Dal libro che non piacque a De Cesero [nè al suo predecessore, nè al suo mentore che oggi ospita la Fondazione Vajont onlus] un capitolo estremamente interessante:

Capitolo 10

La ricostruzione delle "unità abitative"

Anche i sopravvissuti all'onda, sia quelli su a monte della diga che quelli a valle, lungo il Piave, hanno dovuto cambiare completamente le loro abitudini e il loro stile di vita. La partita a pallone nei prati o a carte nelle osterie, il lavoro nei campi, le mucche da portare al pascolo, o i cucchiai da vendere per le strade. Anche tutto questo è stato spazzato via con l'onda. La nuova parole d'ordine fatta piovere dall'alto per gli adulti delle aree disastrate, piovuta come una manna o come una mannaia secondo i punti di vista, era una sola: 'lavoro in fabbrica'. I campi, le mucche, la legna da tagliare, ma anche la vita che ruotava attorno a quella vita semplice, i bar, le osterie, i campi di calcio, le processioni pasquali, i tavolini in piazza: tutto fa parte del passato dopo il 9 ottobre. La gente da contadina e montanara viene trasformata in manodopera per le fabbriche che, "grazie" al Vajont, sono nate nella zona. I paesi a monte e a valle della diga hanno storie per molti versi simili; per tanti altri, completamente differenti.

0Della casa di Sebastiano Filippin, sulle sponde del lago artificiale, rimane soltanto un pezzetto di pavimento che non è facile trovare. Dalla strada che dalla diga porta a Erto e Casso si deve scendere verso il lago e poi insinuarsi nel boschetto che, in estate soprattutto, è pieno di vipere. In questo boschetto si trovano ancora tracce della vita che non c'è più: qualche croce con delle foto (su tutte, quella data), una stufa, persino un paio di vecchie scarpe sopravvissute ad un padrone che chissà dove è finito.

Sebastiano conosce bene la strada per arrivare a quel pavimento. Suo figlio Fabiano a fatica gli arranca dietro. Si capisce che appartengono a due generazioni diverse. Anzi, a due mondi diversi. Sebastiano ha le radici nella terra, nei sassi, nelle sterpaglie di un bosco. Fabiano è a suo agio tra i libri. Sebastiano è la pratica: c'è l'ha scritto nelle mani, callose, robuste e abili. Fabiano è la grammatica, a suo agio con la penna in mano, il computer, in giacca e cravatta, ma proprio per niente con i trabocchetti e le asperità della natura.

Per Sebastiano quel pezzetto di pavimento è sacro.
È il cimitero della sua famiglia. Suo padre Vittorio, la mamma Giacoma, i fratellini e le sorelline sono polvere sparpagliata qui attorno. Qui giace la sua prima vita e tutti i ricordi che ad essa appartengono. C'è la panca sotto la quale un giorno lui e gli altri piccoli della casa trovarono un ordigno inesploso che scoppiò stuzzicato dai bambini. I bambini sono uguali in tutto il mondo, sono attratti dai pericoli. Sebastiano si riempì di schegge la schiena e fu sua mamma a toglierle una per una. Fu fortunato a non lasciarci la pelle. Ma, come si dice, si vede proprio che non era destino che in quel luogo dovesse finire i suoi giorni. La notte maledetta non era qui, lavorava a Tai di Cadore e si salvò anche dalla frana.

L'11 ottobre 1963 ad Erto arrivano le autorità che erano appena state in visita a Longarone. Arrivano in elicottero, visto che la strada è andata distrutta, e atterrano, non lontano da dove era la casa di Sebastiano, nella spianata di Spesse,così sinistramente simile a quella che c'è giù sul Piave. E ancora una volta fu il presidente del Consiglio Giovanni Leone a sbilanciarsi con le promesse distribuite generosamente forse per addolcire l'ordine di sgombero: «Che non si badi a spese per assistere questa gente che lascia le sue case e per sistemarla nel migliore modo possibile. Che non si badi a spese, mi raccomando». E ancora, con voce rotta dalla commozione, rivolto ad una donna che piangeva per i suoi morti e per la casa distrutta: «L'avrete, l'avrete una casa, ancora più bella di quella che avevate».

Erto viene sgombrato. È come chiudere il recinto dopo che sono scappati i buoi. Ora che già tutto è successo, che pericolo può esserci? Cosa può succedere ancora? Oramai la frana c'è stata e il lago si è svuotato. Ma le autorità, ora, devono far vedere che fanno qualcosa, devono far vedere che si preoccupano per la popolazione. Se prima erano sordi, ora vogliono far vedere di sentirci benissimo e di essere attenti alle esigenze e alle preoccupazioni della gente. Sempre a patto che nessuno insinui il dubbio che vi siano responsabilità.

Visto che a Longarone vi sono state proteste, visto che a Longarone la stampa ha "fatto gazzarra" insieme a qualche facinoroso e sovversivo, i giornalisti vengono prudentemente tenuti alla larga dal corteo di personalità. Nessuno deve contrastare le decisioni che vengono prese. Durante le emergenze non ci vogliono interferenze, e ad un orrore se ne aggiunge un altro. E così la gente viene obbligata a lasciare Erto le cui case, protette dallo sperone del Fortezza che creava un gobba nel bacino, sono ancora tutte in piedi e nemmeno sono state sfiorate dall'onda. L'onda è andata giù, ha sbattuto sulla parete di fronte al Toc, lambito Casso, prima di scavalcare la diga e piombare sui paesi sottostanti lungo il Piave.

Soprattutto i vecchi e i bambini devono essere portati lontani dal luogo della sciagura. Si deve ricostruire altrove. E soprattutto si deve capire una cosa: "i sinistrati potranno essere fonte di ripresa per le zone depresse". In altre parole: per lanciare quello che diventerà il prospero Nord Est, che nel'63 è ancora soltanto il "meridione del Nord", ci vogliono braccia per le fabbriche. Benedetta quella frana e quell'onda che in un attimo ha trasformato montanari con i buchi nelle scarpe ed emigranti con la valigia di cartone in altrettanti operai. E in più il lavoro, meglio se duro, è un'ottima medicina per dimenticare, per lasciarsi i morti e i ricordi alle spalle. Quassù a Erto e Casso, come giù a Longarone. Come negli altri sud del mondo dove uomini, donne e bambini sono solo numeri per le statistiche, pedine di un gioco giocato da altri.

C'è però un problema. Anzi, ci sono tanti problemi.
Ci sono quelli che hanno perso tutto, casa e parenti. Beh, quelli è facile spostarli di qui o di là. Se non hai niente, qualsiasi cosa ti deve andare bene. Buona grazia che ci sia qualcuno disposto ad aiutarti. A caval donato non si guarda in bocca. Ma ci sono anche quelli che una casa ce l'hanno ancora, in piedi e che, probabilmente, prima o poi vorranno tornarci. Qualcuno potrebbe rovinare i piani. Potrebbe voler tornare a fare quella "vita ingrata" che faceva prima. Bisogna ricostruire. Ricostruire altrove. E qualcuno deve pur andarci ad abitare, 'altrove'.

«In un primo periodo venimmo evacuati forzosamente» racconta Italo Filippin. «il municipio venne trasferito a Cimolais. I comuni cercavano di attirare la nostra comunità, forse per poter godere dei benefici con le ricostruzioni abitative. Sicuramente c'era anche un disegno premeditato da parte dell'ENEL che riteneva opportuno liberarsi della gente attorno alla diga: via la gente, via i problemi ai fini del riutilizzo dell'invaso. Il progetto di "deportare" la popolazione è stato appoggiato da alcuni nostri politici che hanno cominciato ad allettare la gente con le promesse di un posto di lavoro sicuro, in fabbrica. Molti di quelli che erano emigranti e non avevano un attaccamento alla terra come i contadini si fecero attrarre da queste promesse. Quelli che non si fecero convincere dalle lusinghe, vennero spaventati a morte con minacce di future nuove catastrofi: "il Toc verà giù ancora". Nonostante questo, una buona fetta di persone rientrò nelle case sfidando le ordinanze. I primi anni vissero in maniera clandestina, allacciandosi abusivamente ai fili della corrente elettrica. Qualcuno ricominciò a coltivare la terra, comprò mucche e maiali. Nei mesi successivi alla frana avevano infatti dovuto liberarsi di tutto il patrimonio zootecnico sopravvissuto, o per motivi sanitari o perchè semplicemente non sapevano dove metterlo. Chi ritornò nelle vecchie case venne osteggiato con tutti i mezzi. Furono anni duri per tutti noi. Anche quando fu evidente che non vi era più alcun pericolo (nel 1966 venne svuotato il lago e revocato del divieto di ingresso ad Erto, prima nelle ore diurne e poi anche in quelle notturne), chi voleva ricostruire o risistemare le case ad Erto fu ostacolato in tutti i modi».

«La legge 357/64 prevedeva un finanziamento statale di 8 milioni per ricostruire le case» prosegue Filippin. «Con questi soldi a Vajont consegnavano le chiavi della casa e il progetto abitativo andava avanti. È evidente che i politici avevano in mente di ricollocare tutta la gente lì o a Ponte nelle Alpi. A Erto e Casso tutto andava a rilento. Le pressioni dell'ENEL erano evidentemente ancora molto forti. È esemplare la storia di quello che successe nelle frazioni sulla sinistra del lago, Pineda, Prada. Erano queste le zone agricole più fertili. Ancora prima della costruzione della diga, in queste case e casere c'era già l'elettricità. I proprietari avevano fatto arrivare le linee elettriche a loro spese. Il fornitore di energia elettrica di quelle frazioni era la "Coden Aurelio", una ditta privata di Claut, che aveva la proprietà della centralina e già riforniva la Valcellina, ma non le borgate di Erto sulla sinistra, oltre il torrente Vajont. La Coden erogava corrente con un contatore generale, fatto installare dai contadini. Erano loro a leggere l'importo dovuto, a raccogliere i soldi e portarli alla Coden. Anche la manutenzione della centralina era a carico loro. Quando arrivò la SADE, queste linee andarono sott'acqua.

La SADE disse: "Non vi preoccupate. Voi ci cedete le vostre vecchie linee, noi ve ne facciamo di nuove". Mantenne la promessa. Da quel momento il pagamento da parte dei contadini avvenne tramite regolari bollette. La frana distrusse completamente le linee elettriche. Gli abitanti superstiti vennero evacuati. Dopo circa due anni, tutte le famiglie, una sessantina, rientrarono in quelle frazioni di Erto e Casso. Per 25 anni sono però rimasti senza corrente elettrica, nonostante le loro continue pressioni. Mandarono persino una petizione a Pertini, ma nessuno riuscì ad ottenere nulla.
Il paradosso è che la Coden fece domanda per i danni subiti, anche per quelle linee fatte costruire a spese degli abitanti delle frazioni sulla sponda sinistra. Con i risarcimenti costruì una centrale a Claut (che esiste ancora). Il proprietario della ditta, oltre ad aver avuto l'indennizzo per proprietà non sue, andò anche a recuperare i fili e i contatori dei contadini che però, quando lo videro, lo fecero scappare via minacciandolo con i bastoni.
Vi è poi l'episodio delle famiglie Pietro (detto "Pìne") e Bortolo ("Frambol", che in dialetto vuol dire fragola di bosco) Della Putta. Negli anni Settanta si allacciarono abusivamente alla corrente per vedere la televisione. Vennero processati per furto».

Anche Sebastiano Filippin è tra le persone forzatamente trasferite a Vajont. «Un giorno vado al comune di Erto e Casso per chiedere alcuni documenti e scopro di non essere più cittadino ertano. Scopro di essere residente di Vajont. "Ma come, io a Vajont non ho niente! La mia terra è qui" protesto. "Ma perchè ti lamenti. Una casa te la diamo noi. Dovresti ringraziarci, invece di lamentarti. Voi superstiti non siete capaci di fare altro. Lamentarvi e protestare"». A Sebastiano e agli altri superstiti ertani "deportati" a Vajont viene dunque fatto credere che avere una casa nel nuovo insediamento sia un regalo. Non ci sono case e morti da risarcire. C'è solo la 'generosità di chi ha pensato a loro in difficoltà'.
«Ma perchè non mi date i soldi dei risarcimenti, così io la casa me la costruisco dove e come voglio?» osa qualcuno. Ma sono in pochi a farlo. La cittadinanza divisa da ordinanze, intimidazioni, promesse e lusinghe si spacca. Erto e Casso rinasce in tre luoghi distinti: Erto Superiore, a quota 830 metri, sopra il vecchio paese, in luogo di sicurezza; Nuova Erto, nella zona di Ponte nelle Alpi, e Vajont, a pochi chilometri da Maniago, oltre la Valcellina, lungo la strada che porta a Pordenone.
Gli ertani che decidono di rimanere se la prendono con quelli che se ne sono andati: «Se fossimo rimasti tutti, il paese sarebbe rinato e saremmo ancora tutti uniti». La prima pietra per la costruzione di Vajont viene messa il 28 dicembre 1966. Il comune viene inaugurato nel 1971. Sebastiano Filippin viene ad abitare in una di queste case di Vajont che più che un paese sembra un accampamento romano. È così che è stato progettato dal famoso architetto Giuseppe Samonà, con la consulenza dell'economista Nino Andreatta, senatore DC e ministro del Tesoro e del sociologo Alessandro Pizzomo. Sembra che l'imperativo categorico fosse solo questo: ricostruire con il minimo sforzo economico e il massimo rendimento, cioè la sistemazione del maggior numero di sinistrati. Altro che, come aveva promesso Giovanni Leone, 'senza badare a spese, nel miglior modo possibile'.

Il villaggio è costituito da strade e stradine tutte parallele che si intrecciano con altre strade o stradine che le tagliano perpendicolarmente. Le villette, mono o bifamiliari, sono tutte uguali ed hanno i tetti in lamiera, un vero forno d'estate, difficili da riscaldare in inverno. Sembra un villaggio costruito con i mattoncini Lego da un bambino piccolo.

Di diverso da quei moduli abitativi c'è solo la piazza del paese, piazzale Monte Toc, con il Municipio, la chiesa, il colonnato, il monumento ai caduti del 9 ottobre 1963. Non si è trovato di meglio per commemorare quei morti sotto un'onda, di una fontana che sprizza acqua ad eccezione delle estati torride, come questa del 2003, che c'è siccità e non si può nemmeno innaffiare i fiori. Da questa piazza si è pensato bene di far passare una sopraelevata, per alleggerire il traffico cittadino.
«Ma quale traffico?», dice Fabiano Filippin. «Le auto che transitano lì sopra, in un'ora, si contano sulle punte delle dita. Qui sulla provinciale appena fuori di Vajont ci sono rotatorie che potrebbero servire una città come Los Angeles».

Vajont sembra un campeggio in cui si passa un mese di vacanza, non un paese dove la gente ci deve abitare tutta la vita. Non si può dire che sia brutto. Su Vajont non ha nemmeno senso esprimere un giudizio estetico. Si può solo dire che è un paese senza personalità, una colata di cemento dove chi lo ha costruito non ha pensato alla gente che doveva abitarlo. Ha pensato soltanto ad un dormitorio per gli operai delle fabbriche e le loro famiglie. Ha pensato a dei numeri, non certo alle vittime di una tragedia. Ha pensato a gente senza sogni perchè posti come questo, con centinaia di case tutte uguali, tutte grigie in strade grigie, senza negozi, luoghi per incontrarsi e stare insieme, senza nemmeno una sola cosa bella da vedere, beh, posti come questi i sogni li uccidono.

E uccidono anche il senso di comunità. Fortunati sono quelli a cui è rimasta in piedi una casa ad Erto e Casso.

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