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LA MEMORIA OFFESAI parenti delle vittime chiedono di scavare nelle zone in cui potrebbero trovarsi i resti dei loro cari.Ma un giorno, su di un'area che l'Unesco vorrebbe dichiarare "parco della memoria" e che una perizia geologica giudica a rischio di frana, spunta un salumificio Prima di quel dannato 9 ottobre, vicino al greto del torrente Maè, i bambini della zona avevano il loro campetto di calcio. Qui venivano a giocare le partite ufficiali le squadrette locali, qui venivano tutti i giorni, dopo la scuola, i ragazzini per dare sfogo alla loro vitalità. Era un bel prato che partiva dalle sponde del Maè per poi salire delicatamente verso la frazione Pirago di Longarone di cui, dal basso, si distingueva nettamente il campanile. Doveva essere bello essere bambini in questo posto. Chissà quante avventure, vere o immaginarie, si svolsero in quello straordinario parco giochi naturale. Chissà quanti bambini giocarono a nascondino dietro le colonne portanti del ponte della ferrovia, mentre lì sopra passava il treno che portava a Cortina d'Ampezzo correndo lungo le sponde del Piave. La grande onda che spazzò via Pirago ha trasformato quel campetto di calcio in un cumulo di detriti, anzi in una montagna di detriti che sale impervia da entrambe le sponde del torrente che, quella notte soltanto, si gonfiò di acqua come un fiume vero prima di confluire nel Piave. In mezzo a quella montagna di detriti c'è ciò che resta di pareti di cemento, travi portanti, lamiere contorte, cavi della luce e del gas, letti, armadi, cucine, utensili, giocattoli. In mezzo a quella montagna di detriti c'è la gente che abitava dentro quelle case, i morti di Longarone e Pirago mai ritrovati. Là dove prima c'era il campetto di calcio, ora c'è il loro cimitero, senza croci e fiori. L'OSSO DI ARMANDO Non è difficile, ma bisogna conoscere la strada, per arrivare oggi al greto del Maè. Si deve passare sotto il ponte della ferrovia che un tempo arrivava fino a Cortina. «Questo è un muro portante di casa mia» ci dice Armando Fontanella con voce tremolante mentre scendiamo per arrivare al torrente. Armando ancora spera, un giorno, di ritrovare il corpo del nipotino, figlio di sua sorella, morta anche lei nella disgrazia. Sarà per questo, più che per pescare qualche trota, che quando può risale lungo il Maè.
Non sa neanche lui che cosa spera di trovare, ma il 14 maggio 2000 quasi gli viene a mancare il fiato. Proprio in quel luogo che per lui è oramai un sacrario vede spuntare un osso. Non gli sembra di un animale e per questo lo porta immediatamente al pronto soccorso dove un medico gli conferma che potrebbe trattarsi dell'omero di un bambino di dodici-tredici anni. Armando è contento. Spera di poter dare degna sepoltura a quello che resta del suo nipotino, a fianco della sua mamma che già riposa nel cimitero di Fortogna, e spera anche che con questo ritrovamento si faccia finalmente quello che secondo lui andava fatto da tempo: avviare gli scavi di ricerca sulle sponde del Maè.
Ma passa il tempo e nessuno fa sapere più nulla ad Armando.
Nessuno si preoccupa di comunicargli il responso del patologo, se non altro per sedare quell'agitazione che gli ha preso dal giorno del ritrovamento. Dopo
qualche mese è allora lui a farsi avanti, a chiedere notizie. Gli viene detto che il suo osso è stato gettato via in quanto, secondo il patologo, si trattava dell'arto di un animale. Forse un cane o una vacca. Armando passa dalla delusione al sospetto: «Mi sembra impossibile. Io potrei anche essermi sbagliato, ma il medico del pronto soccorso? Possibile che abbia preso
un tale svarione? D'altra parte a Longarone lo sanno tutti che qui ci sono i morti del Vajont. La mattina dopo la tragedia avevo diciannove anni, sono subito venuto qui per cercare di recuperare i miei morti. C'erano anche i militari dell'esercito, bravi ragazzi costretti a fare i becchini. Lo strazio era tanto anche per loro. Mi hanno suggerito di andarmene, di chiudere gli occhi e di non guardare. Hanno cominciato a buttare palate di terra e ad accumulare detriti su
detriti. Allora c'era un'altra grossa preoccupazione: impedire il diffondersi di epidemie. LA CORRIERA FANTASMA
«Non riesco a darmi pace».
«Perchè - chiediamo al sindaco - non si è mai scavato sugli argini del Maè? Perchè non usare a questo scopo parte di quei 77 miliardi appena ottenuti per la transazione con l'Enel?». De Cesero ha tanti progetti con quei soldi (vedi intervista p. 24). Non esclude che la richiesta dei suoi concittadini possa finalmente essere soddisfatta. È giovane, al tempo della disgrazia non era ancora nato, ma anche la sua famiglia ha dei morti da piangere. Ci mostra la fotografia di un cuginetto che non ha mai visto. Sembra che dorma, ma è sporco di fango. Fu attraverso quella foto che i suoi parenti diedero un nome a quel corpicino ritrovato lungo il Piave. Qualche giorno dopo la nostra visita lungo il Maè succede qualcosa di strano. La mattina di sabato 20 aprile, sotto una pioggia scrosciante, arriva sul greto del torrente una ruspa scortata dai militari. «Alla prefettura di Belluno - ci racconta al telefono Fabiano Filippin, giornalista di quotidiani locali che da anni segue le vicende legate al dopo Vajont - ci hanno detto che è arrivata la segnalazione che due testimoni avrebbero visto, otto mesi dopo il disastro, i resti di un automezzo. Stavano lavorando sul greto del torrente per consolidare il ponte della ferrovia danneggiato dall'onda quando, con la benna di un escavatore, agganciarono una corriera. Aprirono lo sportello e furono investiti da un forte odore di corpi in decomposizione. Per ordine del loro capo squadra tutto venne nuovamente risepolto, forse per paura che i lavori che stavano eseguendo venissero sospesi, o forse perchè stavano scavando al di fuori dall'area di loro competenza. La mattina in cui sono arrivate le ruspe, per ordine della procura, è intervenuta anche una squadra dell'esercito munita di potenti metal-detector. La zona fu bombardata a più riprese durante l'ultima guerra e c'era il rischio che le ruspe, scavando, potessero incappare in qualche bomba inesplosa. I militari hanno passato al setaccio un tratto del greto del torrente senza però alcun risultato. Non vorremmo che con questo intervento si sia voluta chiudere una volta per tutte la questione del recupero delle salme. Oltretutto, questi scavi estemporanei sono stati effettuati in una zona, il greto del fiume, nella quale è difficile siano finite le vittime, con tutta probabilità invece ancora sotto quella montagna di detriti che sono ora le sponde del torrente». STRANI RUMORI DAL SOTTOSUOLO Uno dei testimoni è Alvise Maso, che al tempo del ritrovamento aveva diciannove anni ed era uno degli operai che lavoravano sul greto del Maè. «Per anni mi sono tenuto il peso di quello che avevo visto. Quella corriera era diventata un incubo, mi ha tolto il sonno». Così si è deciso e ha raccontato la sua storia a Micaela Coletti e Gino Mazzorana, coordinatori del Comitato dei sopravvissuti del Vajont, che hanno subito inviato un esposto a Mario Fabbri, Procuratore della Repubblica di Belluno, lo stesso magistrato che si occupò delle indagini al tempo del disastro. Da lì, l'arrivo delle ruspe. «Possiamo anche pensare che quegli operai abbiano disseppellito una corriera otto mesi dopo la frana - dice il sindaco De Cesero - ma sarei molto più scettico sul fatto che in quel mezzo fossero sepolti anche passeggeri. Non ci sono agli atti denunce di scomparsa che suffraghino questa ipotesi, nemmeno straniere».
Altri due testimoni hanno però confermato la versione di Maso.
La famiglia di Sebastiano Filippin, padre di Fabiano, abitava sulla sponda del lago creato dalla diga. La sua casa è stata tra le prime a essere investite dall'onda che si portò via i suoi genitori, uno zio e i suoi cinque fratellini piccoli. «Nei giorni precedenti il disastro mia madre continuava a piangere» racconta Sebastiano, che come i suoi tre fratelli maggiori si è salvato perchè era a Belluno per lavorare. Forse non si accorsero di niente. Forse non ebbero nemmeno il tempo di dire una preghiera. Gli otto familiari di Sebastiano sparirono tutti nel nulla quella notte. «I detriti e la montagna franata riempirono tutto l'invaso del lago, oltre duecento metri di profondità e crearono anche una montagna di terra di riporto. Lì sotto, con tutta probabilità, ai piedi della montagna di fronte, su cui si infranse l'onda prima di scavalcare la diga, ci sono i miei cari e tutti gli abitanti di Erto e Casso mai ritrovati. Qualche giorno fa a noi superstiti è toccato subire l'ultima beffa. Proprio in quest'area che un progetto dell'Unesco vorrebbe dichiarare area protetta e Parco della Memoria hanno appena inaugurato un salumificio. Un vero insulto alla memoria dei morti e alla sensibilità dei loro familiari. È una speculazione immorale». LA STORIA SI RIPETE
Di quel salumificio ce ne aveva parlato il sindaco di Erto e Casso, Luciano Pezzin: «Fra poco inaugureremo la zona industriale, che creerà nuove occasioni di lavoro». I superstiti che erano presenti alle nostre interviste hanno voluto portarci a visitarla a tutti i costi. Il salumificio si trova lungo la strada che da Erto porta a Longarone, poco sopra la diga.
Perchè qui? La domanda diventa perfino inquietante se si legge la relazione geologico-tecnica rilasciata al comune di Erto e Casso dallo studio di geologia applicata Mario Fogato di Pordenone. «Condizioni geostatiche del versante.ll 13 giugno 2000 sono cominciati i lavori per la costruzione del salumificio, poi inaugurato agli inizi di maggio 2002. Ma delle opere di protezione nemmeno l'ombra. UN TERRENO CHE FA GOLA
Due giorni dopo l'avvio del cantiere, Italo Filippin aveva presentato la sua denuncia nell'ufficio del comando dei Carabinieri di Cimolais: «Era un atto dovuto. A quel tempo ero consigliere comunale di minoranza».
Sembra quasi che quel salumificio lo si sia voluto lì a tutti i costi, a ridosso di quella parete di roccia pronta a rotolare giù. Ma perchè? Difficile trovare un motivo se non nella vendita del terreno da parte dei proprietari al
comune di Erto e Casso per un prezzo di sei volte superiore a quello del suo reale valore.
Nel frattempo arriva pure una querela per diffamazione per mezzo stampa da parte del vice-sindaco nei confronti di quei giornalisti locali che, come Fabiano Filippin, cercano di scavare a fondo nella questione. La Procura della Repubblica di Bolzano, competente sul territorio per uno strano gioco della
legge sulla stampa, non la pensa come De Lorenzi e decide di archiviare il fascicolo.
«Io non perdonerò mai» ci siamo sentiti dire dalla maggior parte dei superstiti "veri" che oramai, come dicono da queste parti, non riempirebbero più nemmeno una corriera. Ma cosa chiedono, in fondo, le persone che abbiamo incontrato a Longarone, Erto e Casso? Chiedono il rispetto e il diritto di essere ascoltati, prima di prendere decisioni che riguardino la memoria dei loro morti; chiedono di veder ricostruire senza sfarzi o sprechi quello a cui tengono davvero come comunità, la vecchia chiesetta di Pirago, un museo alla memoria. |