Cap. 2 - III

3 - LA POLITICA NEL VAJONT: OBLIO DI UNA MEMORIA "SCOMODA" E RILANCIO DI UN'AREA DEPRESSA

Le preoccupazioni di un sistema "corrotto"
La tragedia del Vajont originò una situazione molto "scomoda" per le forze politiche dominanti. Queste ultime dovettero impegnarsi a fondo per mantenere intatta la loro credibilità ed il sostegno futuro degli elettori. Un simile intento fu reso possibile grazie ad un contesto storico - politico "particolare" che risultò loro favorevole.
Il potere politico fu posto dinnanzi ad una prima "resa dei conti" con un sistema che si manifestava celatamente "corrotto" in quasi tutte le sue ramificazioni e che rischiava di crollare se gettato in balia dell'opinione pubblica attraverso un'analisi critica approfondita.
Il periodo di boom economico dei primi anni '60 incrementò la cecità istituzionale di fronte alle promesse di progresso e sviluppo che imprese private, come la S.A.D.E., offrivano ad un Paese come l'Italia, proiettato ad entrare nel ristretto gruppo delle potenze industrializzate. "La costruzione della diga del Vajont, come più in generale il clientelismo politico, non rappresenta soltanto un canale di acquisizione di 'rendita economica', ma è la componente di un complesso sistema di utilizzo del potere politico per la crescita del potere economico e viceversa: intorno al binomio politica/economia viene costruito un espansivo sistema di acquisizione del consenso".

Il governo ed i suoi organi, succubi di un contorto meccanismo clientelare tra potere politico ed economico, ebbero la principale colpa di non dare troppo peso al caso Vajont quando ricevettero le informazioni sui primi allarmi. Il sistema di scambio di favori e di corruzione aveva portato ad una disfunzione statale per cui lo Stato aveva finito col fidarsi troppo dell'impresa privata, non svolgendo uno dei compiti cui è preposto: il controllo.
Probabilmente le Istituzioni Statali Superiori erano all'oscuro della reale situazione presente nella Valle del Vajont ed inizialmente anche delle effettive responsabilità di alcuni loro organi nella vicenda. Questa "ignoranza" non poteva essere giustificatoria dal momento che, anni prima della tragedia, in Parlamento si erano verificate interrogazioni parlamentare circa l'analisi della situazione esaminata, a seguito di allarmi provenienti dalla zona.
Il "meccanismo" generatosi lasciò il governo impassibile di fronte agli allarmi di un "nemico" politico, che riteneva abile nel tentar di ostacolare in tutti i modi i privilegi derivanti da questo sistema, ma non sufficientemente potente da riuscirci.
"Il 'disastro del Vajont'[...] contiene in sè alcuni segnali premonitori. I più importanti dei quali sembrano i seguenti:

la reciprocità funzionale tra sistema politico e sistema economico;
la dominanza decisionale dell'attore di governo, in tutte le articolazioni e propaggini del tessuto politico-istituzionale;
la modellazione ancillare dei poteri operata dall'egemonia democristiana.
Su questi tre assi si regge la 'centralità della Dc' ed essi sono messi in bella mostra, in tutta la loro portata catastrofica, dal 'disastro del Vajont'. Possiamo, anzi, dire: la diga del Vajont si regge su essi e con essi trabocca[...].
Le variabili politiche in opera nel "disastro del Vajont" portano allo scoperto un sistema politico-istituzionale che:
non ammette interferenze nei suoi meccanismi di funzionamento;
non permette di essere messo a giudizio
[...]I meccanismi di clientelismo politico che la diga del Vajont contribuisce ad edificare plasmano una costante politica perversa: salvare all'infinito il sistema che li ha prodotti ed eretti.".
Quando la tragedia si compì lo Stato, fino ad ora indifferente, si interessò ampiamente al caso Vajont e determinò un totale capovolgimento della situazione. L'attenzione del potere politico si diresse verso un tentativo di lenire il malumore e la sfiducia che rischiavano di sorgere nei suoi confronti. Quello che maggiormente contava era ridurre al minimo la palesità della compromissione del sistema per permettergli di mantenere intatti i suoi caratteri peculiari, sopra ogni altro la rete dei privilegi.

Alla luce di questa situazione, risultò necessario strumentalizzare alcuni risvolti della tragedia per ottenere il favore dell'opinione pubblica indirizzando la memoria collettiva verso "un certo tipo" di analisi dei fatti, prima di allontanarla dall'argomento.

La costruzione di un'immagine impeccabile
Nel tentativo strategico di creare una giustificazione per le istituzioni statali ed i suoi organi non fu possibile attribuire tutte le colpe alla S.A.D.E., la quale si era trasformata alcuni mesi prima della catastrofe in un ente nazionale, l'E.N.E.L., direttamente collegato allo Stato.
Come poteva lo Stato dichiararsi "ignorante" circa la reale situazione di un impianto del quale era responsabile del controllo dei lavori e della loro sicurezza?
Come tralasciare il fatto che lo Stato era entrato in possesso del medesimo impianto alcuni mesi prima della catastrofe?
L'opinione pubblica avrebbe intuito che qualcosa di "strano" si era verificato se informata sull'esatto svolgimento degli eventi. Ma fu proprio la devastante entità della tragedia a "favorire" le prime strategie di auto-discolpa del potere politico: le accuse iniziali furono riversate tutte contro la "natura crudele" e l'imprevedibilità di una simile catastrofe.
La sensibilizzazione dell'opinione pubblica diretta verso la convinzione che una tragedia simile aveva devastato "fatalmente" una parte del Paese avrebbe infatti ottenuto un duplice effetto desiderato: solidarietà e partecipazione collettiva al dolore delle popolazioni sinistrate e contemporaneamente conservazione di quell'immagine positiva ed efficiente del potere politico "innocente".
Il messaggio di fine anno agli italiani tenuto del Presidente della Repubblica Antonio Segni il 31 dicembre 1963 recitava in un suo stralcio: «L'anima della Nazione, nel corso del 1963, doveva essere crudelmente percossa da una terribile sciagura, nella quale migliaia di nostri fratelli persero la vita e i beni. Alle vittime ed ai superstiti del disastro del Vajont vada, oggi, ancora il nostro commosso ed affettuoso pensiero; ai superstiti, in particolare, il rinnovato impegno che non saranno tralasciati gli sforzi per aiutarli a ricostruire la loro vita. La immediata solidarietà dimostrata in quei tristi giorni dagli italiani, con indimenticabile slancio, ha dato la misura precisa di quanto affidamento si possa sempre fare sui sentimenti più nobili del nostro popolo, che si trova saldamente unito, soprattutto quando la sventura bussa alla porta.»
Nel frattempo l'organizzazione dei soccorsi, immediata e ben organizzata, si adoperò in un importantissimo primo aiuto ai sopravvissuti. Il dispiegamento di forze impiegato per le operazioni fu massiccio e gli interventi risolutori diedero un minimo di conforto ai pochi rimasti in vita. Tutte queste operazioni, che fornivano un'immagine positiva del "buon operato" dello Stato, furono ostentate il più possibile, per contrapporsi ai primi "dubbi" sul comportamento statale.

Le alte cariche dello Stato si recarono in visita luttuosa nei luoghi disastrati ed immediatamente promisero "giustizia" ad un popolo che era stato decimato e privato di qualsiasi cosa.
Gli aiuti prestati non bastarono a placare il malumore e le polemiche per ottener giustizia da parte dei superstiti, nè tanto meno quelle degli abitanti dei paesi vicini, sebbene non toccati dall'onda.
La semplice "voce" dello spostamento dell'abitato di Longarone dal luogo ove era prima ubicato fu sentita come una minaccia che generò l'organizzazione di una protesta. I sopravvissuti bloccarono la statale Alemagna, unica strada che porta al centro turistico di Cortina d'Ampezzo. Il blocco stradale fu messo in piedi proprio a cavallo di Capodanno e creò scompiglio nel traffico e proteste da parte di coloro che dovevano transitare per recarsi in vacanza.
Questa protesta generò naturalmente un vivo interesse nell'opinione pubblica e, di riflesso, in quella del Ministro dei Lavori Pubblici Pieraccini il quale giunse a Longarone il 12 gennaio del 1964 e promise non solo la ricostruzione dell'abitato nel luogo ove era prima, ma anche una certa celerità di quest'ultima.
Fu chiaro molto presto che non sarebbe più stato possibile sottovalutare nè ignorare un popolo di "montanari" che erano in grado di sensibilizzare, attraverso la loro vicenda, una grandissima parte dell'opinione pubblica in loro favore.
Come sarebbe intervenuto il "potere" politico per difendere la sua immagine sottoposta a "dubbi" circa le sue responsabilità?
Purtroppo la giustizia che quelle popolazioni chiedevano avrebbe messo in mostra la non impeccabilità di un sistema cui si dava così credito e per questo motivo non poteva coincidere con quella che le istituzioni desideravano. Le influenze del potere politico si riversarono tutte sul tentativo di mantenere questa immagine "retta", paradossalmente trascurando di ricercare la verità o tentando di "cambiarla" in proprio favore.
La sostenuta fatalità dell'evento non sarebbe stata sufficiente a toglier ogni possibile dubbio residuo nella coscienza collettiva.

La costruzione di un "intreccio" per l'auto-discolpa
La strategia della "fatalità" e le massicce operazioni di soccorso non furono sufficienti a "salvare" il sistema dalle accuse e dai dubbi, che furono alimentati principalmente da esponenti dell'opposizione politica.
L'autodifesa inizialmente attuata dalle istituzioni fu ampliamente sorretta da un particolare clima politico che contraddistingueva il periodo storico in questione. Il mondo si trovava in quell'epoca contraddistinto dalla "guerra fredda" tra le due principali potenze mondiali, U.S.A. e U.R.S.S..
Le ripercussioni di questa conflittualità, con le opposte ideologie che questa portava con sè, avevano naturalmente influenze anche in tutti gli altri paesi del mondo.
Trasportata internamente al clima politico italiano, questa realtà si manifestava attraverso un costante scontro ideologico tra DC e PCI, partiti politicamente in continua lotta per il potere, dei quali la prima filo-americana ed il secondo filo-sovietico.
Non fu nè difficile nè privo di senso (in chiave analitica di lotta politica) trasformare la "fatale" tragedia del Vajont in un intreccio che assunse le sembianze di una difesa del governo di maggioranza DC, forte del suo ruolo di insospettabile "garante" dell'ordine pubblico, contro una calunniante "campagna politica" dell'antagonista PCI, accusato di "speculazione politica" nei riguardi di una tragedia "naturale" che aveva causato 2000 morti.
Per minimizzare le disfunzioni statali agli occhi del Paese, quindi degli elettori, si ricorse all'utilizzo di uno "stratagemma" politico che si basò sull'attribuzione comunista all'origine delle "falsità" riguardanti le responsabilità statali di prevedibilità dell'evento. Questi comunisti furono dipinti come "lottatori politici" ed amplificatori di calunnie che non avrebbero dovuto esser creduti proprio perchè interessati al semplice screditamento del governo e non alla ricerca della verità.
La "campagna politica" bifronte che si era insediata quale interpretazione del caso Vajont fu palese quando la DC, in risposta alle accuse circa le responsabilità governative nella tragedia, fece appendere dei manifesti in tutta Italia intitolati "SCIACALLI" ove si scriveva:

"Sulla sciagura del Vajont il Partito Comunista ha imbastito una spregevole speculazione politica[...]I COMUNISTI INVIANO 'AGIT-PROP' PER ATTIZZARE SOTTO LE MACERIE IL FUOCO DELL'ODIO E DELLA SOVVERSIONE. ADDITIAMO AL DISPREZZO DEL PAESE GLI SCIACALLI COMUNISTI".
Tutta la vicenda fu immediatamente ricondotta a questa trama politica che da un lato ne avrebbe offuscato le reali responsabilità, dall'altro avrebbe ulteriormente accresciuto l'importanza del tradizionale ruolo del governo, trascurandone le disfunzioni.
I media, come già spiegato, aiutarono l'influente Stato nella difesa della sua immagine al grande pubblico, contribuendo a facilitarne il compito di sminuire nella coscienza civile i dubbi.
Anche l'E.N.E.L., organo direttamente collegato allo Stato, poche ore dopo la tragedia iniziò a tutelarsi dalle "calunnie" nei suoi confronti inviando un comunicato che cercò di rassicurare l'opinione pubblica sostenendo che le notizie pubblicate da qualche organo di stampa in ordine alla prevedibilità dell'evento verificatosi nel lago del Vajont non avevano fondamento alcuno. Contemporaneamente il capo ufficio stampa dell'ENEL colloquiava con un amico giornalista della Rai-TV rassicurandolo dell'innocenza dell'organo statale e convincendolo quindi a trasmettere servizi che lo discolpassero anche in televisione.
Un esempio lampante di questa influenza politica tendente al proporre un'immagine "giusta" del governo andando contro la realtà e l'onestà si presentò in seguito ad un'inchiesta governativa, la cosiddetta "Inchiesta Bozzi". Questa fu indetta per analizzare le cause e le responsabilità del caso Vajont. Nel gennaio del 1964 l'inchiesta Bozzi riscontrò gravi colpe del monopolio, del ministero, dei suoi organi di controllo e dei prefetti, che vennero destituiti.
Il verdetto, quello sopra citato, irritò non poco la DC che si sentì naturalmente additata quale responsabile politica della fallimentare gestione statale. Per cancellare questa brutta immagine data da un organo interno dello Stato al governo dello stesso, fu costituita una nuova Commissione Parlamentare, presieduta da Leopoldo Rubinacci, deputato DC, ove erano presenti parlamentari di tutte le forze politiche. Questa nuova commissione, "miracolosamente", fu in grado di ribaltare il verdetto dell'inchiesta Bozzi sancendo l'imprevedibilità della tragedia. La relazione Rubinacci giunse a questa conclusione di imprevedibilità attraverso uno "strano" percorso di analisi di tutti i documenti in possesso del giudice istruttore del tribunale di Belluno, e dopo aver sentito anche decine di testimoni. Il risultato della nuova inchiesta, agli occhi degli elettori, riabilitò il governo.
In un esemplare passo di questa relazione si dà piena assoluzione al Ministro dei LL.PP. Zaccagnini attraverso tali argomentazioni: "Il ministro Zaccagnini, nelle sue dichiarazioni, ha fermamente respinto la tesi dello Stato succube alle imposizioni della privata iniziativa ed ha affermato che, se fossero giunte al suo ufficio segnalazioni comportanti la visione del grave pericolo cui le popolazioni della zona andavano incontro, non avrebbe esitato un istante a far sospendere i lavori".
Tale conclusione però fu, secondo alcuni membri della commissione, talmente indecorosa da portarli a presentare relazioni contrastanti. Furono difatti presentate anche due relazioni di minoranza: una da parte dei membri del PCI e l'altra ad opera di quelli del PSI.
La relazione della minoranza dei commissari PCI sottolineò come fosse ampiamente dimostrato che la S.A.D.E. - E.N.E.L. "si è servita dello Stato per i propri fini, imponendo il suo prepotere al governo, al Ministero, come alle assemblee locali elettive; perseguendo i suoi scopi fino ad arrivare a nascondere o sottovalutare il rischio per non compromettere il successo dell'opera in corso di realizzazione[...] Risultano con sicurezza evidenti le gravi responsabilità dell'E.N.E.L. - S.A.D.E. e degli uffici del Genio Civile, della Direzione Generale del Servizio Dighe, dei Prefetti del Ministero, del Governo, per il mancato uso della possibilità effettivamente accertata di dare l'allarme[...]".
La relazione dei commissari del PSI, sebbene riscontrasse le responsabilità dello Stato, le attribuì a problemi di natura principalmente tecnico-strumentale che in qualche modo giustificò gli organismi ministeriali alla subordinazione verso l'impresa privata: "Il secondo ordine di rilievi riguarda le attrezzature,gli strumenti che lo Stato ha a disposizione quando entra in contatto con complessi come la SADE, o per meglio dire riguarda la grande differenza di attrezzature esistente fra lo Stato che abbiamo ereditato ed i grossi complessi privati[...]La verità è che ci troviamo in una situazione drammatica poichè - ecco una precisa responsabilità politica - nessuno ha pensato di dotare lo Stato di strumenti umani e materiali adeguati, quando allo Stato venivano trasferiti maggiori compiti, maggiori responsabilità, più ampie sfere di azione".
Anche queste relazioni, analizzate alla luce dell'ottica politica nazionale predominante, furono considerate solo timidi tentativi di infangare a scopi speculativi l'impeccabile operato del governo, che vantava una credibilità difficilmente abbattibile.

I tentativi di monopolizzare una verità da dimenticare Il trascorrere del tempo ed il proseguimento delle puntigliose indagini giudiziarie resero più difficoltoso il tentativo di nascondere per sempre una verità che iniziava ad emergere in modo sempre più minaccioso per il potere politico.
Nel frattempo, il sospetto che la verità sarebbe prima o poi uscita fuori con gravi ripercussioni spinse l'organo statale E.N.E.L. a muoversi rapidamente per esercitare la sua influenza in modo tale da attutire quella che inevitabilmente si sarebbe rivelata una "macchia" per il suo operato ed indirettamente, per via dei suoi legami, per quello Stato.
Alla luce di questo timore, l'E.N.E.L. si preoccupò di offrire delle "transazioni" economiche ai superstiti, al fine di mettere a tacere la vicenda evitando ulteriori rivendicazioni future da parte dei sinistrati attraverso un loro appagamento economico. Oltretutto tali "transazioni" erano state studiate anche per portare ad un alleggerimento di quella "scomoda" posizione legale che l'E.N.E.L. temeva l'avrebbe presto raggiunto.
Le indagini preliminari tenute dal giudice istruttore Mario Fabbri furono sottoposte a pressioni fortissime affinchè il resoconto della requisitoria fosse "lieve" nei confronti delle cariche statali. La speranza era che la verità, in caso resa pubblica, fosse "modellata" in modo tale da non ledere troppo la stima che l'opinione pubblica riponeva nel buon operato delle istituzioni e suoi organi e nella perfezione del sistema vigente. Fabbri non cedette a queste pressioni, si impuntò e fece il suo lavoro fino in fondo, sfidando il clima dell'epoca che non aveva mai visto un magistrato andare contro gli organi dello Stato.
Il tentativo di mascherare una tragedia come quella del Vajont dietro un terribile scherzo della "natura crudele" fallì nel momento in cui il giudice depositò la sua requisitoria. Il percorso che condusse verso una tale conclusione non fu di certo privo di "stranezze" verificatesi ad hoc per rallentare od ostacolare il lavoro del giudice volto alla scoperta della verità. Prima di giungere a questa conclusione però Fabbri dovette lottare contro una serie di nuove trame, che scoprì soltanto anni più tardi.
Mario Passi racconta che: "Il giudice istruttore riuscirà a scoprire, qualche anno più tardi, che solo venti giorni dopo la tragedia, ancor prima che il procuratore della Repubblica muovesse le sue imputazioni, si riunivano a Venezia l'ingegner Biadene con il suo legale, l'avvocato Cesare Brass, e il dottor Edoardo Semenza. Quell'incontro getta le basi di una strategia che assumerà i connotati di una precisa linea processuale, e insieme, adottata in sedi diverse, a determinare scelte politiche capaci di influenzare in senso conservatore la vita del Paese".
La tragedia del Vajont generò uno strano rapporto tra il monopolio elettrico che aveva eretto la diga e curato l'impianto e l'ente di Stato che lo aveva ereditato. Ci si sarebbe aspettati una rivalsa da parte dell'E.N.E.L. nei confronti della S.A.D.E., come la sospensione delle quote di indennizzo per la nazionalizzazione dell'impianto e l'inserimento dell'ente statale come parte danneggiata nei processi penale e civile al pari dei singoli individui e dei comuni sinistrati : in fondo l'ENEL aveva ricevuto un impianto privo delle "qualità essenziali ai fini elettrici" e lo aveva pagato come perfetto, per non parlar del fatto che le prime vittime della tragedia del Vajont furono proprio i tecnici della diga in servizio quella notte. Così scrive Passi :"A nulla valsero gli interventi dei parlamentari di opposizione perchè l'ENEL adottasse le decisioni più logiche[...]. L'E.N.E.L. non rispondeva alle legittime pressioni del Comune di Longarone, dei collegi legali di parte civile. Aveva già ceduto ad altri occulti richiami.[...]".
Mentre le indagini del giudice Fabbri proseguivano, l'ENEL non solo non si schierava coi danneggiati contro la SADE, ma addirittura abbandonava la neutralità e "La sede di Venezia dell'ENEL diventa un centro di frenetiche attività e di strane manovre legate al procedimento in corso a Belluno.[...]la sede veneziana dell'E.N.E.L. si proponeva come una specie di abusiva succursale dell'ufficio istruzione del Tribunale di Belluno", come spiega sempre Passi.
La requisitoria durò circa quattro anni, al termine dei quali Fabbri ritenne colpevoli ben undici persone, di cui due già morte ( l'ingegner Semenza ed il geologo Dal Piaz). Il giudice rinviò a giudizio i 9 imputati viventi per: disastro di frana, inondazione, omicidio, lesioni colpose plurime ed il tutto con l'aggravante della prevedibilità. Un giudizio giusto e durissimo, ma che massimamente rischiava di infangare in modo irrimediabile l'alta considerazione riposta nello Stato e nei suoi funzionari da parte degli elettori.
Fu proprio questo giudizio così severo a prospettare la necessità di una nuova influenza tesa a diminuirne l'esposizione e la rilevanza emotiva del caso. Un processo tenuto a Belluno, nella sua sede naturale, avrebbe prospettato una presenza forte dei sopravvissuti che avrebbero offerto alla già complicata situazione un'ulteriore "pathos" emotivo importante. Il palcoscenico mediatico sarebbe stato troppo aperto verso un possibile verdetto che, nella sua negatività, avrebbe annientato i tentativi politici di mantener una solida immagine positiva del sistema.
A tutto questo andava aggiunta la fermezza dimostrata dal giudice Fabbri. Forse anche per via della sua giovane età egli si era rivelato poco incline a collaudati rapporti di servilismo col potere politico, preoccupando le stanze del potere riguardo un giudizio che sarebbe stato impietoso.
Era sempre più chiaro che l'immagine delle istituzioni e dei suoi organi sarebbe comunque stata macchiata, l'importante era ridurre l'entità della macchia il più possibile e soprattutto l'eco che il verdetto avrebbe avuto sull'opinione degli italiani, considerati in qualità di elettori. "Casualmente" la Cassazione ritenne a questo punto doveroso spostare il processo sulla catastrofe del Vajont da Belluno a l'Aquila, adducendo quale motivo la "legittima suspicione". Si ritenne che la vicinanza ai luoghi della tragedia avrebbe rischiato di causare disordini e di inficiare il "giusto" svolgimento del processo.
Sempre il "caso" volle che la legittima suspicione non fece spostare il processo a Venezia, a Verona, o qualsiasi altra località lontana da Belluno, ma non così lontana come l'Aquila, città distante a tal punto da render quasi impossibile la partecipazione al processo per i reali testimoni, unici depositari della "verità". Del resto essi erano i principali sostenitori della sfiducia verso lo Stato, e per questo andavano tenuti ancor più lontani e costretti ad un forzato silenzio.

Il gioco si ripete: il progetto di un nuovo progresso Mentre la "campagna" anticomunista si preoccupava di difendere il prestigio e la credibilità del buon operato della classe politica dirigente, il governo organizzò la rinascita o "rilancio" di quell'area disastrata. In ottica nazionale, il comprensorio entro il quale si diresse l'azione governativa era, anche prima della catastrofe, soggetto ad arretratezza economica e scarsa funzionalità. La necessità di operare una ricostruzione in una zona del tutto devastata fu un'ottima occasione per adattare tale ricostruzione ad un'ottica più allargata: quella del rilancio di una intera area economicamente depressa.
Progettare la ricostruzione delle zone distrutte avrebbe potuto andar di pari passo con l'evoluzione del benessere e sviluppo dell'intero Paese, all'insegna dell'ulteriore dimostrazione del buon operato del potere politico. Una legislazione unica che tenesse conto di entrambi i problemi sarebbe stata ideale per abbracciare una soluzione comune di intervento.
Politicamente il periodo era caratterizzato dal recente insediamento di un governo nuovo di centro-sinistra. Questo si accingeva ad operare le sue prime scelte programmatiche anche nel Vajont ed era molto desideroso di dimostrare la sua efficienza e novità di idee nell'esecuzione.
Quale modo migliore per lasciare un segno di buon intervento sfruttando un palcoscenico illuminato dai riflettori come quello del Vajont?
Il governo insediò a Belluno un suo commissario, l'On. Sedati, insieme ad un nutrito gruppo di professionisti. Essi assunsero il compito di progettare le modalità della ricostruzione dell'area vajontina, inserendola nell'ottica di uno sviluppo allargato che comprendeva un comprensorio coincidente all'incirca con l'intero Triveneto.
In un'area geografica privata quasi completamente di ogni preesistente riferimento, progettare l'opera di ricostruzione fu difficile per la necessità di studiare la geografia, gli spazi e la sicurezza necessaria per via della pericolosità della zona. Non era infatti ancora del tutto spento il timore della caduta di nuove frane dal Toc, o del possibile cedimento della diga. In ottica progettuale futura però, una volta compiuti gli studi del caso, tutto fu facilitato dalla libertà di progettazione consentita proprio da questo "foglio bianco" costituito dalla pietraia di Longarone.
La "legge Vajont" servì dunque anche a questo: rilanciare economicamente non solo la zona distrutta dalla catastrofe, ma un'area molto più ampia. Il tutto si inserì in un progetto di rigenerazione economica di una zona depressa dell'Italia, il Triveneto, attraverso la rinascita delle attività imprenditoriali con l'aiuto di sovvenzioni statali. L'azione governativa non poteva che guardare alle soluzioni con un'ottica generalista, "servendosi" di ciò che si era venuto a creare per "sviluppare" ulteriormente non solo una zona, ma un'intera area d'Italia che non era pari passo con l'economia del Paese, la stessa economia che aveva permesso alla diga del Vajont di essere costruita e collaudata causando 2000 morti. Studiata per una giusta causa e proiettata in modo da essere utile sotto molteplici aspetti, la legge Vajont diede al contrario origine ad una nuova ondata di speculazioni che trasformò i sopravvissuti ed i parenti delle vittime della strage in nuove vittime degli "affari" che ne derivarono.
La "Legge Vajont n.357/1964" aveva infatti una logica particolare: "non è la logica del risarcimento dei danni provocati dal disastro alla popolazione locale, ma quella dello sviluppo, di uno sviluppo capitalistico, e in primo luogo industriale, in un quadro programmato (la programmazione comprensoriale), dentro un disegno che puntava decisamente alla realizzazione della realtà economica, sociale e, non ultimo culturale del bellunese.[...]La legge del Vajont si configurava dunque come progetto complessivo di industrializzazione, realizzazione capitalistica, di programmazione territoriale fondato su una precisa e circostanziata analisi della società e della cultura locale". Secondo questa legge, ogni cittadino appartenente ai comuni sinistrati che possedeva una licenza commerciale, artigianale o industriale al tempo della tragedia aveva diritto ad un contributo del 20% a fondo perduto per riavviare l'attività e ad un mutuo dell'80% a tasso agevolato della durata di 15 anni oltre all'esenzione dal pagamento delle tasse per 10 anni. A ciò si aggiungeva la possibilità di vendere dette licenze per coloro che non avevano intenzione di riattivare le loro imprese o attività e coloro che ne sarebbero entrati in possesso avrebbero ottenuto gli stessi diritti dei beneficiari iniziali, a patto che tali attività fossero state aperte all'interno del comprensorio considerato dalla legge Vajont, che finì con l'interessare tutto il Triveneto.
La legge emanata dal governo era buona nelle intenzioni di trasformare una catastrofe che aveva creato un gravissimo scompenso in un evento che, almeno per alcuni suoi risvolti, avrebbe creato nuovo benessere nella valle.
Purtroppo questa propensione per un rinnovato benessere e nuovo sviluppo finì ancora una volta per ritorcersi contro la gente che si era salvata dall'onda del bacino.
Lo Stato infatti peccò di altro disinteresse: stavolta quello di informare quei "montanari" veneti e friulani di quanto fosse vantaggiosa una simile legge per le loro attività. Ignorando questo, nella maggior parte dei casi, essi finirono con il vendere tali licenze perdendo così anche gli ultimi averi utili per ricominciare da capo la loro vita. Del resto lo Stato non poteva esser ritenuto responsabile, soprattutto se una simile legge portava nuovamente un tale investimento diretto verso il progresso del Paese.
Un progresso che vedeva sorgere aziende a spese dello Stato ed altrettante chiudere dopo poco i battenti, una volta impossessatesi delle sovvenzioni.

Cap. 3

Fatta 'a mano' con un Apple Macintosh