Testimonianza raccolta da Stefano Campolo)