Dal libro che non piace al sindaco [nè al suo predecessore, nè al suo mentore che ospita la Fondazione Vajont onlus]:

pierluigideceseroipocrita

Capitolo 10

Longarone ha smesso di essere quel paese che poteva attirare, in una giornata di festa, anche chi abitava nei comuni circostanti per una passeggiata sul corso con il gelato in mano. Longarone è soltanto uno dei tanti paesi dai quali si passa per andare altrove.

«Ma vedrai, fra tre quattro anni» mi dice De Cesero. «Vedrai, con il nostro progetto Longarone diventerà completamente diversa, tornerà ad essere quel punto di riferimento che era una volta».

Tornerò certamente a Longarone, nel 2007 sarò qui a vedere cosa sarà diventata.

Ma come avvenne la ricostruzione delle case e il reinserimento della popolazione? A chi aveva perso la casa, la legge n.457/63 assegnava un lotto per ogni unità abitativa andata distrutta e contributi per la sua ricostruzione. Come successe per le licenze, anche la ricostruzione delle unità abitative avvenne in un modo perlomeno poco trasparente. Per averne un primo assaggio basta leggere questa lettera scritta a macchina (e debitamente firmata):

Belluno, 15/4/1970
Egr. Geometra Arturo ZAMBON,
Municipio di Erto e Casso

Caro Geometra, Le scrivo per vedere se presso il Comune di Erto esistano dei Diritti alla ricostruzione di Fabbricati di civile abitazione che possano essere ceduti. In particolare sarei interessato all'acquisto di un diritto con il mutuo onde effettuare una ricostruzione nel Comune di Belluno.

In attesa di una Sua cortese e sollecita risposta, dovuta ad una particolare urgenza. Le preciso che oltre alle competenze di Sua spettanza, Le sarò riconoscente.

In attesa La saluto Cordialmente, xxxxxx xxxxxxxx.

(questa lettera è conservata nell'archivio del Comune di Erto e Casso).

Non è difficile immaginare a che tipo di riconoscenza si riferiva il firmatario della lettera. Per ricapitolare:

- vi fu il business delle transazioni con i superstiti,
- il business delle licenze e anche
- il business delle case.

Spesso tutto avvenne nel rispetto di leggi fatte 'ad hoc': a volte, gli "speculatori", "procuratori" o che dir si voglia, non contenti di quello che la legalità consentiva loro, pensarono di varcare i limiti. Grazie allo sdoppiamento, previsto dalla legge delle unità immobiliari (se in una casa andata distrutta vivevano più persone, per ogni locale si poteva richiedere l'accesso ai contributi per la costruzione di un'unità immobiliare, che prevedeva una quota fissa oltre ad un mutuo particolarmente vantaggioso), qualcuno per un'abitazione perduta ottenne di fatto di poterne ricostruire anche tre o quattro.
Ovviamente anche in questo caso i più avvantaggiati furono proprio le famiglie senza morti.
I morti infatti non avevano più bisogno di una casa, per loro non si potevano rivendicare dei diritti. Così, altro motivo di disgregazione sociale, ci fu chi si costruì tre e anche quattro case e chi faticò per tirarne su una. In alcuni casi si configurarono però delle vere e proprie truffe ai danni dello Stato.
In un articolo di Tina Merlin (13 gennaio 1981) si legge:

«È stato arrestato il direttore dello IACP bellunese Marcello Sacchet, imputato di dodici reati, fra cui truffa, falso, peculato, interessi privati in atti d'ufficio. Delle imputazioni egli dovrà probabilmente rispondere in concorso con altri. Numerose sono, infatti, le comunicazioni giudiziarie inviate dal procuratore della Repubblica dottor Vitaliano Fortunati ad altri personaggi, tra cui il presidente dell'IACP Eugenio De Mas, democristiano; l'ex sindaco di Belluno Mario Neri (entrambi DC); l'ex sindaco liberale di Longarone Carlo Protti; l'ex vice sindaco socialdemocratico di Belluno ed ex vicepresidente dell'IACP Gaetano Toscano; gli ex assessori DC al Comune di Belluno Bruno Bianchet, Enrico Reolon, Mario Svaluto, Luigino Cason e Mario Bertolissi.

La storia che è costata le manette a Marcello Sacchet è, grosso modo, la seguente.
All'epoca del disastro del Vajont l'Ente GESCAL (GEStione CAse Lavoratori) era proprietaria in Longarone di 10 appartamenti popolari andati distrutti. Secondo la legge sulle provvidenze per il Vajont, lo Stato risarciva, oltre agli insediamenti produttivi andati perduti, anche le case di privata abitazione [...]. Il patrimonio GESCAL venne poi incorporato allo IACP (Istituto Autonomo Case popolari) che si trovò proprietario dei dieci "diritti" del Vajont, con facoltà di ricostruire le abitazioni all'interno del comprensorio delimitato dalla legge. Le 10 case vennero infatti ricostruite a Codissago, nel Comune di Castellavazzo. E da qui incomincia la moltiplicazione dei pani e dei pesci.

mafiaVajont

(Tutti i neretti sono miei, nota di Tiziano Dal Farra)

Marcello Sacchet, allora assessore al Comune di Longarone, si dà molto da fare nella zona (subisce anche un processo con condanna in prima istanza e assoluzione in appello) e diventa nota la sua capacità di sdoppiare le unità immobiliari, facendone risultare due al posto di una e ingraziandosi così, naturalmente, tanti beneficiari, magari parenti lontani dei morti, che si trovarono improvvisamente proprietari di "diritti" dai quali cercarono di ricavare il maggior utile possibile, comprando e rivendendo al miglior offerente, oppure costruendosi più abitazioni che poi affittavano.
Così riesce per esempio a raddoppiare i "diritti" della GESCAL, facendo figurare 10 baracchini, definiti 'garage' ma in realtà "disbrighi" per ricoverare legna e utensili, come unità immobiliari capaci, secondo la dizione della legge, di "produrre autonomamente reddito", solo perchè accanto ad essi si disegna opportunamente il tracciato di una strada.
Cosa se ne fa lo IACP di questi diritti in sovrappiù?
Poichè nella zona disastrata del Vajont non c'è più spazio per costruire, pensa di usarli a Belluno. La legge del Vajont glielo consente. Però bisogna avere il terreno. Chiede al Comune di Belluno due appezzamenti in zona PEEP (riservata cioè all'edilizia economica e popolare), a Cavarzano e a Castion, per costruirvi alloggi popolari. La Giunta DC-PSDI glieli concede con una delibera d'urgenza. Ed è a questo punto che vengono coinvolti gli amministratori di Belluno.

A quanto pare, infatti, la Giunta avrebbe addirittura venduto il terreno allo IACP, contro le norme della legge 1971 sull'edilizia popolare che stabilisce la proprietà pubblica della superficie edificabile PEEP. Lo IACP a sua volta, anche lui contro la legge, avrebbe venduto il terreno con sopra il "diritto" del Vajont (due reati in un'unica operazione!) a sei personaggi, due pretori e ben quattro dipendenti dello stesso IACP, uno dei quali anche assessore comunale di Belluno. E tutto questo, inoltre, senza rispettare nessuna graduatoria degli aventi diritto della casa. Lo IACP costruisce le case per conto dei sei proprietari che usufruiscono così di altre agevolazioni. Ma invece di case popolari, gli alloggi risulteranno delle belle villette.

Nelle pieghe di tutta la vicenda vi sarebbero altre irregolarità al vaglio degli inquirenti chiusi, come ovvio, nel segreto istruttorio. [...]. In città se ne parla da anni e in ogni caso si sa che lo IACP è il trampolino di lancio delle carriere politiche democristiane.
L'attuale deputato Gianfranco Orsini, legato a Bisaglia, ma più conservatore dello stesso "padrino", già segretario provinciale della DC, già presidente della Provincia, è un impiegato in aspettativa.
L'attuale senatore Emilio Neri, anche lui ex segretario provinciale del partito è riuscito, prima di entrare in Senato, ad ottenere una "promozione sul campo" con una delibera dell'Istituto che gli assegnava il posto di direttore tecnico (senza averne i titoli), un posto che doveva invece essere messo a concorso.

Uno degli assegnatari al "diritto" Vajont, l'ex assessore Dc di Belluno Enrico Reolon, è anche egli dipendente dell'Ente. I primi a fabbricarsi la casa con le agevolazioni dell'istituto sono stati proprio il direttore Sacchet e il direttore tecnico Neri, ora senatore, allora semplice "impiegato". Verso Sacchet la gente di Longarone, anche quelli solitamente arrabbiatissimi, non covano un astio particolare: «In fondo è stato l'unico a pagare, il più stupido o forse il meno protetto di tutti». In fondo, lo stesso sentimento che dalla parte friulana nutrono per Arturo Zambon.

Certo è che, in quegli anni di boom industriale e di sviluppo, il potere vero parte da lontano, dalla capitale. È lì che si decide la sorte di tutto il Triveneto. Ci sono a Roma numerosi figli di queste terre. Ci sono Mariano Rumor e anche Antonio Bisaglia, senatore democristiano e suo nemico giurato. Bisaglia è scomparso il 24 giugno 1984 in uno strano incidente di mare a Portofino, proprio nello stesso luogo, la scogliera sovrastante la villa del re degli elicotteri conte Agusta, dove anni dopo si sarebbe suicidata, in circostanze altrettanto misteriose la moglie, la contessa Vacca Agusta.
L'inchiesta stabilì che Antonio Bisaglia cadde dal panfilo "Rosalù" di proprietà della moglie Romilde Bollati di Saint-Pierre in seguito ad un'«onda anomala».
Molti si chiesero come fu possibile che il politico possa essere rotolato giù dalla tuga su cui pare si fosse sdraiato, in una giornata in cui il mare era tranquillo, da un'imbarcazione con il motore al minimo. Com'è possibile, si chiesero in molti, che un'imbarcazione di 22 metri con la stazza di 50 tonnellate potesse venire disturbata da un'onda che a malapena avrebbe potuto far tintinnare i bicchieri della cambusa?
Come fu possibile che nessuno del personale di bordo si buttasse in mare per aiutare il politico, che pare abbia battuto la testa? Su richiesta di Francesco Cossiga, il magistrato Marcello D'Andrea non richiese nemmeno l'autopsia.

Ancora più strana è la morte di Don Mario Bisaglia, il fratello del politico, rinvenuto affogato in un laghetto del bellunese con le tasche della tonaca piene di sassi. Stava indagando sulla dubbia morte di Antonio. Lo scenario politico in cui si sviluppano le vicende del Vajont è questo: il Triveneto è terra di conquista, tutta da inventare, tutta da disegnare a tavolino. È questo, il Nord-Est del miracolo economico.

«Bisognerebbe tanto parlare di Roma nella storia del Vajont» dice Giancarlo Santalmassi che seguì il processo all'Aquila per la RAI TV. «il Vajont mi è tornato alla mente proprio in questi giorni, nel corso del processo a Previti. Il giudice Vittorio Metta, coinvolto nel caso, ha dichiarato che i 400 milioni con cui ha comprato un appartamento alla figlia, ma dei quali non risulta nessuna traccia bancaria nei suoi conti, li ha avuti in eredità da Orlando Falco che fu giudice al primo processo Vajont, quello nel quale vennero assolti tutti. Metta non è riuscito a spiegare in modo convincente a che titolo ricevette questa 'eredità' da Falco».

Alla gente di questa parte alta del Veneto, la politica interessa poco, le ideologie ancora meno. Sono abituati a tenere la testa bassa e lavorare. In Germania o negli Stati Uniti, nei campi o in fabbrica. Perchè per loro la dignità è questa: un lavoro con cui guadagnarsi onestamente da vivere. La politica invece è qualcosa che piove dall'alto. Come una mannaia sulle loro teste chine.

«La filosofia da queste parti è sempre stata questa: "L'è mejo che te tase", è meglio che stai zitto» dice Franco Roccon, sindaco di Castellavazzo. «È per rassegnazione, sfiducia, per carattere. La gente da queste parte preferisce tacere e tirare dritta per la sua strada. Non crede nella politica. Ma se poi si mette a parlare è come una bomba che esplode. Viene fuori tutta la rabbia repressa da anni. Tutti gli episodi successi in questi quarant'anni hanno rubato loro la dignità. Ci vorrebbero dieci libri per raccontare tutto quello che hanno dovuto subire. Con i superstiti del Vajont è quasi impossibile avere un dialogo sereno. Sono diffidenti con tutti. Ma la colpa non è loro, anche se ancora non riescono a rendersi conto che l'unica loro forza sarebbe stata e potrebbe ancora essere quella di rimanere uniti. Avevo tre anni quando è successa la disgrazia. Non ho ricordi diretti, ma mi sono bastati pochi mesi da sindaco per capire che negli anni si è distrutta la loro identità. La politica li ha divisi, messi gli uni contro gli altri, isolati. E anche tutto questo è Vajont».

Intanto su alla diga, nel corso degli anni l'ENEL ha fatto diversi tentativi per alzare il lago e ritornare ad utilizzare quell'acqua per produrre energia elettrica. Ha anche fatto numerosi lavori in funzione di un possibile riutilizzo dell'invaso. In fondo ora quella diga è un costo vivo che non rende niente: deve anzi, per legge, provvedere alla manutenzione e alla messa in sicurezza, ha dovuto ripristinare la galleria del Cellina. È chiaro che vorrebbe poter ricavare ancora qualcosa da quella diga. Ma la gente si oppone con ostinazione.

«In questi anni l'ENEL ha fatto sulle sponde della diga come se fosse tutto suo» dice Guglielmo Cornaviera. «Ma io mi chiedo: di chi è la proprietà della frana finita nel lago? Dell'ENEL, come proprietaria dell'acqua, o dei contadini, come proprietari della terra scivolata giù dal Toc?».

Una risposta a questa domanda non è mai arrivata.

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(Ed anche per questo, FIRMA!...)

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