IL VAJONT DOPO IL VAJONT - 1963/2000

GIANMARIO DAL MOLIN

I VISSUTI RELIGIOSI NELLA TRAGEDIA DEL VAJONT

1. SPECIFICITA' RELIGIOSE DELLA PARROCCHIA DI LONGARONE ALLA VIGILIA DELLA CATASTROFE

Alla vigilia della catastrofe la parrocchia di Santa Maria Immacolata di Longarone che, con Igne, Fortogna, Casso, Castellavazzo, Codissago, Podenzoi e Sovérzene, costituiva il relativo vicariato foraneo, si presentava come la perfetta parrocchia di osservanza tridentina, come ben si rileva dalle note compilate dall'arciprete alla vigilia della visita pastorale del 1962 1.
Lo stato religioso e morale del popolo era ritenuto buono. La quasi totalità delle famiglie e degli ambienti di educazione e di lavoro esibiva il crocifisso e le immagini sacre e si tenevano abitualmente in casa l'acqua santa, l'ulivo e le candele benedette. Non era diffusa la bestemmia e si rispettavano con scrupolo il digiuno e l'astinenza nei periodi prescritti dalla chiesa. Non vi erano illegittimi e veniva lamentato un solo concubinato, a Provagna. Pur tuttavia cominciavano ad apparire i primi segni di crisi, ancorché contrastati dalle tradizionali pratiche di religione, dovuti in particolare all'emigrazione e al «social-comunismo».
Essi emergevano chiaramente una diecina d'anni dopo nel seppur sbrigativo giudizio del Capraro: «la partecipazione alla vita parrocchiale registra da qualche tempo un certo allentamento; l'esperienza associativa a Longarone non ha esistenza facile: alti e bassi si susseguono con leggera prevalenza dei secondi sui primi»2.
La vitalità della parrocchia si fondava ancora sulla pratica sacramentale, in particolare l'eucaristia, poiché - diceva don Larese - «i miei cristiani li conosco alla balaustra»3.

Emblema e sintesi di tale vita era la santificazione della festa, ritenuta il massimo indicatore della fede, a fronte dell'emergere di riti profani che allontanavano il credente dalla chiesa. Nuovi e pericolosi passatempi come i giochi, i nuovi lavoretti tipici del tempo libero che sostituivano i vecchi «lavori servili», le osterie, lo sport, le gite e i weekend fuori paese rischiavano di sconvolgere il carattere sacro di tale giorno. La speranza di un miglioramento era tutta riposta nell'Azione cattolica, nella devozione alla Madonna e nella varie associazioni devozionali come l'Apostolato della preghiera. Due erano i sacerdoti presenti a conferma del rango di Longarone come parrocchia popolosa e ambita: monsignor Bortolo Larese, arciprete, vicario foraneo e (cosa rara) canonico onorario della cattedrale di Belluno, e don Lorenzo Larese, cooperatore4.
La loro vita sacerdotale veniva sobriamente descritta in questi termini: quotidiane pratiche di pietà, ritiri mensili, esercizi spirituali annuali, lettura accurata sia della stampa cattolica che di quella riservata al clero; rispetto rigoroso della residenzialità; diligente espletamento degli svariati compiti parrocchiali e delle funzioni ministeriali. I pochi «dipendenti» della parrocchia (sagrestano, domestica, organista eec.) dovevano analogamente dimostrare una condotta irreprensibile. E tale era quella di Caterina Da Boit, loro domestica che, «virtuosa e pia, non patisce nessuna avversione e critica da parte dei fedeli», o delPorganista dedito a suonare unicamente ed esclusivamente musica sacra.
La percezione dell'ecclesiastica autorità da parte del popolo ubbidiva ancora pienamente ai vecchi canoni del Vaticano primo. Era ossequiente al papa e al vescovo e «il parroco è rispettato dalla popolazione e ha influenza sopra di essa. Con le autorità civili conserva rapporti di deferenza e di rispetto». Accanto ai preti vi erano quattro suore che reggevano l'asilo e «la scuola di lavoro» e li aiutavano nelle opere parrocchiali. Appartenevano alle Piccole suore della Sacra Famiglia5, una congregazione religiosa, a forte connotazione clericale, fondata nel 1877 a Castelletto di Brenzone, sulle rive del lago di Garda, da don Giuseppe Nascimbeni e da suor Domenica Mantovani, rapidamente diffusasi anche nel Veneto6.

Gli strumenti della «sacra pastorizia» erano centrati sulla costante presenza dell'arciprete, vigilante sentinella del gregge, sulla vita sacramentale, sull'istruzione religiosa e su una serie svariata di controlli che dalla vita morale si estendevano a quella sociale: controllo delle famiglie, dei villeggianti, del voto politico e amministrativo, della frequenza alla chiesa, delle nascite, dei digiuni e delle astinenze, dei pubblici e privati divertimenti. Particolarmente curati risultavano gli aspetti concernenti la beneficenza, l'emigrazione, il tempo libero, il piccolo clero e le vocazioni nascenti, attraverso strutture e strumenti specifici: la Conferenza femminile di San Vincenzo, la presenza cattolica nell'ECA, il cinematografo parrocchiale, l'asilo, la scuola di catechismo, la scuola di lavoro, la Pia unione del piccolo clero, l'amorevole sorveglianza dei numerosi seminaristi nel periodo estivo. Fiorenti poi le tradizionali congregazioni, associazioni e organizzazioni cattoliche: non solo l'Azione cattolica, ma anche le associazioni missionarie e quelle collaterali al mondo cattolico, come le ACLI e il CIF.

Fiorente pure era la scuola di catechismo, con otto classi, distinte ciascuna in una sezione maschile e una femminile per un totale di 127 maschi e 136 femmine a Longarone e una sezione staccata per Dogna e Provagna con 45 alunni. Le lezioni - nell'attesa di una vera e propria «casa della dottrina» - erano impartite presso le suore, in chiesa e in canonica. La chiesa e il cimitero venivano tenuti all'insegna del decoro dovuto a luoghi sacri, analogamente alla cura delle suppellettili, arredi, vasi liturgici, altari, battistero, confessionali, acquasantiere, immagini e paramenti, nella scrupolosa attenzione delle norme tridentine e delle disposizioni sinodali. Anche l'aspetto amministrativo della parrocchia risultava assai curato, coinvolgendo i fedeli nell'amministrazione della stessa, attraverso la Commissione parrocchiale, la giunta e la consulta. Particolare attenzione era dedicata alla conservazione dei libri parrocchiali, alla cassa delle anime, alla registrazione delle messe per i defunti, sia anniversariali che di legato. Le rendite stabili di culto si basavano essenzialmente su 25 legati di messa per i defunti che comportavano l'obbligo di celebrare 250 messe all'anno: un numero cospicuo, quasi la metà del totale delle messe celebrabili in parrocchia per i defunti, tutte debitamente rendicontate in curia che introitava una parte delle offerte.

Infine la vita sacramentale, con le sue regole e tradizioni rituali, passava attraverso una prassi consolidata, chiara e ben collaudata dalla normativa ecclesiastica e dalla sensibilità pastorale del parroco, con una percentuale di popolazione praticante dell'85%: il 97% delle donne e delle giovani, il 77% degli uomini e dei giovani. Battesimo, cresima, comunione e confessione, matrimonio, estrema unzione e funerali stavano al centro di una vita cristiana fondata «su questi divini strumenti della grazia, segno inconfondibile della sensibilità religiosa dei fedeli»7.

Il battesimo generalmente viene amministrato entro gli otto o i dieci giorni. Volta per volta che un battesimo arrivasse in ritardo, il parroco dice una buona parola. La popolazione e continuamente istruita sopra il s. battesimo; le levatrici conoscono molto bene il modo di amministrarlo. Si esige sempre, se il battezzato è di altra parrocchia, il documento di battesimo, oltre l'altro documento di idoneità del padrino. I cresimandi vengono preparati con particolare cura; la cresima viene amministrata ogni anno. Si dà al giorno della cresima carattere festivo e si raccomanda il raccoglimento. Ordinariamente i bambini vengono ammessi alla prima comunione all'età dei sette od otto anni il giorno della S.S. Trinità. Viene fatta una preparazione di 40 giorni, un po' di ritiro e la cerimonia viene svolta con la massima solennità. Vengono invitati genitori e parenti. Fanno le «sei domeniche di S. Luigi» e sono invitati continuamente alla comunione; hanno in regalo il loro libro di devozione. Si promuove la comunione di frequente con esortazione continua, con il primo venerdì del mese ed il primo sabato, con Fora santa del primo giovedl eucaristico8. Le comunioni distribuite nell'anno in corso sono state circa 31.000; così nei due anni antecedenti. Il pane per la s.s. eucaristia lo si provvede dalle suore di S. Giacomo di Veglia ed il vino lo si provvede da un sacerdote. Il vino è tenuto in canonica e lo si fornisce volta per volta.

Spessissimo si invitano i fedeli alla s. comunione e si offre loro la possibilità di confessarsi; si evita qualunque altra occupazione che non siano le confessioni. I piccoli vengono ammessi alla prima confessione nell'occasione della prima comunione, ai 7 anni generalmente; sono assistiti dalla suore. Si raccomanda sempre che vengano ad ora opportuna. Si chiamano confessori straordinari nelle occasioni del Natale, della Pasqua ed in altre circostanze. E' sempre rigorosamente esclusa la confessione di donne e fanciulle in luogo diverse dal confessionale. Per le inferme si usano tutti i riguardi, come è prescritto dal sinodo; si usa sempre la stola. Si istruiscono i fedeli sulle indulgenze e sulle condizioni per acquistarle. Si corre prontamente al letto dei malati e li si visita frequentemente; si comunicano spesso, almeno una volta al mese, quelli che lo desiderano. Nell'ultimo biennio non morì nessuno per malattia senza sacramenti. Ai malati che hanno ricevuto i sacramenti si procura il conforto della s. comunione più volte. A quelli privi di sensi si suggeriscono atti di dolore; si avverte che vengono assolti e si assolvono. L'assoluzione e l'estrema unzione vengono amministrate anche in caso di morte apparente. I fedeli, in generale, avvertono i sacerdoti per tempo riguardo ai loro ammalati. Per gli ambienti difficili si trovano sempre buone persone che sentono il dovere di avvertire il sacerdote. Lo si chiama anche quando sia sopravvenuta la morte. L'estrema unzione e la benedizione papale si danno a piena conoscenza e si cura che degenti e parenti siano preparati e ricevano ed assistano con devozione. I funerali sono decorosi anche per il popolo. Pregano; il canto è liturgico e la s. messa in canto gregoriano. La popolazione conosce che miglior suffragio è la s. messa. Si procura che venga celebrata la s. messa praesente cadavere, per tutti indistintamente; si conserva la pia abitudine del trigesimo e dell'anniversario. Si osservano le tariffe approvate dall'ordinario, lasciando ai parenti la libertà della classe che loro aggrada. Il cimitero e tenuto decorosamente; nel mezzo v'e la croce e vicino al cimitero la Chiesa. Così tanto per il cimitero di Longarone che per quello di Dogna. Non v'è un reparto separato per gli acattolici; abbiamo invece il sepolcro per i parroci. Generalmente - in parrocchia - non si danno fidanzamenti precoci; in qualche caso gli amoreggiamenti si protraggono troppo; si procura di impedire tutto ciò.
Nell'esame dei nubendi si richiamano le verità della fede, l'obbligo di ricevere il sacramento in stato di grazia e la gravità dei doveri che assumono. I fidanzati vengono forniti del catechismo loro proprio e nel giorno del matrimonio di un libretto ricordo. Il parroco prepara a tempo e con esattezza gli atti prima del matrimonio, ne trasmette subito al municipio l'atto per la trascrizione, conserva con gli altri atti la comunicazione dell'avvenuta trascrizione, ne fa l'annotazione sul libro dei matrimoni ed invia subito la comunicazione alla parrocchia d'origine. In parrocchia vi sono 2 matrimoni civili contratti prima dell'ultimo quinquennio9.

La domenica era prevalente giorno di santificazione, con varie pratiche liturgiche che caratterizzavano l'intera giornata: messa per i fanciulli, messa pro populo prediche e catechismo per ragazzi, qualche sano divertimento come il cinema parrocchiale, vesperi e catechismo agli adulti, santo rosario, celebrazione eucaristica conclusiva. Sempre all'insegna del decoro delle sacre funzioni, si procurava che le processioni fossero organizzate bene e che tutti partecipassero con il canto e con la preghiera. Anche funzioni straordinarie come la novena del Natale, dell'Immacolata, della Pentecoste, i «fioretti» del mese di maggio, le «coroncine» di giugno e i rosari d'ottobre venivano particolarmente curati, all'insegna della devozione mariana e di quella - gesuitica e antigiansenista - dei Sacri Cuori. La diffusione del verbo cristiano passava infine attraverso due importanti funzioni, quali la predicazione, ordinaria e straordinaria, e la «buona stampa».

Queste note documentano a sufficienza una struttura parrocchiale di stampo preconciliare in qualche modo esemplare, per organizzazione, conduzione, sensibilità pastorale, autorevolezza sacerdotale rappresentata dalla figura di don Bortolo Larese, perito nella tragedia del Vajont con il vicario cooperatore don Lorenzo Larese, un giovane sacerdote presente a Longarone da soli due anni10.
Appare chiaro dunque come da una siffatta organizzazione non potessero non sortire impressioni e vissuti, connotati da un forte senso del religioso, con rielaborazioni individuali e collettive ispirate a tali assunti, chiaramente presenti nella gestione del lutto all'indomani della catastrofe. Gli stessi termini espressivi della sciagura passavano nell'immaginario collettivo attraverso categorie religiose o espressioni di forte pregnanza religiosa: apocalisse, cimitero, valle dei morti, necropoli, sfilata di croci, strage degli innocenti, processione di morti, valle di lacrime, olocausto, sacrificio di vittime, mostro infernale, mostro del Vajont, tomba di fango... 2.

LA RELIGIOSITA' NELLE CATASTROFI: DUE IPOTESI ALTERNATIVE

Una riflessione preliminare sulla «religiosità» dei longaronesi dopo il Vajont, pone il quesito se si fosse trattato di un fenomeno esclusivo di fede, immutato e immutabile nel tempo, senza alcuna diversa implicazione sociologica e culturale legata alla catastrofe, o se invece «l'evento» avesse significativamente influito su di essa, rafforzandola. Uno degli argomenti della letteratura degli anni settanta sulla riorganizzazione sociale dopo i disastri si basava sulla diversità fra risposte di breve o lungo periodo tipiche di una «società tradizionale» e quelle proprie di una «società moderna». Uno di questi indicatori era dato dal risorgere della religiosità nel primo tipo di società e dall'assenza di questo fattore nel secondo. Poiché tale dimensione non pare fosse complessivamente venuta meno, ma si fosse anzi ulteriormente radicata, si pone il quesito se ciò costituisse uno dei motivi per dire che Longarone era una «società tradizionale»11.

Questa discutibile tesi sembrava avvalorata per altre vie dalla stessa relazione antropologica allegata al «Piano di ricostruzione» di Longarone, nella sua cruda disamina dei riti ancestrali e delle abitudini premoderne di una «società senza classi», qual era definita la comunità longaronese, fondata sulla mistica della bettola e sul «ciclo del bicchiere di vino», indicatori di «un culto della virilità e della forza espressa dal consumo sociale dell'alcol» che avrebbe compensato la timidezza di fondo del Longaronese di derivazione etnica «bellunese»12.
Ma la considerazione complessiva derivante da un processo storico di ricostruzione che è ormai sotto gli occhi di tutti (ma che nei primi anni settanta, ai tempi della ricerca di Giuseppe Capraro non sembrava ancora così evidente) è che la risposta di Longarone, sia di breve che di lungo periodo, abbia ubbidito sotto ogni profilo, al modello tipico di un paese moderno. In una società moderna infatti, quando la comunità «piccola» è colpita da una sciagura, mentre quella «grande» rimane illesa, quest'ultima diviene per la prima fonte di aiuto, assistenza e ricostruzione. E il dato interessante è che la parrocchia e la società religiosa che essa rappresentava fu tra le forze maggiori che determinarono il collegamento tra la «piccola» e la «grande» patria per un coordinato processo di ricostruzione.

La stessa convinzione che non si trattava di una punizione divina costituiva un elemento «religioso» nuovo del tutto estraneo all'ideologia delle società tradizionali, fondate invece sul timore e sulla paura della vendetta di Dio. E anche in questo processo la sensibilità pastorale di don Bez non fu elemento secondario. Egli stesso, ancora nei primi anni settanta, confermava che chi non aveva la fede non l'aveva ritrovata con la tragedia del Vajont, mentre chi ce l'aveva, l'aveva mantenuta o ulteriormente arricchita.

3. IL MODELLO DELLA «PIETAS CRISTIANA» NEL RECUPERO DEI CORPI

È noto che i riti esequiali della chiesa cattolica sono basati sulla preghiera e sulla purificazione, presupposto necessario affinché i cristiani «incorporati per il battesimo a Cristo morto e risorto, passino con lui dalla morte alla vita e, debitamente purificati, vengano accolti coi santi e gli eletti nel cielo»13.
Mai come nelle tragedie di guerra e della natura questi due momenti, della preghiera e della purificazione, sono apparsi inscindibili, in un processo materiale e spirituale nel quale la purificazione delle anime si accomunava a quella dei corpi. È questa una caratteristica costante della 'pietas' cristiana, mantenuta sapientemente in ogni circostanza sia ordinaria che straordinaria: unire il rispetto per i resti mortali alla preghiera di suffragio per la salvezza dell'anima e al messaggio di mònito e di speranza per i presenti al rito. A differenza di quanto sta avvenendo oggi, in cui il mito dell'immortalità non è più centrato sulla speranza della resurrezione dei corpi, ma sulla conservazione della memoria, in una disgiunzione totale fra il corpo del defunto (mero reperto residuale organico, virtuale oggetto di prolungamenti meccanici legali della vita, di espianti, di autopsia e di incenerimento tramite cremazione) e la sua passata personalità, essa sola degna di memoria, il «frale» veniva considerato elemento insostituibile, destinato a ricomporsi e riunirsi all'anima nell'ultimo giorno.
Il rispetto al corpo era dovuto in quanto reperto destinato alla resurrezione, già tempio vivo dello Spirito Santo. I riti funebri non erano in fondo che il riconoscimento di tale realtà. Il dato corporeo restava fortemente presente: il culto della preservazione della spoglia nel suo ritorno alla terra, la cura amorosa del loculo funerario sottendevano l'intima perseverante unione dei morti con i vivi e la speranza cristiana della resurrezione dei corpi, destinati dunque non al «sonno eterno», tanto citato negli aforismi sulla morte, ma a una transitoria pia dormitio, di cui era metafora la legenda aurea dei Sette Santi Dormienti di Efeso14. I riti funerari venivano definiti anche «riti espiatori», dando al termine latino di expiatio un'interpretazione amplissima che poteva soddisfare ogni esigenza: purificare il corpo con l'incensazione e l'aspersione, purgare lo spirito con la preghiera, tener lontano il demonio dal possesso dell'anima del peccatore, propiziarne la salvezza alla presenza dell'Altissimo, placarne la giusta sua ira per i peccati commessi, soddisfare gli obblighi della famiglia e della comunità nei confronti del defunto, riparare il male e rimediare ai torti commessi. Propiziazione, redenzione, riscatto, riconciliazione erano dunque i contesti entro i quali si muoveva un rito che le circostanze drammatiche rendevano scarno ed essenziale. L'austera presenza del sacerdote sul greto del Piave, in veste nera, senza orpelli di alcun genere, con la mano benedicente alzata su ciascuna bara, rappresentava non tanto un momento liturgico e rituale di presenza cristiana verso i morti, ma un gesto apportatore di serenita e di speranza verso i vivi15.

In questo senso il prete diveniva non solo il tramite medianico fra il naturale e il soprannaturale, non solo il rappresentante e il difensore davanti al trono di Dio di un'umanità dolente e peccatrice, alla quale oltre tutto non era stata dato nemmeno il conforto di un pentimento premeditato e sacramentalmente gestito, soppiantato dall'orrore della morte subitanea e improvvisa, mala mors, ma diveniva altresì il garante presso i vivi di una speranza e di una certezza che poteva e doveva vincere la disperazione della perdita.

Il prete si aggirava discreto e premuroso accanto alle squadre dei recuperanti. Era il parroco, il curato o il cappellano del luogo di rinvenimento delle salme e al rito pietoso di ricomposizione dei corpi si accompagnava la preghiera del De profundis, dei salmi penitenziali e della finale aspersione, in una visione rituale senza tempo che ridava ai poveri resti la dignità di figli di Dio. Erano i primi segni, cui sarebbero seguite messe esequiali e anniversariali con rituali più complessi, tutti ad alto gradiente espiatorio e consolatorio. In qualche caso fra i primi gruppi di volonterosi accorsi non mancavano quelli parrocchiali guidati da sacerdoti, perpetuando anche in questa circostanza una tradizione tipica del clero di montagna, acquisita nel periodo della Restaurazione, nel quale anche la dimensione fisica e di resistenza ai rigori della natura veniva tenuta in gran conto nella tradizione danubiana dei seminari dell'Impero, successivamente mai sottovalutata nel reclutamento del clero di montagna delle diocesi di Belluno e di Feltre16. Gioacchino Muccin descriveva, ammirato, la pia opera del clero bellunese nel recupero e nella benedizione delle salme, evidenziando il suo coraggio e la pronta disponibilita nell'alternarsi a confortare i vivi e a benedire i morti17; in qualche caso, se ci fosse state bisogno, anche a ricomporli e trasportarli18.
Leggendo le cronache di quei ritrovamenti colpisce la dimensione di carità con cui parrocchie e volontari, nelle chiesette della Val Belluna, come Salmenega, Santa Margherita, Libano, Pialdier, San Niccolò divenute per un giorno luoghi di accoglienza, oltre che nei cimiteri di cui ogni parrocchia disponeva, hanno provveduto alla ricomposizione delle salme ritrovate, deponendole ai piedi del'altare e quelle dei bambini addirittura sull'altare stesso19. Si distinsero in modo particolare le parrocchie di Cadola, di Santa Giustina e, naturalmente, di Fortogna. Le prime due, essendo alla confluenza di punti strategici del Piave, si trovarono a risolvere problemi enormi: prima raccolta, individuazione dei primi «depositi» per le salme nelle varie loro cappelle e cimiteri, ricerca di crocifissi, sudari, indumenti e presidi igienici elementari. I due autorevoli parroci di quei luoghi, don Giacomo Viezzer e don Luigi Perotto, non si risparmiarono. Don Viezzer fu tra i primi a organizzare con il sindaco di Ponte delle Alpi squadre di soccorso e di recupero20. A Santa Giustina don Perotto, in un resoconto postumo più elaborate, a edificazione dei «buoni», a lode del cattolico sacerdozio e della carità dei suoi fedeli fervidamente esperita sul campo, metteva in evidenza l'opera di recupero e di esposizione nelle chiese di Salmenega e di Santa Margherita di 70 salme, fatta con «un amore che non si può esprimere»21. Infine Fortogna divenne il luogo culmine non solo sotto il profilo operative, ma dell'epos che investiva l'intera operazione di recupero. E analogamente a Viezzer, don Vittorio Fregona lo esprimeva in un linguaggio asciutto e nel contempo ispirato, lontano dalla facile retorica di Perotto. «Opera degli umili», era state il lavoro operato sulle salme fatto a Fortogna da militari, operai, volontari: i «monatti del buon Dio»22.

Di fronte ad alcune prudenze suggerite dal pretore di Pieve che aveva fatto divieto di toccare anche solo le bare, senza guanti (quando sarebbero bastati quelli usuali di cucina) e alle stupidaggini di qualche sfaccendato che girava con il giornale in tasca dissertando sulle priorità del momento e affermando che occorreva pensare prima ai vivi e poi ai morti, il buon senso e la determinazione del quarantaseienne parroco esplodevano in tutta la loro autentica carica operativa e di carità.
«Salviamo i morti per salvare i vivi, dicevano alcuni. Ma se volevano veramente salvare i vivi, bisognava invece far presto, rimboccarsi le maniche e seppellire i morti. Questa era la logica del momento. Questo il dovere»23. Persino di fronte ai suoi giovani che esprimevano analoghe istanze organizzative, faceva capire che quella era l'ora del fare, tutti, subito, senza distinzione di ruoli, i preti come gli operai, i medici come i militari24. E un ammirato attestato di lode egli lo dava in particolare all'equipe dei medici e antropologi di Lubiana che, con il carico della loro esperienza nel recente terremoto di Skopje, erano prontamente e volontariamente corsi a Longarone25. In pieno XX secolo la chiesa sentiva talmente come suo il compito di «seppellire i morti», secondo la vecchia casistica tridentina delle opere di misericordia corporali, che monsignor Abramo Freschi, presidente nazionale della Pontificia opera di assistenza (POA), giunto subito a Belluno con il patriarca Urbani e il vescovo Muccin, sentiva il dovere di ringraziare a nome del papa le truppe militari che lavoravano per il recupero dei cadaveri e lo sgombero delle macerie. E in maniera più ampia e organica lo fece successivamente Muccin.

Nella lettera pastorale sul Vajont, in «una religiosa rassegna dei fatti [...] alla ricerca di quelle luci di fede, di bontà, di virtù cristiana che illuminano il mistero del dolore e della sofferenza e la trasfigurano in sorgente di meriti, di purificazione e di arricchimento 260 interiore, di vita soprannaturale di amore», egli esaltava la dimensione della bonta, «più forte della morte», prodigata nelle opere di soccorso; la tempestività degli interventi; il ruolo particolare delle forze armate e degli altri corpi ausiliari; l'aiuto di enti e persone, in particolare degli italiani all'estero attraverso le missioni cattoliche e ovviamente del papa, dei cardinali, dei patriarchi e dei vescovi, dei parroci e degli istituti cattolici di educazione26. Ecco dunque che cosa è stato il Vajont per i recuperanti volontari, per i vigili del fuoco, per i soldati dell'esercito: «un massacrante, ingrato, disgustoso lavoro di becchini. Ma un disgusto vinto e superato dalla pietà, un lavoro compiuto in mestizia, mormorando le preghiere dei morti: un rito ripetuto quasi 1.500 volte, tante quante sono state le salme ritrovate e alle quali essi hanno dato sepoltura, pace e dignità»27.

4. IL CAMBIAMENTO DI PROSPETTIVA NELL'INTERPRETAZIONE RELIGIOSA DELLE CATASTROFI:
DAL «DITO DI DIO» ALLA «DOMANDA DI SENSO» E ALLA «PROVA DI VITA»

Per tutta la metà del XX secolo, sull'onda dell'ecclesiologia del Vaticano primo, del «Sillabo» e di una chiesa in contrapposizione frontale con la modernità, ogni evento straordinario causato sia dall'uomo, come la guerra, che dalla natura, come i terremoti, le pestilenze, la siccità, la grandine, o «l'infausta luce» delle comete, veniva interpretato come «segno» premonitore dell'ira divina contro l'uomo che aveva dimenticato Dio e la sua Chiesa. Era «il dito di Dio» che, stanco di tanta iniquità, si posava sull'umanità peccatrice. Era la sua mano implacabile che percuoteva e devastava; e l'evento non rappresentava l'esplodere della natura, bensì dell'ira divina che della natura si serviva come strumento della sua superiore giustizia castigatrice e vendicatrice. Era un Dio offeso dai peccati degli uomini che placava solo con la loro penitenza espiatrice: qui culpa offenderis, poenitentia placaris. La sua presenza sulle disgrazie del mondo era costituita dai «flagelli della sua ira a seguito dei nostri peccati: "flagella Tuae iracundiae quae pro peccatis nostris meremur. La medesima impostazione aveva espresso il vescovo Cattarossi all'indomani dell'inizio del primo evento bellico mondiale. Nella lettera pastorale dell'11 febbraio 1915, dettata anche dalle drammatiche notizie sul terremoto dei primi giorni di gennaio nelle province dell'Italia centrale, egli affrontava il delicato problema delle «pubbliche sventure».

«Perché Dio manda di quando in quando, o almeno permette, tanto gravi flagelli, come il terremoto e la guerra?». La risposta era piuttosto articolata e parlava della libertà dell'uomo, non sempre ben gestita e delle sventure permesse da Dio perché l'uomo si ravvedesse. Per questo suo ravvedimento egli doveva accettare la dura legge della sofferenza, guardando all'esempio di Gesù crocifisso, salvatore degli uomini. Nella terza parte della lettera trattava più direttamente delle colpe dell'uomo moderno, a cui in sostanza si doveva risalire per capire la gravità della situazione presente e quindi la correlazione fra causa ed effetto, fra sintomi o segni e i fattori determinanti di essi, nella rappresentazione di un universo dove Dio interloquiva con il mondo e la storia dell'uomo29. Il seguente brano tratto da un racconto dello scrittore cattolico tradizionalista di Firenzuola, Tito Casini, offre un'idea eloquente di questo modello penitenziale ed espiatorio, aleggiante in Italia in talune frange tradizionaliste, ancora ai tempi del Vajont:

La processione uscì, all'ora stabilita, dalla porta scardinata della basilica, e un ampio sussurro di commozione l'accolse, al suo primo apparire, da parte della folla fuori in attesa: il Vescovo, che l'apriva, in piviale cinereo più che violaceo, reggendo fra le mani, la fronte appoggiata al legno, una nuda croce, aveva ugualmente nudi i piedi e portava ai fianchi, sul camice, in funzion di cordile, una rozza corda. Piedi e piviale e camice recavano i segni del fango, scuro e fetido, che la grande alluvione aveva rovesciato dentro la chiesa, senza rispetto per gli altari, i sacri arredi, le suppellettili, gli scranni del clero e la stessa cattedra episcopale.
[...] Parce, Domine, parce populo tuo...
[...] Era un rito di penitenza, un plorare e implorar di peccatori pentiti, e il clero intonò il salmo Cinquanta, quello che David compose quando andò da lui il profeta Natan, dopo ch'egli era stato da Betsabea: Miserere mei, Deus, secundum magnam misericordiam tuam.
[...] Dietro a quelle della basilica, le campane di tutte le chiese, dolenti o condolenti con lei, la madre, partecipi della stessa sventura, suonavano a rintocchi, a singulti - come per le esequie dei morti, e c'erano ben anche dei morti, senza esequie sepolti dentro la mota - e ben s'udiva la loro voce ora che sola era rimasta, ora che non più la coprivano le musiche dei tanti caffè, dei tanti cinematografi, né lo strepitar delle macchine, a migliaia ora lì, per quelle medesime strade e piazze, ferme, capovolte, schiacciate, l'una contro l'altra, l'una sopra l'altra ammucchiate10.
Anche nel disastro di Longarone non era mancato in qualche bollettino parrocchiale extradiocesano chi aveva maldestramente individuato anche nella catastrofe del Vajont il castigo di Dio per supposte manifestazioni pubbliche contro la Chiesa avvenute a Longarone durante il carnevale, forse riandando al duro intervento del parroco Larese nell'ultimo numero di «Campane nostre» dell'agosto 1963 31. In maniera più raffinata, qualcuno, come don Nilo Tiezza, uno dei sacerdoti più influenti della diocesi, definiva le vittime di Longarone vittime sì della giustizia divina per i peccati dell'uomo, ma vittime innocenti, come Cristo32.
Né era mancato nemmeno chi dava la colpa alla «cattiveria divina». Erano «coloro che non pensano mai o quasi mai a Dio; coloro che non GLI rendono mai il minimo doveroso onore; nelle disgrazie chiamano in causa Dio, imprecando e farneticando contro di LUI»33.
Ma erano voci isolate e stonate. L'inquadratura religiosa della tragedia del Vajont si scostò radicalmente da tali schemi. Non era infatti un evento puramente naturale suscitato da Dio per punire gli uomini, ma un evento della natura piuttosto procurato dagli uomini o quanto meno sfuggito dalle loro mani; e dunque «il dito di Dio» non c'entrava per nulla, se non per ammonire che le leggi della natura, in ultima istanza le sue leggi, andavano rispettate, pena il rivoltarsi della natura stessa contro l'uomo. La sua presenza non era peraltro esclusa, veniva anzi riconfermata, ma in termini profondamente diversi. Non era più la sua mano implacabile di giudice giusto e severo, sanzionatore dei misfatti dell'uomo, indignato per le sue colpe a causa delle quali scatenava contro di lui le forze della natura, frutto del suo sdegno, ma Dio veniva ora rappresentato come padre dolente e misericordioso, presente, compassionevole, sofferente almeno quanto i suoi figli colpiti, pronto a sostenerli con il conforto della fede e della sua immancabile pur misteriosa presenza redentrice.

L'entità della dimensione spirituale, la presenza divina nel naturale non venivano negate, ma recuperate in termini di amorosa presenza e partecipazione, assai utili soprattutto per la gestione del lutto nel quale le categorie del religioso tornavano ad assumere specifico ruolo e importanza. Il prendere coscienza, «nella carne e nel sangue», di quanto la natura potesse essere crudele, non poteva non porre subito domande di senso, alle quali la chiesa non mancava di dare le sue risposte, attingendo al tesoro sapienziale della sua tradizione e adattandolo concretamente all'episodio specifico e ai tempi nei quali era accaduto.

Il dolente messaggio di don Piero Bez, a pochi giorni dall'evento, è di segno opposto a quello dell'iracundia divina e denota sollecitudine pastorale, pietà e amorosa vigilanza. Ricorda piuttosto la misteriosa, compassionevole presenza di Dio sul calvario dell'uomo, alla cui sofferenza non è estraneo, della quale egli non è causa, ma piuttosto testimone, parimenti tribolato attraverso Cristo. Don Bez non minimizzava la realtà dell'accaduto, ma le dava immediatamente un senso: è una prova della vita, grave, straordinaria, pesante, immeritata, un colpo indelebile, una caduta dalla quale è necessario tuttavia rialzarsi, ritrovare fiducia in se stessi e nei propri fratelli. E ciòera possibile solo confidando nel Signore.

A noi, piccoli uomini, restano tre cose: la preghiera per i morti, la pietàper i superstiti, la fede per vedere, in tanto dolore, una scuola di redenzione, di amore, di speranza, di rinnovamento.
[...] Rialziamoci e procediamo avanti nel nome del Signore.
La ripresa sarà forzatamente lenta, ardua, faticosa, ma ci deve essere; loesigono l'avvenire dei vostri figli, la memoria dei nostri morti. Ed è possibile. E' possibile, perché Dio è con noi. Vicino a chi piange, vicino a chi soffre, vicino a chi si sente nel corpo e nello spirito, affaticato e stanco34.
Ed enumerava le prove della misteriosa presenza di Dio nella prova:
Dio ci fu vicino quando abbiamo dovuto sostenere l'urto di una realtà cosìtragica, che ancor oggi ci sembra impossibile. Dio ha dato la grazia di non impazzire dallo spavento a quanti di voi, quella notte, assistettero impotenti aliaspaventosa distruzione di ogni cosa. Dio ha sostenuto perché non cadesseroin preda alia clisperazione i can emigrant! accorsi, sgomenti, nei giomi seguenti la catastrole. Accorsi per vedere chi? che cosa? Più nessuno, piu nulla.Si Dio ci fu vicino. E lo e tuttora. In Lui, diletti parrocchiani, troveremo lospirito, la forza per una ripresa morale e materiale. Riuniti tutti,come fratelli,lasciamo da parte quanto contribuisce a dividerci, a metterci 1'uno contro 1'altro. La fede e l'amore per Dio e i fratelli siano il vincolo che ci unisce tutti esempre a dispetto di ogni egoismo, di ogni umana debolezza35.
Accanto a così elevate parole qualche bollettino parrocchiale, volendo aggiungervi del suo, tracciava la propria spicciola morale buona per tutti i giorni.
Io aggiungo - diceva il parroco di Santa Giustina - per noi tutti uno speciale invito a non lamentarci nelle piccole e grandi prove, a non fare gli egoisti e gli spensierati gaudenti, a ringraziare il Signore del dono della vita, a non abusare del nostro tempo, a sentirci realmente fratelli di coloro che soffrono e forse pagano anche per noi36.
Di fronte all'enormità dell'accaduto il richiamo a Dio suonavatalora più come un appello che una certezza: era il Mane nobiscumDomine quoniam advesperascit dei discepoli di Emmaus («Resta connoi, perché si fa sera»). «Signore aiutaci tu, perché a noi pare diimpazzire. Non ci rispondi Signore? Ci hai abbandonato anche tu?».
Ma era un appello che nell'assunto teologico e letterario deibuoni preti bellunesi non poteva restare senza risposta, una rispostabasata sulla fede e sulla speranza cristiana37.
Secondo loro, sul perché di tanta sofferenza e sul significato dadare al dolore, si scontravano subito due opposte opzioni, quella delmiscredente e quella del credente.
L'ateo e il miscredente rappresentavano il modello di chi non erain grado di dare un senso al dolore, alia sua presenza nella vicendaumana, a differenza del credente che tale senso sapeva invece cogliere, se pur con angoscia e incertezza, rendendo dunque il dolore nonsterile, ma fecondo38.
Questo concetto della «prova» nel pellegrinaggio della vita, veniva particolarmente approfondito da mons. Freschi, nel suo discorsoa Fortogna del 17 novembre ai membri delle varie organizzazionicaritative cattoliche lì convenute. Il dolore era per il presule friulanoun valore che nell'economia divina purificava e santificava, facevapensare che la vita era un pellegrinaggio fitto di prove e purificava leintenzioni dei nostri comportamenti e aveva come suo frutto concreto e solidale la carità. «Da queste zolle santificate dal dolore nonpuò che scaturire la nostra promessa di operare nella carità fino infondo»". Se grande era stata la sciagura, più grande era la fiamma dicarità che Cristo aveva ispirato.

L'ideologia cristiana del dolore cercava dunque di recuperare in positivo la dimensione della sofferenza dandole un senso attraverso continui processi ideali di finalizzazione nei quali i comportamenti oblativi, individuali e di gruppo, non erano fine a se stessi, ma venivano tolti dalla loro dinamica materiale e agganciati a un ideale provvidenziale e a una speranza di salvezza40.
L'assunto della «prova di vita» appare chiaramente nel primoMessaggio, nel complesso freddo e formale, di Muccin, all'indomanidella catastrofe, un messaggio attento più a riferire le parole dei grandi che a cogliere il dolore dei piccoli, assai distante dai toni fraterni, paterni e umani di don Bez, ma improntato alla speranza e alla necessità di andare avanti41. Nella successiva omelia durante la prima solenne messa funebre vespertina celebrata sulle rovine di Longarone la domenica del 12 ottobre, con analoghi toni, tipici del suo repertorio retorico, oggi alquanto obsoleto, egli esprimeva il concetto della sventura sia come «passaggio» a livelli più alti di virtù (e dunque inscindibile dalla fede), sia come occasione di fraterna solidarietà42. Com'era nella tradizione dei presuli friulani, molto attenti alla quotidiana pratica pastorale, anch'egli, come Freschi, ribadiva nei suoi innumerevoli interventi che uno dei frutti fondamentali del dolore cristiano era la carità che si estrinsecava in atti di bonta, di compassione e di comprensione. E tale concetto egli esprimeva efficacemente nella lettera pastorale della Quaresima del 1964 43. Ma accanto alle frasi di circostanza delle autorità civili e agli appelli moralistici di quelle religiose, amplificate dai mezzi di comunicazione, un autentico afflato religioso, espresso attraverso le categoric della disperazione, lo si coglie in questa «preghiera di un sopravvissuto», pubblicata con grande evidenza su vari giornali cattolici e bollettini parrocchiali, nella quale si contrapponeva la solitudine del dolore alla vacuita delle parole. E l'espressione più alta di una richiesta di senso cristiano apparsa e conservata in questo drammatico momento.

Mi aggiro fra le macerie delle case altrui e do una mano ai soldati. Me li sento quasi fratelli, taciturni e instancabili. Non mi fanno discorsi eloquenti, non hanno pronte le parole di incoraggiamento. Gli altri li detesto. Si vede che non hanno patito. Mandali a raccogliere cadaveri, Signore. Forse mi riporterebbero mia moglie e mio figlio. Ma non allarghino le nostre ferite con le parole cattive, con le loro facce di circostanza. Non ci insegnino a odiare. Ho bisogno di pensare ai miei morti. Dovro adattarmi a vivere di nuovo perché mi obbligano a difendermi, perché mi impongono i problemi, le responsabilità dei dirigenti, il governo? Vadano a dare una mano e rispettino i nostri morti. So che molti inviano aiuti, che siamo pensati come fratelli. Ne abbiamo tanto bisogno, perché non sappiamo da quale parte incominciare. Eppure eravamo gente attiva, anche allegra, o Signore. [...] Non so cosa fare, non so dove andare. Di notte piango, perché nessuno mi vede. Poi mi rigiro insonne. Mi pare che Fombra mi sballotti per ore e non riesco a difendermi e domando a Te di farmi morire. Ero un'animaccia, sapevo voler bene a mode mio. Ora non ho più nessuno da amare e questa e la pena più grossa che mi hai dato. Verrà qualcuno a insegnarci la strada? Potrò vivere di nuovo? Fammelo capire o Signore44.
Il momento unitario e supremo di tale dolore venne infine esaltato in un reperto iconografico di incontestabile efficacia: l'immagine lignea di Gesu crocifisso, mutilato e dunque nuovamente colpito, trovata mesi dopo tra i rottami di legname sotto le rive di Cima i Pra, raccolto «con amore e devotamente ripulito» da Giovanni Smaniotto di Polpet. Icona suprema della pietà e del ricordo, essa era destinata a rappresentare nelFimmaginario religioso dei sopravvissuti l'immagine più viva ed eloquente di Eongarone travolta e martoriata. Variamente utilizzato con discutibili varianti, anche in qualche fiction recente, questo religioso reperto rappresentava simbolicamente il dolore di tutte le famiglie in lutto e in esso venivano riuniti tutti i morti del Vajont, anch'essi poveri cristi senza colpa, sacrificati sull'altare dell'umana iniquita: ma, santificati dai dolore, anch'essi come Cristo sarebbero risorti45. Era insomma Cristo che si annullava e si faceva fratello tra i fratelli, che moriva quasi una seconda volta con i longaronesi. E questo concetto un pio sacerdote milanese lo esprimeva applicandolo addirittura al tabernacolo della parrocchia, sparito e mai più ritrovato, a Gesù eucaristia, dissoltosi anch'esso nelFimmane tragedia46.
Non so se continuando a frugare dentro la coltre di morte di Longarone, mani pietose potranno recuperare un giorno una pisside, una teca, forse pt- '""irnenti del «Pane» un giorno consacrato dai pastore scomparso, con la più parte dei suoi figli [...]. Ma se nulla troveranno più mai di te, che eri nel tabernacolo di Longarone, questo tuo sacramentale annientamento assurgerà alla grandezza del più sublime dei tuoi gradi d'amore: «Anch'io - mi pare di sentirti esclamare - quella notte mi son fatto polvere e maceria informe, mi sono lasciato annientare nell'acqua e nel fango per essere più vicino a loro, che in vita furono vicini a me, che ho amato, perché le loro anime le ho tutte vivificate della mia grazia»47.
Al contrario il simulacro mariano, parimenti tribolato, ma sostanzialmente integro, rinvenuto a Fossalta (di Piave, VE), religiosamente custodito in quella chiesa parrocchiale per sette mesi e poi solennemente riportato a Longarone il 24 maggio 1964, simboleggiava in positivo il ritorno alla salvezza. «Era come se dicesse: Sono stata con voi nei giorni sereni, ho sofferto e patito, ritorno sola, ma ritorno per infondervi la forza di riprendere a vivere»48.
All'ombra di Maria, che al posto dell'umile e sofferente suo Figlio veniva adornata di «maschie» virtù, Longarone poteva e doveva risorgere. Era questo l'inconscio significato antropologico della solenne festa del ritorno di Maria, un'icona che, nella distinzione di genere operata dalla scuola sociologica illichiana, assumeva nella tradizione devozionale della montagna il ruolo maschile del «salvatore»: vergine potente, porto di salute, torre d'avorio, dimora preziosa come l'oro, garante dell'alleanza con Dio, consolatrice degli afflitti», come recitavano le litanie lauretane, ma altresì «ancora di salvezza, faro di luce, sacro lavacro di ogni peccato, illuminatrice delle coscienze, severo richiamo contro le tentazioni, regolatore supremo dell'equilibrio fisico e psichico della persona», come declamava il preside-poeta della Scuola media di Longarone all'epoca del Vajont, Bortolo Mastel49. Madre e serva, sì, ma anche padrona, dall'animo immenso e dal cuore generoso, caratteri che in altri contesti devozionali erano stati parimenti attribuiti a Cristo50.

5. LA DIMENSIONE DEL CONPORTO RELIGIOSO

Fu espressa nel rito, nella preghiera, nella parola, nell'impegno di solidarietà sociale e di aiuto materiale, nella percezione della presenza del mistico Corpo di Cristo nel quale ciascun fedele provato dalla sciagura avvertiva la vicinanza del divino e quella dei fratelli, persino nel rituale drammatico della ricerca e idenrificazione delle saime, per avere almeno un corpo da piangere e da visitare.

La ricerca e la identificazione delle salme sui posti di raccolta è stata la principale occupazione dei superstiti nei primi mesi successivi al disastro. Il ritrovamento dei propri cari, la soddisfazione di collocarli in un posto dove poterli ancora «incontrare» (cimitero delle vittime a Fortogna o altri cimiteri), il far celebrare la messa come per un funerale (che non ci fu per nessuno, cosa impossibile dato il numero) fu il primo conforto per i superstiti e sostegno nel dolore51. I superstiti di Longarone e dei paesi limitrofi colpiti dal disastro sono stati presenti nella mente e nel cuore delle comunità parrocchiali della diocesi, sull'esempio del suo vescovo. Basta leggere i bollettini che hanno parlato dell'evento anche dopo mesi. Ma anche nelle liturgie domenicali, nelle omelie furono ricordati con sentità partecipazione, sia i morti che i superstiti52.
Il corpo ritrovato e onorato con la sepoltura veniva percepito come una residua «presenza», anzi una presenza viva, non più nel corpo sociale, ma nel corpo mistico della chiesa, dotata di una propria azione redentrice contro la disperazione53. Qualche parrocchia scoprì e adattò alla bisogna antiche preci, utilizzate in precedenti catastrofi, come quella accaduta il 29 agosto i 1890 in Val Zoldana. «Dio di misericordia odi la solenne mesta preghiera che ti porgiamo rammentando i poveri martiri della funestissima notte che, oggi un mese, recò la estrema desolazione fra le rupi abitate dai nostri fratelli e, accolte nella tua gloria le anime degli estinti, conforta la rassegnazione di quelli che vi sopravvivon»54.
Il senso e il valore del conforto religioso attraverso il rito, apparvero chiari sin dall'inizio, nelle parole del vescovo. «Fu assolto al dolce obbligo del suffragio per i defunti nella forma più larga, e questa pietà fu particolarmente apprezzata, sentità e seguita dai superstiti; è l'atto che li ha maggiormente confortati. Molti ci dicevano: pregate per i nostri morti: pregate per noi: non domandiamo altro»55. E su cotal genere di conforto, egli si diffondeva in maniera più particolareggiata nell'occasione del secondo anniversario del Vajont.
La fede nella quale fummo educati fuga le tenebre che si addensano nel mistero della morte, e splende dentro di noi con l'incanto e il fulgore intenso delle verità più certe e più consolanti. I morti nostri la possedettero tutti e ne ebbero consolazione in vita e in morte. Essi ci invitano a serbarla, ad accrescerla, ad onoraria con la condotta modellata sul loro esempio, sorretta dalle loro preghiere. La comunione dei santi ci assicura che tra noi e loro non v'è solo la «corrispondenza d'amorosi sensi» ma uno scambio vitale di aiuti per il conseguimento di un comune destino immortale. Noi qui abbiamo recato un dono ai morti, e ne usciamo arricchiti di un dono più grande: il loro dono56!
Anche un'umile crocerossina, Laura Bez, pur in toni dimessi e semplici, non mancava di rilevare l'importanza dell'azione consolatoria umana e cristiana, un'opera che si era rivelata di forte sostegno non solo per i sopravvissuti, ma per gli stessi loro soccorritori57. Ma anche la solidarietà sociale ebbe pari peso e importanza, così come l'impegno di tutti a superare insieme i primi momenti. Questo impegno li ha in una certa misura sottratti al pensare a sè stessi, alla propria condizione di superstiti rimasti spesso privi di tutto e di tutti. Non raramente qualcuno poteva dire «Non ho più nessuno». Non ho riscontrato (ciò che sinceramente temevo) casi di disperazione o peggio. Li ha salvati, a mio parere, la constatazione che si stava vivendo un fatto comune a tanti altri. Un singolo lutto familiare può essere più doloroso di una catastrofe in cui tutti sono egualmente coinvolti. Li ha sostenuti successivamente la solidarietà morale e materiale avuta a tutti i livelli, dalle istituzioni a persone comuni e sconosciute di ogni parte d'Italia e anche oltre58. 6. LE FORME DI AIUTO PRESTATO AI SUPERSTITI ATTRAVERSO L'ORGANIZZAZIONE DIOCESANA E PARROCCHIALE

L'assistenza materiale da parte della Chiesa si svolse essenzialmente attraverso: la POA che allestì a Safforze un centro di ricovero; l'Opera diocesana di assistenza di Belluno che metteva a disposizione soprattutto capi di vestiario, coperte e generi di prima necessità, servendosi dei parroci locali; la raccolta di offerte nelle chiese, subito utilizzate per bisogni urgenti o inviate alla Curia e infine attraverso la diretta presenza del vescovo che elargiva personalmente buste in denaro ai sinistrati. Quello che colpisce è la precisione con cui Muccin teneva nota, alla lira, degli aiuti che gli giungevano da ogni parte d'Italia e del mondo, da organizzazioni cattoliche, dai vari gradi della gerarchia, dagli organi di stampa, dalle parrocchie.

Solo una piccolissima parte di queste somme furono destinate alla celebrazione di sante messe e all'acquisto di vasi e paramenti sacri nelle chiese distrutte. Lo stesso Paolo VI donò, attraverso l'Opera del clero, arredi e paramenti liturgici ad alcune parrocchie. Gli aiuti della Chiesa si concentrarono nell'immediata distribuzione di indumenti, coperte, alimenti ai sopravissuti e di denaro, frutto delle sottoscrizioni pervenute da ogni dove alla chiesa bellunese e che ammontarono a oltre 147 milioni di lire. L'onorevole Achille Lauro donò l'asilo infantile e cospicuo fu pure l'aiuto del vescovo per riaprire la sede delle ACLI e la scuola «di apprendimento professionale». Aiuti diretti furono pure dati alle altre parrocchie danneggiate in varia misura, come Codissago, Castellavazzo, Fortogna, Igne, Podenzoi e Borgo Piave59.
I vantaggi derivanti alla diocesi di Belluno dalle pubbliche e private offerte furono indubbi e andarono ben oltre la diretta opera di assistenza ai terremotati. Come accade in questi casi, fornirono ample opportunità per ultimare imprese edilizie già iniziate, fuori di Longarone e varie furono le opere ecclesiastiche nate o potenziate grazie alla solidarietà per le vittime. «Senza rossore» il vescovo così le elencava alla Santa Sede: il centro Papa Giovanni XXIII e la mensa studenti a Belluno, la colonia marina a Forte Radaelli, vicino al Cavallino, la sistemazione di chiese e canoniche di parrocchie bisognose60.

Strutture religiose costruite fuori di Longarone e parzialmente finanziate con i contributi del Vajont furono una chiesetta in memoria delle vittime a Podenzoi e la nuova chiesa parrocchiale di Polpet, in quanto nel territorio della parrocchia sarebbe sorto il villaggio «Nuova Erto» per i superstiti di Erto e Casso61. In relazione a queste esigenze di denaro, il presidente diocesano della POA, don Aldo Belli, solo dieci giorni dopo la catastrofe, scriveva ai parroci, invitandoli a frenare la distribuzione del denaro raccolto, frutto delle offerte dei fedeli e di inviarlo sollecitamente in Curia. Potevano invece continuare nella distribuzione degli indumenti di cui l'organizzazione pontificia largamente disponeva62.

Non va infine sottovalutata l'imponente opera di informazione che sia a Longarone, attraverso l'omonimo bollettino parrocchiale, sia in provincia attraverso «L'Amico del Popolo» fu messa in opera sotto ogni profilo, giuridico, legale e assistenziale. Soprattutto il settimanale interdiocesano in un'apposita settimanale rubrica denominata «Notiziario del Vajont» fornì per oltre un anno ogni sorta di documentazione e spiegazione del complesso iter burocratico di ricostruzione che lo Stato metteva in essere.

7. IL VESCOVO MUCCIN E IL VAJONT

Sul problema delle calamità naturali Gioacchino Muccin dovette cimentarsi fin dall'indomani del suo episcopate bellunese63. Ma erano eventi lontani: sinistrati del Salernitano (1954), alluvionati del Polesine (1951) e del Piemonte (1968); terremotati del meridione (1962). Il disastro del Vajont, la valanga di Mattmark nel 1965 e l'alluvione del 1966 colpivano invece il territorio a lui in spiritualibus affidato.
L'interesse umano e pastorale del vescovo in quel tragico momento del 1963 è fuori discussione, così come la successiva puntuale presenza sua in tutte le circostanze e cerimonie di anniversario. Nella vicenda del Vajont egli seppe, con sapienza di cuore e abilità di mente, toccare tutti i tasti dell'umana commozione a edificazione dei fedeli: dal ricordo dei defunti, al dolore dei parenti e dei superstiti; dagli innumerevoli episodi di bontà alla tempestività del soccorsi; dalla solidarietà delle forze militari e degli enti pubblici a quella dei privati (e in particolare della chiesa); dalla necessità di ricostruire, di restare uniti, di dimenticare e di perdonare a quella infine di chiedere giustizia. Se c'è una nota che figura come la «cenerentola» in quest'ampia tastiera è proprio l'urgente richiesta di giustizia. Il vescovo infatti enunciava come al solito il principio generale.

Debbo dichiarare che faccio mie le attese e le esigenze delle popolazioni colpite dalla catastrofe, sia per quanto riguarda l'accertamento delle cause e delle eventuali responsabilità che l'hanno determinata, sia per quanto concerne il risarcimento dei danni sofferti dai sinistrati. Auspico quindi che le indagini scientifiche e le inchieste governative, politiche, giudiziarie, facciano piena luce sulTl'evento funesto; auspico che lo strumento di legge che si sta elaborando per la rinascita di Longarone, si fondi sull'inoppugnabile realtà che la sciagura non può essere considerata alla stregua di una mera calamità naturale, determinata dalla frana del monte Toc64.
Già all'indomani dell'evento, non disconosceva, anzi sollecitava una legislazione speciale per il Vajont, in maniera peraltro pressoché rituale e paternalistica, senza particolari fremiti che inducessero alPazione e alla pressione politica, dandola come cosa doverosa da parte delle forze politiche nelle quali sperare fidenti, come un figlio spera nel proprio padre65. Ma passava poi a una serie ampia di «distinguo», denunciando gli «inquinamenti» e la strumentalizzazione politica della vicenda.
Trattasi di interpretazioni, insinuazioni, giudizi emersi dagli scritti, che furono molti, e dalle scritte, che furono cubitali, e dalle voci che furono innumerevoli e che in varia misura toccano la sfera del sentire cristiano e la coscienza del credente. Sarebbe cosa contraria al vero l'affermare che tali giudizi e voci esprimano la mente dei più o dei molti; talvolta non esprimono neppure la mente dei pochi; però vengono artificiosamente propagandati come fossero la mente di tutti66.
I sintomi di questa operazione, portata avanti da «elementi estranei interessati a imprimere un determinato sviluppo a una vicenda dai risvolti emotivi e passionali ben credibili», erano, ad avviso del vescovo, i seguenti: la generalizzazione delle colpe individuali, la condanna delle colpe da addebitare alle istituzioni, Peccitazione strumentale del popolo verso inconcludenti e pericolose forme di protesta, il dileggio della cristiana virtù della carità e dell'amore del prossimo, la diffidenza verso la Chiesa, «il bersaglio di sempre»67.
Sulla base di queste affermazioni il vescovo, e con lui la stampa cattolica locale, con affermazioni persino più radicali e sdegnate, denunciava «l'azione di elementi sospetti, intesi a stravolgere l'evolversi ineffabile di sofferenza, conseguente, alla tragedia del Vajont». La conclusione, grave alla luce della storia per la banalità delle motivazioni e per la sostanziale indifferenza al problema delle responsabilità penali e politiche, era che in fondo l'intera vicenda domandava soltanto «comprensione, affetto e rispetto»68. Alcuni parroci parlarono dai loro bollettini di un vero e proprio sciacallaggio, di un'offesa sanguinosa alla memoria dei morti. Particolarmente virulento fu il parroco di Cadola don Giacomo Viezzer nel denunciare la presenza e l'attività sediziosa di persone estranee a Longarone, venute a seminar zizzania, lupi rapaci in veste di agnelli, con ovvio riferimento ai comunisti e a Tina Merlin.
Costoro non erano venuti né per raccogliere un cadavere, né per soccorrere un superstite o a portare una parola di conforto. Tutti lo sappiamo, e in parte compiangiamo cotali uomini, sempre lesti a pescare nel torbido. Sono senza Dio, senza patria e senza umanità. Spietati come la dottrina di cui sono imbevuti, astuti come i metodi che hanno appreso, pronti alla violenza, all'inganno, alla falsità, al tradimento di tutto e di tutti pur di raggiungere lo scopo oscuro di una ideologia inumana, anzi diabolica69.
In Gioacchino Muccin, uomo d'ordine e pastore tradizionalista, questa indubbia sua scarsa forza di gridare giustizia di fronte a eventi di natura «pubblica» e politica, si contrapponeva alla capacità di scendere e di scavare nel «privato», di giustificare con cristiana sapienza gli avvenimenti alla luce della fede. E nella circostanza della tragedia di Longarone egli ne diede ampia dimostrazione, affinando una sensibilità pastorale che diede il meglio di se negli anni successivi, con la tragedia di Mattmark e l'alluvione. Seppe esprimere soprattutto in queste circostanze una dolcezza di espressioni e di sentimenti, una maturità e una sensibilità prima sconosciute, o più letterarie che vissute70. Nel 1965, a Mattmark, in Svizzera, morivano sotto una valanga 16 emigranti bellunesi:
Vorremmo poter stringere al nostro cuore i dolenti e confortarli mescolando con le loro le nostre lacrime e il nostro pianto; confortarli con la virtù della fede provata ma non spenta da tante avversita; confortarli con gli affetti puri della fraternità e della benevolenza, con il sospiro confidente e più rasserenante della preghiera71.
E anche nell'alluvione del 1966 i sentimenti di pietà e di dolore, pur espressi nel consueto suo retorico stile, celano un autentico spirito di paternità.
I lutti, i danni, i disagi provocati dall'alluvione; la visione impressionante delle rovine e delle distruzioni; le sofferenze delle popolazioni riempiono di amarezza il nostro cuore. Il dolore e l'amore stringono i vincoli della nostra fraternità e della nostra solidarietà; siamo più che mai uniti; più che mai decisi a portare insieme il peso della sventura, ed aiutarci vicendevolmente, a spendere la nostra vita uno per tutti, tutti per uno. Come del resto avviene in questo drammatico frangente dalle autorità ai cittadini d'ogni grado e condizione. Se la carne è inferma lo spirito è pronto; l'animo è forte perché forte è la fede che ci sorregge: Dio è il nostro rifugio, la nostra fortezza e la nostra speranza. A lui leviamo umili e fidenti la preghiera per i vivi e per i morti. Tra loro ci sono, come sapete, Luca Scola e Sergio Scola, entrambi di dodici anni, ed Eleonora Sperandio di otto, di Falcade Alto. La frana improvvisa li ha rapiti e travolti con i loro cari, con la rustica antica casetta dal tetto di scandole, con i libri di scuola tra le mani. Il loro corpo martoriato è sceso nella terra negra e bagnata del piccolo alpestre camposanto, su cui la neve è già cominciata a scendere e ne coprirà i tumuli freschi vegliati dalla croce; ma le anime loro sono nella luce di Dio. Miei diocesani, fratelli e figli dilettissimi, permettete che il vostro vescovo vi dica che oggi ancor più che in passato vi sente «gaudio e corona» del suo cuore72.
Vi fu dunque in Muccin un misterioso e fecondo percorso che in qualche modo drammaticamente e faticosamente rese viva e convinta una dimensione pastorale già presente nelle sue intenzioni sin dal momento della nomina a vescovo e che le succitate tristi circostanze maturarono ed espressero più negli atti concreti che nello stile di relazione, sempre contenuto e controllato73. Non tanto nei contatti con la gente, che egli viveva con sofferenza, imbarazzo e riserbo, ma negli scritti - pur farraginosi - e nelle pubbliche funzioni ecclesiastiche, egli sapeva trasmettere sentimenti autentici di religione, incitando i sacerdoti a fare altrettanto, conscio che attraverso di essa si affermava misteriosamente negli animi quella serenità e quella pace che il mondo non poteva dare, ma che dava solo Cristo: Pacem relinquo vobis, pacem meam do vobis: non quomodo mundus dat ego do vobis. Non turbetur cor vestrum neque formidet (Ioh. 14, 27). Soprattutto la sottolineatura del legame fra i vivi e i morti rappresenta il punto più alto del suo magistero, nobilmente espresso a Fortogna nel secondo anniversario del Vajont e fondato sull'assunto che tutti i travagli umani si trasfigurano nel contatto con la fede. «La comunione dei Santi ci assicura che tra noi e loro non v'e solo la «corrispondenza d'amorosi sensi» ma uno scambio vitale di aiuti per il conseguimento di un comune destino immortale»74.

Le pubbliche attestazioni non gli mancarono: dal conferimento del titolo di assistente al soglio pontificio a quello di cavaliere della Repubblica, dal dono di una medaglia d'oro nel 1972, alla finale tumulazione, in apposita distinta tomba, nel nuovo cimitero di Fortogna, nel discusso adempimento di un desiderio solo verbalmente espresso in vita, ma che attestava l'anelito suo all'attesa della resurrezione non nei sotterranei della cattedrale di Belluno, abbelliti da esteriori funebri orpelli, accanto ai suoi predecessori e magari a qualche suo successore, ma vicino «all'umile popolo» dei martiri del Vajont.
Le motivazioni della medaglia d'oro - deliberata nella seduta consiliare del 1° giugno 1971 e comunicatagli, a oltre un anno di distanza, il 5 novembre 1972 - riguardavano essenzialmente la sua opera di presenza a Longarone e di vicinanza alle popolazioni. La dedica ufficiale del solenne riconoscimento così recitava: «Sempre vicino ai superstiti, ne ha condiviso per lunghi anni le sofferenze e le speranze, contribuendo con la Sua costante presenza, la Sua parola e il Suo aiuto a rendere più facile il cammino verso la rinascita spirituale e materiale di Longarone»75.

8. ASPETTI PASTORALI DELL'AZIONE SACERDOTALE DI DON PIERO BEZ

La dimensione pastorale di don Piero Bez non presenta nulla di eccezionale e di eroico, se non nelle circostanze e nei mezzi a sua disposizione. Appare evidente fin dall'inizio che la sua azione, mutatis mutandis, andava nella medesima direzione di quella dell'autorevole don Larese: liturgia, accoglienza, sforzo di ridare alla comunità religiosa un minimo di coesione, di continuità e di identità dopo quanto era accaduto. Nei primi anni prevale ancora il vecchio impianto preconciliare, basato più sulla gestione dei sacramenti che sull'annuncio della parola76.
Ma nulla era più uguale, nulla poteva ripetersi. I medesimi atti e riti, la stessa amorevole presenza del sacerdote assumevano ora risvolti e connotazioni inedite e diverse. Nella primo affannoso ripristino delle funzioni parrocchiali don Bez si fece aiutare molto dai giovani, in un clima di febbrile attività non disgiunta da tristezza.

Il primo impegno fu quello di organizzare l'ufficio parrocchiale come recapito per accogliere i superstiti; era vicino al municipio. Alcuni giovani mi aiutarono a smistare la mole di indumenti che cominciarono ad arrivare da ogni parte e distribuirii a chi ne richiedesse. Ricordo che il lutto nei primi tempi era sentito a livello personale, familiare e comunitario quasi come un habitus che non ci permetteva di ridere, scherzare, o cantare. Nell'ufficio con i giovani la radio veniva usata solo per i giornali radio, mai per sentire musica. Sempre i giovani battevano a macchina le risposte che io dettavo loro alle numerose lettere di condoglianze, di solidarietà, molte contenenti offerte, richieste di informazioni sulla situazione, proposte di adozione di orfani o di disponibilita ad accogliere temporaneamente qualche superstite, offerte di lavoro, eec.77.
Gli stessi incontri con i parrocchiani, in mancanza di strutture, avvenivano prima e dopo le funzioni, e i giovani si incontravano nell'unico stanzone che fungeva da ufficio e magazzino; ma gradualmente le varie attività parrocchiali iniziarono a rifiorire. La pastorale parrocchiale entro nella «normalità » (si fa per dire) dopo un anno dal disastro. Furono ripresi gli incontri di Azione cattolica, della Conferenza di S. Vincenzo, più tardi della «Misericodia», associata alle «Misericordie» d'Italia toscane che ci dotarono di una autoambulanza. Venne ricostituita la Schola cantorum. Nacque nel tempo il «Gruppo assistenza malati degenti in ospedale», forse la prima esperienza del genere in Diocesi. Ha avuto un forte impatto sulla comunità l'iniziativa della giornata del volontariato che ha coinvolto tutto l'associazionismo operante in paese, cattolico e non, le associazioni sportive e del tempo libero e anche l'amministrazione comunale. I rappresentanti delle associazioni e dei gruppi, preceduti dal cartello con il loro nome, parteciparono ad una sfilata per il paese portandosi poi in chiesa per la Messa, dopo aver deposto davanti all'altare il cartello. Alla fine tutti hanno ricevuto un ricordo dell'evento coniato appositamente per l'occasione. Lo scopo dell'iniziativa, che fu ripetuta ogni anno sia pure con modalità diverse, intendeva dar risalto alla vitalità della nuova comunità che si era venuta formando dopo il disastro, dare un esplicito riconoscimento a quanti operavano nel volontariato e invitare tutti a contribuire al bene comune. Più avanti negli anni, sono stati organizzati gite e pellegrinaggi a vari santuari.

Memorabile quello a Lourdes con la partecipazione di oltre 40 parrocchiani, offerto da «Pellegrinaggi paolini» di Milano. Con la gioventù sono stati organizzati parecchi «campeggi» estivi in strutture di proprietà del Comune. Molto sentità e partecipata la marcia con fiaccolata negli anniversari del 9 ottobre. La prima (ottobre 1964) con partenza dalla diga e arrivo alla chiesa parrocchiale, la seconda, l'anno seguente, dal cimitero delle vittime di Fortogna con arrivo a Longarone. Il percorso, naturalmente a piedi, era sostanziato da preghiere, momenti di riflessione preparati dai superstiti con riferimenti alla tragica esperienza vissuta, e canti religiosi. Le varie attività ed iniziative, oltre al significato che avevano per sè stesse, servivano a togliere le persone dall'isolamento, dal silenzio che ti portava immancabilmente a pensare ai morti, al futuro incerto, e per infondere fiducia e speranza nella ripresa di una vita più normale78.
Ebbe presto anche un coadiutore, dapprima presente solo il sabato e la domenica e dal 1969 cooperatore stabile. Risiedeva presso la canonica di Castellavazzo, poiché il prefabbricato in legno della canonica di Longarone non era sufficiente a ospitare due preti. Importante fu pure l'arrivo di una nuova comunità di suore, sempre della stessa congregazione delle Piccole suore della Sacra Famiglia, nel contempo educatrici presso la scuola materna e animatrici religiose nella parrocchia. Il dato interessante sullo stile pastorale di questo prete, quale emerge dagli scritti, fu quello di andare all'essenziale, senza i toni curiali, i fronzoli e i voli retorici del suo superiore, il sapersi fermare al momento giusto, non dire quella parola in più che fa scadere il sublime e lo rende banale, come appariva spesso negli scritti sul Vajont di tanti suoi confratelli, retorici, vacui, enfatici e moralisti.

Il suo ministero apparve fondato sin dall'inizio sull'esigenza dell'unione e della fraternità degli spiriti e degli ideali. Oggi 1.800 dei nostri cari non rispondono più all'appello... non rispondono più, ma sono presenti, unitamente a tutti i caduti delle guerre; essi ci sono in questo momento presenti con il loro spirito che sopravvIVe allo sfacelo della morte; e ci parlano. Credo di non sbagliare interpretando la loro voce: Longarone, sìi, per la nostra memoria, per i nostri sacrifici, per la nostra morte, Longarone dovete farlo risorgere! [...] Anzitutto quello che a noi oggi necessità è l'unione fraterna degli animi. [...] Lasciamo da parte tutto ciò che contribuisce a dividerci, a metterci l'un contro l'altro, e viviamo veramente come fratelli, sapendoci sacrificare l'uno per l'altro. La fede e l'amore per Dio e per i fratelli siano il vin 277 GIANMARIO DAL MOLIN colo che ci unisce tutti sempre, a dispetto di ogni egoismo, di ogni umana debolezza79. Nel lavoro di parroco di don Bez non vi era nulla di ripetitivo rispetto alle azioni anche sociali della pubblica amministrazione, nessuna emulazione, nessuna contrapposizione, come pare fosse successo più tardi, nessuna confusione dei ruoli.
Le '\f'5" "oni ed enti van hanno puntato più su segni esteriori di impatto visn ^ J, irattere sociale, culturale e di aiuti concreti ai superstiti, come le case popolari del «Corriere della Sera», la scuola professionale ENAIP, eec. La parrocchia ha privilegiato i valori religiosi e la formazione delle coscienze: preghiera di suffragio, invito ad onorare la memoria dei defunti con la vita individuale improntata ad onestà e al senso della solidarietà80. Non contrapposta alla visione del Muccin, ma distinta, per stile, contenuti e per lo stesso diverso ruolo ministeriale ricoperto, appare dunque la posizione di don Piero Bez, con la sua discreta, ma costante presenza quotidiana nei momenti drammatici successivi all'evento e nei primi anni difficili della ricostruzione. «Mi sono proposto di agire in umiltà, atteggiamento che mi è congeniale - almeno credo - ritenendomi a servizio della comunità pur nei ruolo di guida e principale responsabile, senza imporre la mia visione della realtà e accettando, anzi stimolando il dibattito, il confronto»81.
Prete vicino alla gente e alle sue istanze non esitò a prendere le difese dei Longaronesi per scongiurare il pericolo di una rifondazione di Longarone in una località diversa, magari sotto Ponte nelle Alpi o nella Val Belluna, scontrandosi in qualche modo col suo stesso vescovo, a cui peraltro lo univa un rapporto di stima e di ubbidienza82.

Verso la fine del 1963 si diffuse la voce che a Roma era stata presa la decisione di trasferire altrove la nuova Longarone, trasformando l'attuale pietraia lasciata dal disastro, dove esisteva Longarone, in un parco-giardino alla memoria. Dopo aver espresso alle autorità il nostro dissenso, fu presa la decisione di ricorrere ad una protesta forte operando sulla statale di Alemagna dei blocchi stradali che durarono un'intera notte e parte del giorno successivo (se ben ricordo!). La cosa è stata disapprovata dal vescovo come «illegale» e pertanto inammissibile specialmente da parte della comunità cristiana. Per lui la legge e l'autorità costituita erano «sacre», e quindi inviolabili. Noi lo vedevamo come mezzo estremo per far valere i nostri diritti a decidere dove stare [...]. Qualche diversità di vedute è esistita anche nella valutazione delle responsabilità circa il disastro. La cosa comunque non lasciò strascichi nei rapporti successivi col vescovo83. Nella sua opera pastorale egli antepose sempre gli interessi generali della comunità addirittura a quelli della parrocchia, quando questi non coincidevano, come nei caso della costruzione di una struttura sociale per la quale la «Caritas» svizzera aveva già destinato un'offerta di 70 milioni di lire e che non fu possibile attuare, avendo il Comune negato la disponibilità del terreno; o della costruzione di una grande croce sullo Spiz di Gallina, tra Provagna e Sovérzene84.

Persino sul problema della nuova chiesa la parrocchia non venne ascoltata. Essa fu l'unica istituzione che promosse un referendum popolare sul progetto della chiesa da ricostruire, proposto dallo Stato. «La popolazione rispose «no», nella fiducia che fosse possibile un'altra soluzione meno dispendiosa e più funzionale. Non solo non si ricostruì niente, ma ora [1973] se si vuole una chiesa per il paese si deve accettare quel primo progetto senza modifiche»85. E non fu possibile realizzare, per indisponibilità di spazi, nemmeno un campo giochi per bambini, vicino alla chiesa. Fu soprattutto con l'esempio e la condivisone dei problemi, con l'invito a stare sempre uniti non disdegnando il sacrificio, che don Bez educò una schiera di ragazzi a divenire uomini responsabili e protagonisti della vita comunitaria, infondendo speranza e serenità. E fu questo il più alto titolo di merito che la comunità gli riconobbe ufficialmente conferendogli il «Premio Longarone» nella terza edizione del 2004. In quei tempi difficili, ci ha aiutato ad accettare tutto quanto era accaduto e quindi a vivere il più serenamente possibile la nostra giovinezza guardando con fiducia al futuro. Anche quando vedemmo sorgere un paese diverso da quello che ci aspettavamo, troppo diverso d