Inserimento originale: 18/07/2003

EROI DIMENTICATI

Il 10 di novembre 1963, ad un mese e un giorno esatti dalla catastrofe del Vajont, Pietro Martinelli 'Nanòn' stava tagliando legna in luna calante nel bosco della Zanolina, poco sotto la Val da Diach. Era un boscaiolo di prim'ordine, nonchè caustico fustigatore di luoghi comuni; in possesso, per quei tempi, di buona cultura e precorritore di novità oggi diventate di uso comune. Quest'ultima dote è suffragata dal fatto che egli, già allora, abbatteva gli alberi con l'invenzione del secolo: la motosega. Credo che la sua sia stata la prima, in paese.

Verso le tredici di quella domenica 10 novembre, Pietro "Nanòn", detto "Piàre de Méne", si sedette su un ciocco e rovistò nello zaino per mangiare un boccone. Era una bella giornata, con un pò di vento. Sugli alberi tremolavano foglie di ogni colore. Agli inizi di novembre, sugli alberi, ci sono ancora molte foglie. In alto nel bosco, un sole pallido, ma ugualmente amico, teneva compagnia al vecchio boscaiolo solitario. Pietro amava lavorare da solo, come Santo della Val. Giù, verso il passo Sant'Osvaldo, gli alberi erano in ombra poichè in quella zona, il sole di novembre arriva di pomeriggio.
Nella valle regnava il silenzio d'autunno. La mancanza di suoni pareva una forma di rispetto verso le duemila vittime del Vajont morte un mese prima. Il silenzio era dovuto anche al fatto che nel '63 esistevano sí e no un paio d'auto per paese. Inoltre, quell'autunno portava con sè il dolore, la gente sopravvissuta stava chiusa in casa accanto alla stufa. Non c'erano neppure turisti o curiosi. Quelli sono arrivati quarant'anni dopo per merito di Marco Paolini e del suo monologo in televisione, e del film Vajont di Renzo Martinelli.

Quel giorno, l'unico rumore che ogni tanto rompeva la pace, era la motosega del taglialegna. Ad un certo punto la quiete della Valle fu scossa da un rombo più possente della sega a motore. Proveniva da occidente. Era una vibrazione cupa che, via via, diventava sempre più forte. Pietro Nanòn sguinzagliò l'occhio. E lo vide. E lo riconobbe. Ormai, in un mese, ne aveva visti di elicotteri solcare i cieli ertani. Venivano da tutto il mondo, a portarci aiuto. Lo seguì con lo sguardo mentre sulla punta del temperino che teneva in mano stava infilzato un cubetto di gorgonzola pronto per essere spalmato sul pane. La macchina volante gli passò davanti e picchiò verso Cimolais. Il rumore si fece sempre più leggero, attutito dai boschi fino a scomparire del tutto. Allora Pietro Nanòn posò il pezzetto di gorgonzola sul boccone di pane e lo masticò lentamente. Dopo neppure cinque minuti il rombo tornò a percuotere la valle. Veniva su da Cimolais. «Sembrava facesse fatica - mi raccontò qualche tempo dopo il boscaiolo - le pale battevano e il motore fischiava come il fiato di un vecchio che cammina in salita». Forse perchè l'elicottero era effettivamente vecchio. Anche le macchine invecchiano e tossiscono, e arrancano, si stancano, cambiano voce, a furia di fatiche. Questa volta il velivolo s'avvicinò al bosco. Il taglialegna lo vide volare proprio di fronte a lui. Fermò le dita che arrotolavano la sigaretta e lo seguì con lo sguardo. Illuminato dal sole dentro la cupola di plexiglas, gli parve di intravedere la sagoma del pilota fermo ai comandi. Il mezzo puntò verso Erto e, dopo pochi minuti, il rombo cessò di nuovo.

Cpt. Zanelli

Immagine gentilmente concessa da http://www.sopravvissutivajont.org, e che mostra l'elicottero del capitano mentre sta sorvolando la spianata della rovina.

Pietro Nanòn finì di arrotolare la sigaretta di trinciato, incollò la cartina con un colpo di lingua e la accese. Da quando aveva iniziato il suo pasto a base di pane e gorgonzola a quando accese la sigaretta sarà passata mezzora. Il boscaiolo estrasse l'orologio dal taschino. Mancavano pochi minuti alle tredici e trenta. Era tempo di riprendere il lavoro. Stava per porre mano alla motosega quando il rombo delle pale tornò. L'elicottero volava piuttosto basso tanto che, per superare il costone di Sant'Osvaldo, dovette dare gas e prendere un pò di quota. La libellula finse di andare a Cimolais, poi virò di colpo e tornò sul passo, come se cercasse qualcosa. Effettuò tre giri tra la piana del Tegn e il Valico.
Pietro Nanòn non capiva molto di macchine volanti ma, osservando quella che volteggiava là sotto, non potè fare a meno di pensare che colui che la "guidava" (disse proprio così) doveva essere piuttosto in gamba. A quell'ora il sole, nel suo viaggio verso occidente, non era ancora uscito dalla spalla del Cornetto a incendiare gli alberi rugginosi del passo. Se ci fosse stato il sole, la luce avrebbe fatto sicuramente brillare, come la scia di una pallottola incandescente, il cavo d'acciaio della teleferica che scendeva dal Piè de Mula. Ma laggiù, sul passo, sonnecchiavano le ombre d'autunno e non si sarebbero illuminate prima delle quindici. Così, il capitano pilota Giovanni Zanelli non si accorse di quel rasoio teso a mezz'aria, sciaguratamente e colpevolmente non segnalato dalle apposite boe.

Pietro Martinelli non riusciva a credere ai suoi occhi. Mi raccontò cosa successe, poichè egli fu l'unico testimone oculare del fatto. L'elicottero sorvolò il passo per tre volte. Alla terza accostò un poco a nord, verso il fianco del monte Lodina. A quel punto il vecchio vide la macchina piantarsi nell'aria quasi di colpo. Ci fu un sibilo, poi la libellula d'acciaio iniziò a girare su se stessa. Compiuti tre giri, puntò la schiena verso terra e andò giù come un sasso. Nanòn udì lo schianto del velivolo nell'impatto col suolo.
A bordo, oltre al capitano pilota Giovanni Zanelli, di cinquantun anni, si trovavano il dottor Bruno Conforto e il collega Filippo Falini, rispettivamente di quarantatrè e quarantasei anni.
Morirono tutti sul colpo. Allibito, Pietro si caricò in spalla la motosega, non poteva abbandonarla, disse, con quello che gli era costata, e corse giù a Cimolais ad avvertire i carabinieri. Le salme dei tre sventurati furono composte nella piccola cappella del passo in attesa di essere consegnate alle famiglie per la sepoltura. Abitavano tutti a Roma.

Sono passati quarant'anni da quel lontano fatto di cronaca. L'Italia è un paese dalla memoria corta. La vicenda Vajont è stata per molto tempo dimenticata. Volutamente dimenticata. Soprattutto dai politici che avevano le mani in pasta nelle responsabilità. Dopo i primi strombazzamenti, durati un paio di anniversari, nemmeno più la minima voce nei telegiornali nazionali. Mai. Eppure il 9 ottobre del 1963 oltre duemila persone entravano nel nulla per ambizioni e interessi altrui. C'è voluto Marco Paolini, con la sua orazione civile, a far muovere, dopo trentacinque anni, il ricordo del misfatto. Lo spettacolo, trasmesso in televisione, sollevò indignazione e sconcerto nell'Italia dei grandi fratelli, dei Costanzo show, dei porta a porta, dei Sanremo. Il regista Renzo Martinelli, sul caso Vajont, ha girato un film. Terminò il lavoro proprio il 10 novembre 2000. Sul passo Sant'Osvaldo i boschi avevano gli stessi colori di allora. Di quando il Capitano Pilota Giovanni Zanelli moriva ai comandi del suo elicottero, un "Agusta-Bell-47 J".

Ma quanti si ricordano di lui? E degli altri due? Salvo i loro parenti, nessuno. Eppure il Capitano Zanelli era qui per darci una mano.

Poteva benissimo starsene dov'era, nella sua città, coi suoi figli Rosanna e Luciano, e la moglie Ada. Volava per l'AGIP mineraria, stava bene. Ma era un buono, un altruista, e venne quassu' per mettere a disposizione la sua esperienza. Eroe dimenticato dalla saga delle ricorrenze, molte delle quali del tutto fuori luogo.

Giovanni Zanelli era nato a Palazzolo sull'Oglio in provincia di Brescia, il 31 luglio del 1911. Nel 1932 era Sottufficiale dell'Aeronautica Militare. Nel '44 fu nominato aiutante di battaglia per meriti speciali di guerra. Per lo stesso motivo, un anno dopo, venne promosso Ufficiale. Nel corso della guerra si guadagnò quattro medaglie al valore militare: tre di bronzo e una d'argento. Nel '56, dopo aver prestato servizio al centro addestramento elicotteri di Frosinone, si congedò con il grado di Capitano. Dal gennaio del '57 prestava servizio all'ENI come pilota. Subito dopo il disastro del Vajont era venuto in quel di Erto per offrire la sua opera nei soccorsi. Poteva tornarsene a casa dopo pochi giorni. Volle restare di sua volontà. Ma il capitano Zanelli portava nel destino l'ombra della sfortuna e la luce dell'eroe.

Nel '58 si trovava in Iran per conto dell'AGIP. Il 21 di febbraio una "piantata" del motore fece precipitare il suo elicottero da un'altezza di dieci metri. La macchina, dopo l'impatto, si rovesciò e prese fuoco. Il dottor Braga, rimasto impigliato nelle cinture di sicurezza, fu liberato e tratto in salvo dal Comandante Zanelli.

Analoga situazione la visse durante la guerra nell'isola di Rodi.
Il 27 luglio del 1940, il suo Siai Marchetti SM81 da bombardamento si incendiò durante un decollo notturno. Il copilota, svenuto, era rimasto vincolato al sedile. Zanelli lo estrasse poco prima che il velivolo esplodesse. Per questo gesto ricevette un encomio. Ad essere superstiziosi, e visto come è andata, verrebbe da pensare al fatidico non c'è due senza tre. Ma il capitano non si impressionava per queste sciocchezze. Nell'ottobre del '63, mentre da mesi era impegnato in voli di collegamento tra la raffineria di Gela e la piattaforma di trivellazione a mare, accadde il Vajont. Zanelli fu inviato all'aeroporto di Belluno per collaborare alle operazioni di soccorso. Da lì, partì per il suo ultimo volo.
Mi piace pensare che sia stato proprio lui, la mattina del 10 ottobre '63, a portarmi a Cimolais per ben tre volte con l'elicottero. Dal paesino tornavo a Erto di corsa per farmi un altro giro. Finchè non fui scoperto. Ma questa storia è stata già detta.

Le altre due persone decedute assieme al Capitano erano tecnici molto conosciuti e apprezzati. L'ingegner Bruno Conforto dirigeva una società geo-mineraria, la GE.MI.NA. Il professor Filippo Falini era docente di geologia all'università di Roma. Gente che stava bene, che godeva di ottime posizioni. Eppure anche loro vennero quassu' con l'intento di darci una mano. Un mese dopo, sul luogo dov'era precipitato l'elicottero, fu piantata una croce di legno con i nomi dei tre sfortunati e la data di morte. Poi, su quella radura e su quell'episodio, calò il silenzio e, con ől tempo, l'oblio.

Quando l'elicottero si schiantò avevo tredici anni e la disgrazia mi colpì molto. Negli anni a venire iniziai un segreto pellegrinaggio al passo Sant'Osvaldo, nella radura del Capitano. Andavo, e ci vado tuttora, a salutare il pilota e gli altri due. Le parole incise su un minuscolo foglio di rame suscitano ogni volta un po' di malinconia. «Al nostro caro Gianni perchè la sua bontà e il suo coraggio non vengano dimenticati» Più sotto, un'altra targhetta porta i nomi di tutti e tre. Infine, su una scheggia di bronzo, si legge il nome Zanelli e la data di morte. Nient'altro.
In quel luogo percepisco uno strano fenomeno. Per questo continuo a frequentarlo. È una radura piena di alberi: faggi, larici e pini. Un fitto tappeto di muschio verde copre il terreno tutt'intorno. Sembra che la natura abbia, in qualche modo, cercato di attutire lo schianto del velivolo. In quel sito aleggia una pace che non trovo in nessun altro posto. Ho come la sensazione che, nascosto tra gli alberi, il capitano voglia comunicarmi qualcosa. Una simpatia, un affetto misterioso, lontano. In quella radura vi regna una calma, una tranquillità che non esiste nei posti in cui sono avvenute tragedie. Tra quegli alberi, seduti sul muschio che assorbe ogni rumore, non si prova l'inquietudine che assale il visitatore nei luoghi di morti violente. Si ha l'impressione che lo spirito dei tre sfortunati vaghi nella radura. In attesa di qualcuno. Per confidarsi, per comunicargli la nostalgia di casa, dei figli, degli amici, delle cose perdute. Non mi era mai capitato un fatto uguale. Solo lì, nella radura del capitano, sento aleggiare queste misteriose sensazioni dei tre, percepisco soprattutto la presenza del pilota. E una specie di sorriso, un sussurro, un saluto.
Suggestione? Può darsi.
O forse una mite richiesta di compagnia, un invito al viandante a restare.

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Dopo quasi quarant'anni la curiosità ha avuto il sopravvento. Volevo conoscere il volto del capitano. Così, un giorno, senza sapere dove sbattere la testa, ho iniziato la ricerca impossibile, nell'incertezza più totale. Di lui non sapevo nulla. Nè dove abitava, nè quando era nato, se avesse avuto una famiglia, dei parenti. Un mattino di maggio, che ero lì, nella radura, senza un motivo particolare mi venne in mente un nome. Sentii che avrei dovuto chiedere informazioni ad un albergatore di Cimolais. Alla mia richiesta la signora cadde dalle nuvole e restò perplessa. Ma il marito, dopo averci pensato su, mi chiese di pazientare qualche giorno. Sono stato fortunato e di questo ringrazio l'albergatore in Cimolais. Con il suo aiuto ho potuto rintracciare a Roma Luciano Zanelli, figlio del capitano Giovanni.

All'epoca dei fatti Luciano aveva ventidue anni. Non so cosa avrà pensato quando, dopo quasi quarant'anni, gli ho parlato di suo padre e di ciò che mi capitava nella radura. So che all'inizio del dialogo gli ho raccomandato di non preoccuparsi che non ero matto. Un'altra cosa, in questa vicenda, ha dell'incredibile. Nei lunghi pellegrinaggi alla radura, un pò alla volta, la mia immaginazione aveva dato forma a un volto che nell'inconscio attribuivo al Capitano. Ebbene, quando ho avuto in mano i giornali dell'epoca sui quali era riportata la foto di Zanelli, sono rimasto allibito. Il viso delle foto si discostava pochissimo da quello immaginato da me per tutto quel tempo. Così, nel quarantesimo anniversario del suo sacrificio, ho deciso di rendere onore alla memoria del Capitano Zanelli. Troppi segnali, troppi messaggi mi imponevano di farlo. Si può diventare amici di qualcuno mai visto, addirittura morto. Ora che lo conosco, ho la sensazione che un filo si sia riannodato per chiudere il cerchio. Certo, duole constatare che il sacrificio dei tre è stato completamente dimenticato. Eppure, anche loro dovrebbero essere collocati senza esitazione fra le vittime del Vajont. Dopo la catastrofe sono stati costruiti (per gli sfollati, e si chiamano tutti 'Nuova Erto', N. d. Tiziano) tre paesi nuovi: uno a Maniago, uno a Erto e uno a Ponte nelle Alpi. Le vie di questi paesi portano i nomi più svariati, molti strampalati, qualcuno ridicolo. Ma nemmeno una via, un angolino, una piazzetta reca il nome del Capitano Zanelli, o di Bruno Conforto o di Filippo Falini o di tutti e tre assieme. Si sa, la riconoscenza è un sentimento di neve che si scioglie appena arriva il sole.

Queste righe, a distanza di tanti anni e in tutta umiltà, vorrebbero frugare nel passato per vedere se un pò di quella neve è rimasta intatta in fondo a qualche crepaccio. Altrimenti aspetteremo quella nuova, ogni anno, il 10 di novembre per ricordare con una messa nella radura il Capitano Pilota Giovanni Zanelli e il suo equipaggio.

               Con affetto e riconoscenza. (Mauro Corona)

 


Questo era il "narratore" che mi piaceva. Che differenza, che pena leggere il «Fenomeno Corona», solo qualche anno dopo.... e scoprire di che pasta è fatto. Come quando scopri che Babbo Natale ...


Le mie pagine specifiche sul dopo-Vajont e della recensione del DVD di Paolini Marco (del 2003).

Mauro Corona, descritto da Enzo Belinghieri (versione commercial-popolare). E come invece lo tratteggio io, 2007.

"Ti dice niente 'Vajont'? 9 ottobre 1963.
Dal monte Toc, dietro la diga del Vajont, si staccano tutti insieme 260 milioni di metri cubi di roccia. Duecentosessanta milioni di metri cubi di roccia cascano nel lago dietro la diga e sollevano un'ondata di cinquanta milioni di metri cubi. Di questi cinquanta milioni, solo la metà scavalca la diga: 'solo' venticinque milioni...

Ma più che sufficiente a spazzar via dalla faccia della terra cinque paesi: Longarone, Pirago, Rivalta, Villanova, Faè. Duemila i morti.
La storia della diga del Vajont, iniziata sette anni prima, si conclude in quattro minuti di apocalisse con l'olocausto di duemila vittime.
Come si fa a capire un fatto come questo?
Capire che peso ha avuto, che peso ha?
Dove va a cadere il peso di certi avvenimenti?
Che pressione fanno sul morale delle persone, come incidono sui comportamenti di una comunità, nelle scelte di un popolo?
Quale clima raddensano in un Paese?"

Marco Paolini


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Un saluto, Tiziano Dal Farra, Udine.

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