Un articolo di Tina Merlin, la giornalista bellunese de "l'Unità".
Venne scritto per il suo giornale due giorni dopo il disastro del Vajont, e in cui riepiloga la vicenda e ricorda gli articoli scritti negli anni precedenti.

«Magari fossi riuscita a turbare l'ordine pubblico»

Tina Merlin

Tina Merlin, quella autentica.

Clicca la foto per la biografia.

Non mi ricordo esattamente quando ho cominciato ad occuparmi del Vajont. Probabilmente sette anni fa, quando sono cominciati gli espropri da parte della Sade. Era il mio lavoro normale di tutti i giorni. I proprietari, tutti piccoli coltivatori che dal loro pezzetto di terra ricavavano un aiuto in natura che serviva ad integrare il loro magro bilancio, si rifiutavano di cedere al monopolio, a un prezzo irrisorio, la loro terra. Era terra ricavata molte volte dai pendii e bonificata con il lavoro di generazioni. Rappresentava un valore materiale e affettivo insieme. Ogni lotta dei montanari contro il monopolio elettrico cominciava da qui. Non era lotta contro il progresso, ma contro chi in nome del progresso si riempiva il portafoglio a spese altrui. (...)
tutti sapevano (bastardi)Dopo la Liberazione, la Sade costruì in provincia di Belluno diversi bacini idroelettrici: a Pieve di Cadore, ad Arsiè, a Forno di Zoldo e nella Valle del Mis. Per ogni impianto mi era capitato di scrivere qualcosa contro la Sade. I soprusi, le prepotenze della società elettrica erano, come si dice, il pane quotidiano di ogni giornalista che avesse voluto parlare di ciò che stava a cuore dei montanari di queste vallate. (...)
I primi pezzi su Erto e sul Vajont li ho scritti per raccontare come venivano portati avanti gli espropri. La Sade ricattava i contadini: o accettare le cifre stabilite dal monopolio oppure subire gli espropri di autorità; il denaro intanto veniva versato in banca all'intestatario catastale del terreno che magari era morto o espatriato. Chi in effetti lavorava il pezzo di terra espropriato rischiava di non aver mai in mano quei soldi o di ottenerli dopo pratiche che sarebbero durate degli anni e a prezzo di spese non indifferenti. In queste condizioni i contadini, uno dopo l'altro, hanno ceduto.In seguito sorse un altro problema. Alcune frazioni di Erto venivano tagliate fuori dal centro, con l'invaso. Esse erano collegate al capoluogo da sentieri che attraversavano la valle. I contadini li percorrevano come scoiattoli. Molti ertani possedevano i terreni sull'opposto versante. Come si sarebbero trovati dopo la realizzazione del lago? Chiesero una passerella che collegasse i due versanti. In un primo tempo la Sade disse che l'avrebbe costruita. Poi, attraverso le leve di potere che possedeva, si fece dare un'altra concessione dal ministero che la esonerava dal costruire una passerella. Al suo posto avrebbe fatto una strada di circonvallazione. Per gli ertani significava un lungo e accidentato percorso, soprattutto d'inverno: per i bambini delle frazioni che dovevano recarsi a scuola al capoluogo; per le vecchie, che all'alba andavano a messa; per i contadini che dovevano percorrere oltre tre chilometri per lavorare i loro terreni. E poi c'era il pericolo di frane in una zona dove queste cadevano in continuazione nei mesi del disgelo (...). L'amministrazione comunale di Erto inoltrò un pro-memoria all'ufficio del Genio Civile di Belluno perchè il ministero dei Lavori pubblici fosse informato. Non ottenne nulla e la Sade cominciò a costruire la strada.(...)
I valligiani erano esasperati. Un mattino gli operai dell'impresa vennero affrontati da un contadino che brandiva un'accetta: "Se fate ancora un passo avanti la uso", disse. Chi l'aveva ridotto alla disperazione? (...)

Nel frattempo nel bacino di Forno di Zoldo franò un grosso lembo di montagna.
La popolazione di Erto si allarmò. Se a Forno una diga aveva fatto precipitare la montagna, cosa sarebbe accaduto del loro paese che poggiava tutto su terra argillosa? Queste cose i contadini le sapevano da sempre, ma vollero interrogare i famosi geologi. E il parere dei tecnici e degli scienziati confermò le loro paure: era pura follia costruire un bacino sul luogo. Le perizie geologiche diedero esca a nuove polemiche e le proteste si fecero più vivaci. Si arrivò a costituire un "Consorzio per la difesa della valle ertana" al quale aderirono 136 capi famiglia. In quella occasione scrissi l'articolo per il quale mi processarono. Raccontai quanto avevano detto i montanari all'assemblea costitutiva del Consorzio. Avevo commesso il "reato" di registrare i fatti e un vice brigadiere dei carabinieri mi accusò di aver diffuso "notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico". Fossi veramente riuscita a turbarlo, l'ordine della Sade, oggi non saremmo qui a piangere i nostri morti e a maledire i responsabili! (...) Tra la denuncia e il processo scrissi altri pezzi. E furono probabilmente quelli che contribuirono a farmi assolvere. Nel frattempo infatti, sul monte Toc si erano prodotte fenditure e successivamente una frana era precipitata giù dalla montagna. Parlai del pericolo di nuovi smottamenti e crolli, parlai di una massa di 50 milioni di metri cubi che minacciava di piombare a valle. E sbagliai solo per difetto. Venne il giorno del processo.
I montanari di Erto si presentarono davanti ai giudici di Milano in qualità di testi. "Qui ci sono le prove. Se non ci credete venite voi stessi a vedere. Signori giudici, fate qualcosa perchè non succeda il peggio". (...)
Il Tribunale fece il possibile. Sentenziò che i fatti denunciati erano veri, che il pericolo c'era. Ma chi considerava un articolo sull'Unità più pericoloso di una frana grossa come una montagna restò inerte. Chi doveva trarre le conseguenze della sentenza non mosse un dito, anzi autorizzò la Sade a costruire la diga mortale. Ora che l'irreparabile è accaduto, c'è ancora chi ha il coraggio di affermare che a Roma nessuno sapeva. Come se la Camera, il Senato, dove le mie, le nostre denunce sono state portate dinanzi ai ministri responsabili non stessero a Roma, ma nella capitale del Tanganika.

C'è l'ipocrisia che invoca il silenzio di fronte ai lutti e alle devastazioni, che incolpa di tutto le forze della natura. E c'è chi ci considera soltanto dei giornalisti, più bravi e più coraggiosi degli altri ed è disposto a riconoscere che, sì, qualche straccio di tecnico può essere buttato all'aria purchè non si tocchi il sistema, purchè non si arrivi alla radice.
Non sono nè più brava nè più coraggiosa di tanti miei colleghi. Non volevo certo diventare famosa per un fatto così tragico quando scrivevo contro la Sade. Volevo semplicemente impedire che questo disastro colpisse i montanari della terra dove sono nata, dove ho fatto la guerra partigiana, dove ho vissuto tutta la mia vita.
E ora non riesco neanche a esprimere la mia collera, il mio furore per non esserci riuscita.

di Tina Merlin


Il giornale del Pci - unico in Italia - denunciò che esistevano precise responsabilità per quanto era accaduto.

Fatta 'a mano' con un Apple Macintosh