Cap. 2 -II

2 - L'INCONSAPEVOLE DISTORSIONE DELLA VICENDA DA PARTE DEI MEDIA

L'importante ruolo dei media per la memoria
Il ruolo dei mezzi di comunicazione non è minimamente trascurabile quando inserito nel contesto del suo rapporto con la diffusione di una notizia e la conseguente nascita e successivo sviluppo di una "memoria" collettiva di questa, il tutto dal momento stesso in cui sono nati.
È proprio grazie ai mezzi di diffusione di massa che una notizia raggiunge l'opinione pubblica, che viene così maggiormente sensibilizzata verso questo o quell'aspetto della notizia stessa.
Il ruolo dei media non si limita quindi alla mera informazione riguardo un avvenimento, esso è ampliato ulteriormente dalla successiva influenza nell'elaborazione della notizia stessa da parte di chi la recepisce attraverso il taglio utilizzato per diffonderla. L'utente infatti elabora individualmente la notizia attraverso la conoscenza e l' approfondimento di alcuni risvolti che lo portano a riflettere ed a prender posizione nel giudicarla.
Inoltre, una stessa notizia, quando perde interesse per i media, perde interesse quasi necessariamente anche per un pubblico che, non sempre, ha altri mezzi per approfondire la sua conoscenza al riguardo.
Questa necessaria premessa evidenzia come un approccio mediatico "distorto" o "parziale" nei riguardi di una notizia può portare ad una socializzazione altrettanto errata della medesima negli utenti che la prendono in considerazione, specialmente se tale "distorsione" si verifica, come è accaduto, in un periodo storico che non permetteva agli utenti ampie possibilità di informazione. La cultura era limitata e così anche i mezzi tecnici informativi. Le informazioni ricevute dalle testate giornalistiche erano le uniche fonti di "verità" a disposizione dell'opinione pubblica e la carenza di pluralismo offerta da queste lasciava poco spazio all'insorgere di "dubbi" nell'utente, costretto a fidarsi di ciò che recepiva.

La prima "distorsione tecnica" dei quotidiani dell'epoca
La frana del Toc si verificò alle 22:39 del 9 ottobre 1963, ma nonostante l'ora tarda fu possibile, per la maggior parte delle testate giornalistiche dell'epoca, riuscire ugualmente a correggere le prime pagine delle testate e pubblicare immediatamente la notizia il giorno successivo.
Un giornalista di nome Carlo Pompei così descrive l'approccio alla notizia: «Il 'lancio dell'Ansa arrivò poco prima di mezzanotte. Da Roma, il Vajont appariva quasi un'entità astratta. Telefonata ai Vigili del Fuoco di Belluno. Il centralinista fu di poche parole: 'Non so bene che cosa sia successo: sono tutti fuori. Ma se è caduta la diga, i morti sono migliaia'».
La fretta naturalmente causò un elevato e comprensibile numero di errori ed imprecisioni nella diffusione delle informazioni, giustificati dai tempi mediatici e dalle tecniche disponibili che non permettevano di ottenere aggiornamenti precisi e validi in tempi rapidi.

L'impatto con la catastrofe per i primi giornalisti giunti sul posto risultò inizialmente molto confuso oltre che spaventoso. Essi si ritrovarono in un luogo di cui, nella maggior parte dei casi, avevano scarsa conoscenza. Non poterono servirsi della loro memoria per aver riferimenti geografici precedenti ed elaborare subito l'entità della tragedia. La notte fonda non aiutò di certo le indagini, dal momento che non permise una chiara elaborazione dell'accaduto. Poteva forse essere di qualche immediato effetto la vista di qualche casa sventrata ma per il resto non c'era più nulla.
Altrettanto a nulla servirono le interviste fatte ai pochi sopravvissuti: essi si presentavano in evidente stato di shock ed erano incapaci di dare spiegazioni sensate e fornire dati utili per i servizi dei diversi mezzi di comunicazione.
Basti pensare che "Il Gazzettino", il più diffuso quotidiano dell'Italia nord-orientale, uscì la mattina del 10 ottobre 1963 in 3 diverse versioni in cui venivano inseriti, fino all'ultimo istante disponibile, gli aggiornamenti degli inviati. Nella pagina di apertura, la prima edizione titolava: "Disastro alla diga del Vajont" e non avendo informazioni precise alimentava il dubbio circa il fatto che la sciagura fosse «[...] stata provocata dal crollo totale o parziale del grandioso gigante di cemento armato oppure [...] dalla caduta di una frana di proporzioni elevatissime nell'invaso formato dalla diga". Altre testate titolavano "una valanga d'acqua sommerge case e persone nei pressi di Belluno" ed altre ancora sospettavano "[...]che le vittime debbano contarsi a decine».
Erano passate solo poche ore dalla tragedia e proprio questo motivo tecnico-temporale fu la causa delle iniziali imprecisioni ed errori relativi alla reale situazione. La devastazione dell'acqua aveva dato origine ad un nuovo ambiente scarno, desolato, il quale rese ancor più difficili gli interventi dei giornalisti.
Le linee telefoniche erano state distrutte dall'onda e per poter eseguire una telefonata era necessario recarsi fino a Belluno, ove le comunicazioni erano ancora operative. Il lungo viaggio di 20 chilometri per raggiungere Belluno da Longarone richiedeva almeno mezzora di tempo, cui andava aggiunto quello impiegato nell'attesa di trovare una linea libera in quelle centraline funzionanti che rimasero intasate per ore. I contatti tra redazioni ed inviati, rese già difficili dalle condizioni ambientali create dalla tragedia, non furono così frequenti e non permisero dunque aggiornamenti tempestivi sulle dinamiche della tragedia e sull'evoluzione della situazione.
Le redazioni non ebbero dunque il tempo di controllare tutte le informazioni che andavano in stampa nè di riflettere sul taglio da dare ai vari articoli: si fornì una cruda, semplice seppur imprecisa informazione iniziale riguardante il tragico avvenimento.

L'immediato taglio giornalistico "acritico" di quasi tutti i principali media italiani e la "libertà" della stampa estera
Col passare delle ore la macchina mediatica iniziò a mettersi in moto in modo sempre più massiccio e determinò l'arrivo di enormi quantità di giornalisti di tutte le principali testate di carta stampata italiana e straniera, oltre ai primi giornalisti televisivi e radiofonici dell'epoca. Dalle redazioni, inoltre, col passare delle ore ed il delinearsi dell'entità della tragedia, arrivarono anche gli inviati di punta: le grandi firme del giornalismo italiano.
Solo a partire da venerdì 11 ottobre le testate giornalistiche ebbero il tempo di organizzarsi meglio, di controllare approfonditamente le informazioni che andavano in stampa e di pubblicare ampi servizi con fotografie e grafici illustrativi.
Il tempo di organizzarsi, di informarsi meglio, di capire più a fondo quale situazione stava emergendo portò anche ad organizzare una linea ideologica che ogni testata avrebbe adottato per trattare la vicenda. È esattamente questa linea ideologica mediatica che portò, col tempo, ad una analisi fuorviante del reale evolversi del caso Vajont e della sua conoscenza "distorta" offerta al grande pubblico.
Bruno Ambrosi, giornalista tv della Rai per 40 anni e primo inviato tv del caso Vajont così spiega la "distorsione" della notizia ad opera delle grandi firme del giornalismo italiano: «La grande stampa [...]non credo che a libere coscienze come Cavallari, Corradi o che [...] dovette scrivere a favore della SADE nel senso incolpando la natura, no era talmente spaventoso quello spettacolo, talmente imprevedibile e talmente folle l'idea che un impianto di quelle dimensioni, di quei costi eccetera potesse essere inficiato all'origine da delle perizie geologiche addomesticate od altro che tutti hanno privilegiato la tesi della grande catastrofe assolutamente imprevedibile, tranne pochissimi».
La maggioranza dei media italiani dell'epoca, sin dal primo momento in cui si occuparono della notizia, furono in accordo sulla gravità della tragedia, sulle dimensioni apocalittiche che la contraddistinse, sulla triste realtà che si presentò dinanzi agli occhi dei giornalisti, anch'essi testimoni.
Dinnanzi al profilarsi di ipotizzabili responsabilità nella catastrofe da parte dei costruttori della diga, quasi tutti i media compirono un grave errore: permisero al potere politico ed economico di influenzarli al punto tale da considerare "acriticamente" la realtà, abbandonando lo spirito di indagine giornalistica.
Giorgio Bocca analizza in un articolo gli errori della stampa dell'epoca: «Fra noi cronisti ce n'è uno solo che sappia come sono andate le cose, si chiama Mario Passi, abita a Padova, è corrispondente dell'Unità, negli ultimi tre anni avrà scritto una cinquantina di articoli sulla diga del Vajont e sui rischi mortali che fa correre alla gente nella valle del Piave. Ma sono gli anni della guerra fredda, quello che pubblica l'Unità non conta. Sul Corriere della Sera il giorno dopo la strage è apparso un editoriale intitolato: "Fatalità". Lo ha firmato un noto scrittore di Belluno che non sa niente della diga e del Vajont. Ciò che ha scritto Mario Passi sulle responsabilità degli uomini e dell'azienda elettrica SADE verrà ricordato solo cinque anni dopo al processo trasferito da Belluno all'Aquila, il processo che dà ragione al Corriere: fatalità».
I media tutti, o quasi, immediatamente descrissero la tragedia del Vajont come una "fatalità", senza quasi mai dubitare di tali responsabilità umane e non preoccupandosi mai di verificare la veridicità o meno dei precedenti articoli di una loro collega, Tina Merlin, corrispondente bellunese de "L'Unità", che tempo prima aveva previsto la catastrofe e l'aveva pubblicato sulla testata per cui lavorava. Non si preoccuparono nemmeno di tener in considerazione il fatto che la stessa collega era stata denunciata per "diffusione di notizie false e tendenziose atte a turbare l'ordine pubblico", ma in seguito anche assolta, per cui un giudice aveva riconosciuto che tali denunce della Merlin non erano "false e tendenziose" ma veritiere.
Il clima politico anticomunista dell'epoca infatti si ripercosse sulla credibilità, macchiata di un taglio manifestamente partitico, di alcuni quotidiani rendendo il più delle volte "poco credibile" la sostanza effettivamente trattata. A ciò va aggiunto che proprio sulla base di questa considerazione, la maggioranza degli utenti difficilmente avrebbe acquistato quei giornali dando loro un ampio credito.
Non solo tra gli utenti, anche all'interno della stessa categoria dei giornalisti non esisteva uno sviluppato spirito critico che spingesse il giornalista ad analizzare le cronache altrui per darne poi una propria chiave di lettura, ancor più quando gli articoli da analizzare erano appunto quelli di un giornalismo comunista considerato fazioso a priori. Anche per questo motivo gli scoop de "l'Unità" furono un po' paragonati a profezie di una giornalista sovversiva che si muoveva per parlar male del governo creando ingiusti dubbi sul suo buon operato.

I giornalisti dell'epoca cascarono tutti o quasi in questa disfunzione politico-mediatica che li aveva accecati e non riuscirono a dare una descrizione obiettiva e critica di una vicenda che col tempo avrebbe sottolineato il loro "errore", seppur giustificato parzialmente da un'epoca "particolare". Questo "errore" finì col ripercuotersi sulla coscienza dell'opinione pubblica, magistralmente ed inconsapevolmente "truffata" da questo meccanismo.
Basti pensare che anche libere coscienze come quelle di grandi firme del giornalismo italiano come Buzzati, Bocca, Montanelli, Cavallari, diedero una immagine parziale di quella tragedia, ritenendo erroneamente che una struttura di quelle dimensioni, con l'esperienza scientifica che l'aveva portata a compimento e con i controlli che comportava la sua evoluzione avesse potuto essere il frutto di un errore umano così tragico ed impressionante.

Dino Buzzati, bellunese di origine, scrisse un articolo che, in alcuni suoi stralci più famosi, analizzava metaforicamente la vicenda: "Un sasso è caduto in un bicchiere colmo d'acqua e l'acqua è traboccata sulla tovaglia. Tutto qui. Solo che il bicchiere era alto centinaia di metri e il sasso era grande come una montagna, e di sotto, sulla tovaglia, stavano migliaia di creature umane che non potevano difendersi. Non è che si sia rotto il bicchiere quindi non si può, come nel caso del Gleno, dare della bestia a chi l'ha costruito. Il bicchiere era fatto a regola d'arte, testimonianza della tenacia, del talento, e del coraggio umano. La diga del Vajont era un capolavoro perfino dal lato estetico...Tutto era stato calcolato alla perfezione e quindi realizzato da maestri...Ma non è bastato." Anche Giorgio Bocca su "Il Giorno" scriveva un articolo di tal genere: "Cinque paesi, migliaia di persona, ieri c'erano, oggi sono a terra e nessuno ha colpa; nessuno poteva prevedere. In tempi atomici si potrebbe dire che questa è una sciagura 'pulita', gli uomini non ci hanno messo le mani: tutto è stato fatto dalla natura che non è buona e non è cattiva, ma indifferente. Ci vogliono queste sciagure per capirlo: terribile forza della natura che si scatena a caso. Non uno di noi moscerini vivo, se davvero la natura volesse muoverci guerra".
L'affacciarsi del pericolo di tali responsabilità fu analizzato alla luce di una chiave di lettura politica da parte dei media italiani e decretò schieramenti nella maggior parte dei casi o estremamente propensi alle responsabilità umane ed alla loro denuncia, oppure ad una totale imprevedibilità della catastrofe priva di responsabilità umana ritenuta appunto attribuita ad hoc dalla faziosità politica. Pochi i casi di neutralità o di analisi critica della vicenda.
Maggiore criticità fu invece offerta dalla stampa straniera, le cui testate giornalistiche erano più "libere" di analizzare l'accaduto in modo critico perchè destinate all'informazione dell'opinione pubblica estera, estranea e perciò poco influenzabile dal clima politico italiano dell'epoca. Queste testate giornalistiche non subirono freni di alcun genere alle possibilità di indagine. Furono varie le interviste all'oramai famosa giornalista Tina Merlin, che aveva scritto dell'eventuale frana prima che si verificasse. Non ci fu alcuno scrupolo di natura politica nell'analizzare eventuali risvolti circa le ipotizzabili responsabilità umane. Le testate straniere si mobilitarono con l'intervento anche di esperti che si cimentarono nello studio della dinamica della frana, degli avvertimenti trascurati con leggerezza, al fine di capire come poter evitare che una simile tragedia potesse ripetersi altrove. All'estero si fece tesoro da subito della "memoria" anche analitica delle diverse fasi della "catastrofe" per fare in modo di evitarne così altre.
Purtroppo in Italia non accadde la stessa cosa.
All'epoca la stampa straniera non godeva di una ampia diffusione interna all'Italia, non esisteva una cultura tale da permettere un'analisi delle testate straniere da parte della nostra opinione pubblica che non era, per la maggior parte, istruita alla conoscenza delle lingue straniere. Non esisteva un collegamento mediatico internazionale che potesse permettere alle testate estere di affiancarsi a quelle italiane che trattavano l'argomento nello stesso modo, fornendogli una credibilità sufficiente agli occhi del pubblico di massa che veniva socializzato da una notizia al contrario diffusa in modo "parziale" ed "acritico". La situazione mediatica italiana, legata alla politica ed al potere, non permise nemmeno ai giornalisti italiani di avere sufficiente considerazione delle testate straniere che furono scarsamente valutate nei loro contenuti.

L'approccio di alcune testate giornalistiche italiane importanti
La principale testata italiana dell'epoca, il "Corriere della Sera", il più autorevole quotidiano nazionale, superiore agli altri nei mezzi e nei giornalisti impiegati, adottò linee caratterizzate da vene malinconiche ed arrendevoli, sempre puntando sull'imprevedibilità della tragedia e sull'assoluta colpevolezza della natura impietosa e ribelle.
In realtà fu l'unica testata che, sebbene rifiutando di ammettere la validità delle tesi comuniste circa le responsabilità umane e sostenendo fino all'ultimo la necessità di attendere la sentenza finale della magistratura, non cadde in interpretazioni di basso livello o in costruzioni di pagine giornalistiche ingannevoli o faziose. Questa testata giornalistica italiana infatti era forse l'unica che poteva permettersi una neutralità dettata dal fatto di non essere assoggettata da alcun potere vincolante poichè era essa stessa fonte di potere.
"l'Unità" rappresentava al contrario l'unica voce contro lo Stato e contro i monopoli dell'energia elettrica, anche in forza della linea editoriale indignata e rabbiosa che il giornale adottò successivamente ai fatti rivendicando d'esser stato il primo ed inascoltato organo di stampa ad aver lanciato l'allarme in tempi non sospetti. "l'Unità" all'epoca era ritenuto un bollettino partitico del PCI più che una testata giornalistica: scriveva negativamente del governo qualunque fosse il tipo di intervento da lui esercitato, anche quando obbiettivamente positivo. Va aggiunto che "l'Unità" acuì ancor più le sue invettive in questo caso perchè vide spegnersi un comune come quello di Longarone che era all'epoca retto da comunisti e socialisti. Al contrario del neutrale Corriere della Sera, il linguaggio de "l'Unità" fu molto più aggressivo ed espresse la collera degli inascoltati comunisti. Grazie ai precedenti articoli della Merlin infatti questo giornale aveva avuto il vantaggio di aver battuto sul tempo gli avversari, anche se la Merlin sostenne sempre che il suo non era stato uno scoop o una profezia ma semplicemente il lavoro di una onesta giornalista che ha scritto ciò che tutti sapevano.
Altre testate al contrario ebbero atteggiamenti diametralmente opposti a quello de "l'Unità".
"Il Gazzettino" per esempio, nella sua qualità di giornale locale popolare, ci potrebbe far riflettere su una partecipazione più viva e sincera ai fatti che sconvolsero la gente delle zone. Nonostante questo, la testata locale più importante della zona disse molto meno di quel che doveva: era difatti un foglio democristiano, soggetto ad alta influenza politica, per cui "da una parte è giornale del governo e dall'altra è giornale popolare.
Impresa difficile accontentare gli uni senza scontentare gli altri".
Gli argomenti principalmente toccati si ridussero in questo modo alla semplice pietà ed al lutto unanimi, al fervore dei soccorsi ed all'assicurazione del doveroso e risolutore intervento delle autorità competenti. Non si toccò quasi mai il tema delle eventuali "responsabilità umane" dando per scontato che di questo non si poteva o non si doveva parlare. "Il Gazzettino" infatti, sempre nel timore di uscire dalle righe, compì un oscuro lavoro atto a confermare e cementare l'ordine costituito.
Insieme a "Il Gazzettino" una simile chiave di lettura della notizia fu adottata anche da altri giornali istituzionali quali "L'Osservatore Romano" o anche il "Popolo". L'attenzione data alla notizia si focalizzò sui casi umani, sugli effetti materiali e psicologici della tragedia e sulla prodigalità ed efficienza dei soccorsi, per terminare con la certezza che lo Stato era presente e stava facendo quanto di più non gli era possibile per andare incontro ai bisogni dei superstiti. Lo spazio per le indagini circa la responsabilità della vicenda era minimo: poco si affrontava la materia del reperimento di informazioni e dati da utilizzare per scoprire se veramente la tragedia poteva prevedersi ed in che termini.
"Il Gazzettino", così come altre testate istituzionali, non poterono essere "liberi" da influenze che tendevano ad una interpretazione delle notizie tra il costante anticomunismo stile anni '50 ed una ricercata prudenza nei giudizi, inquietati dal rischio di importunare i palazzi del potere. Queste testate finirono spesso comprensibilmente con l'accusare più o meno palesemente ed in modo del tutto falso i comunisti e la stampa ad essi legata. Interpretarono i fatti erroneamente attribuendo le critiche circa ipotizzabili responsabilità ad un modo di servirsi di una sciagura per calunniare ulteriormente il potere politico statale, addirittura oltraggiando in questo modo la memoria dei caduti con una "speculazione politica".
Ecco come un'altra grandissima firma del giornalismo italiano, Indro Montanelli, scriveva della vicenda sulla "Domenica del Corriere" pochi giorni dopo la tragedia: «Quella di Longarone è una tragedia spaventosa. Ma nella vita delle nazioni ci sono, appunto, anche le tragedie spaventose, le carestie, le pestilenze, i cicloni, i terremoti. Ciò che conta è di saperle affrontare con coraggio, senza farne pretesto di odi e di divisioni interne[...]Se certe reazioni sbagliate venissero dai poveri sopravvissuti che nella catastrofe hanno perso tutta la loro famiglia, non dico che le approverei, ma le comprenderei e le giustificherei. Ma qui vengono invece dagli sciacalli che il partito comunista ha sguinzagliato, dai mestatori, dai fomentatori di odio. E sono costoro che additiamo al disgusto, all'abominio e al disprezzo di tutti i galantuomini italiani».

La distorsione dell'allora marginale televisione
Così come la carta stampata, anche la televisione, assoggettata ancor di più al potere politico, non fu fautrice del perdurare della "memoria" del caso Vajont, nè tanto meno di una memoria corretta.
Bruno Ambrosi, primo giornalista Rai a giungere sul Vajont, racconta: "La televisione del '63, la televisione che si è presa incarico della comunicazione nazionale della sciagura del Vajont, era una televisione rigidamente monocanale. C'era un secondo canale che definirei virtuale, nel senso che non faceva altro che ritrasmettere il telegiornale del primo e qualche programma più leggero, non c'era però nessun tipo di dualismo, non c'era nessun tipo di diversificazione dell'informazione. Era una televisione fatta a immagine e somiglianza del governo, senza nessuna possibilità di critica, senza nessuna possibilità di indagine, in quanto i suoi dirigenti erano nominati direttamente dal governo [...]".
Ambrosi spiega che le edizioni dei telegiornali, tecnicamente molto laboriose nella costruzione e molto dispendiose di tempo, furono dedicate sin dall'inizio alla sciagura, con ampie citazioni agli allora ministri, sottosegretari, e dignitari di governo che spesso "superavano con la loro presenza gli eventi stessi" e il "tutto era fatto e filtrato in funzione governativa".
Molto eloquente il bilancio che Ambrosi fa dei media dell'epoca e del suo approccio alla notizia: "Dubito però, fatta salva la coscienza dei colleghi, che ci fosse qualcosa di diverso dalla linea chiamiamola così, dalla linea della Rai di quell'epoca[...]. Francamente allora per un giornalista del cosiddetto servizio pubblico, che ancora non si chiamava così per la verità, c'era una sola linea da seguire cioè quella fintamente imparziale che era poi di fatto la linea del governo".
In un'altra intervista personalmente rilasciatami aggiunge:
"[...]non ho nessuna vergogna a dichiararle che le grandi ricerche di responsabilità che pure affioravano sembravano anche a me, in quel momento, più strumentalizzazioni politiche che fatti reali e non le ho prese nella dovuta considerazione" evidenziando la normalità di uno spirito giornalistico rigidamente "acritico" verso il potere.

Sempre Ambrosi, in una intervista rilasciata alla giornalista Lucia Vastano per la stesura del suo libro dal titolo "Vajont - L'onda lunga", racconta un inquietante episodio che lo portò a capire la delicatezza dell'argomento in questione: "Erano passati pochi giorni dalla tragedia. Un mio ex-collega RAI, Massimo Rendina, era diventato capo ufficio stampa dell'E.N.E.L. che aveva rilevato la S.A.D.E. Mi telefonò e mi disse: 'Caro Ambrosi, meno male che ci sei tu, che ti conosco, ad occuparti di Vajont. Mi raccomando...Sai bene che noi non c'entriamo nientÈ ".
Naturalmente tutto questo ci fa intuire in modo chiaro il clima dell'epoca e di conseguenza il fatto che nemmeno il mezzo televisivo fece alcun accenno alle eventuali responsabilità della sciagura analizzandola esclusivamente come un evento naturale catastrofico ed imprevedibile, contribuendo in tal modo a dare il via ad una socializzazione altrettanto distorta della notizia quanto quella offerta dal più delle testate della carta stampata.

Il "normale" abbandono dei media
La "memoria" mediatica del Vajont subì molto più della "parzialità" iniziale con cui era stata diffusa. Secondo la più tradizionale delle regole giornalistiche, il caso Vajont subì anche l'abbandono da parte dei media.
Il dottor Ambrosi, in un'intervista personalmente rilasciatami, spiega: "Come ben sa il giornalismo è all'insegna del mordi e fuggi, per qualunque evento, per quanto strepitoso possa essere[...]. Il giornalismo è sempre più rampante e già all'epoca a questa regola del giornalismo non sfuggiva nessuno per cui il Vajont, dopo quel mesetto....difatti anch'io rientrai al mio normale lavoro. Con tanti morti, allestito il cimiteraccio di Fortogna, fatte le cose, iniziate le polemiche, le faccende, l'inchiesta parlamentare, poi l'argomento si sgonfia".
Alla televisione dell'epoca bastarono addirittura soli sette giorni per toglier al caso Vajont, con le sue quasi 2000 vittime, l'importanza necessaria della prima notizia del telegiornale, come spiega sempre Ambrosi: "[...]il 17 (ottobre 1963), sono passati soltanto sette giorni, il Vajont perde la prima pagina, non è più il servizio di apertura del telegiornale unico di allora[...]E, finita la hitline, la prima pagina appunto, se ne parlerà ancora con evidenza il giorno 18 ottobre in maniera patetica con la classica frase 'La vita è incominciata nuovamente a rifiorirÈ . Era il primo giorno di scuola nella valle del Vajont, c'erano tutti i bambini sopravvissuti, piccoli ed ordinati, che andavano a scuola".
Ecco l'immagine, data dai media, alle condizioni degli abitanti della valle dopo la catastrofe: la "normalità", il ripristino della vita quotidiana attraverso il rientro a scuola dei bambini. Il tempo passava e l'importanza riservata all'evoluzione del caso Vajont scemava di interesse nelle testate giornalistiche, e di riflesso anche nella coscienza dell'opinione pubblica.
Nei mesi che seguirono la disgrazia, quando oramai la prima pagina della carta stampata, così come la notizia di apertura del telegiornale, non avevano più il Vajont quale protagonista, i media si preoccuparono sempre maggiormente di raccontare le strazianti storie umane dei sopravvissuti e dei loro familiari persi nella tragedia.
Le notizie che giungevano riguardo ai seguiti giudiziari della vicenda, o che comunque potevano in qualche modo intaccare l'immagine dello Stato (a quell'epoca al di sopra di ogni plausibile sospetto) erano relegate in secondo piano. Il pubblico sentiva parlare di Vajont, dei casi umani, del celere intervento dei soccorritori e della rinascita di quei luoghi.
Il quadro descritto dai media era molto nitido, non lasciava alcun dubbio all'utente. Quest'ultimo si lasciava necessariamente convincere dalla "fatalità" dell'evento, dall'ingiustizia delle accuse circa le "responsabilità", ritenute un artifizio creato ad arte da politicanti speculatori.
Inseriti nei panni degli ignari utenti, come si poteva dubitare di verità raccontate da firme del prestigio di Montanelli, Cavallari, Bocca, o altri nomi così prestigiosi? Come potersi porre delle domande quando la conoscenza di ogni fatto importante di cronaca derivava proprio da quelle penne?
Eppure molte importanti iniziative parallele alla vicenda vennero il più delle volte tralasciati dall'attenzione dei mezzi di comunicazione: si pensi, ad esempio, alla "Marcia della sicurezza" realizzatasi nell'inverno 1963 e promossa dal "Comitato per il Progresso della Montagna". Questa iniziativa vide la partecipazione dei superstiti della tragedia del Vajont, oltre a 10.000 persone provenienti da tutta Italia dalle zone soggette a sfascio e pericolo. Fu una manifestazione di solidarietà per le vittime del Vajont, ma anche uno dei primi richiami civili al governo affinchè mettesse mano ad un programma sulla sicurezza e lo sviluppo delle zone montane.
Anche in questo caso la notizia, dati i suoi toni polemici nei riguardi del potere governativo, subì la stessa sorte: "La Stampa", "Il Giorno" ed "Il Resto del Carlino" non ne fecero alcun accenno; "Il Gazzettino" le diede un minimo rilievo, senza valorizzarla, mentre "Il Corriere della Sera" se ne occupò brevemente in un articolo in tredicesima pagina.
Allo stesso modo il senso dei risultati dell'inchiesta governativa, detta "Inchiesta Bozzi", furono modificati da "Il Gazzettino", il quale pubblicò un articolo intitolato: "Severo giudizio dell'inchiesta Bozzi sulle disfunzioni dei pubblici poteri". Esso informò su alcune disfunzioni dei poteri pubblici ma senza far alcun riferimento alle colpe della S.A.D.E..

Il tempo scorreva e con esso si delineavano i risvolti giudiziari della vicenda che continuarono ad evidenziare sempre più i segni delle responsabilità dirette dello Stato e degli enti pubblici nella disgrazia. I media italiani rispettarono il loro dovere di "liberi" sostenitori del governo, all'epoca considerato quale garante dell'ordine pubblico. Essi non tentarono di scavare nella vicenda con le sue complesse sfaccettature servendosi di uno spirito oggettivamente critico bensì continuarono a sminuire ogni risvolto che apparisse compromettente per il "potere" politico. Le testate giornalistiche, radiofoniche e televisive si limitarono ad affrontare i temi più favorevoli per l'amministrazione statale, mantenendone un'immagine assolutamente positiva di fronte alla possibilità di giudizio dell'opinione pubblica.
I media manifestarono così sempre più la loro sudditanza spudorata verso il potere e discapito di una memoria "corretta" e "giusta" dei fatti, e soprattutto del loro pervenire al pubblico, costituito da utenti-elettori.

La nuova immagine mediatica dei sopravvissuti
Dopo l'abbandono riservatogli, la stampa tornò ad occuparsi del caso Vajont in occasione del primo anniversario della tragedia, affrontando la notizia con un taglio basato principalmente sull'inno alla ricostruzione: furono sottolineati gli inizi dei lavori a Longarone e si affermò il ristabilimento della normalità ad Erto (notizia falsa al punto da spingere la giunta comunale a votare un ordine del giorno riguardante la drammaticità della situazione della comunità, il quale fu poi pubblicato su "l'Unità").
La disgrazia e le responsabilità umane furono nuovamente tralasciate per dare uno spazio maggiore a temi quali il buon operato del governo (a proposito della fornitura del massimo aiuto possibile per i poveri superstiti), la celebrazione di cerimonie commemorative ed il resoconto sull'ottimo esito dell'attività svolta dai reparti militari e dai soccorritori in generale, che realmente avevano fatto un'opera incredibile.
Le polemiche dei sopravvissuti però imperversavano, così come le indagini giudiziarie. Il taglio mediatico intrapreso dai servizi risultò indifferente verso questa parte della vicenda risultando l'effettivo capolavoro dell'opera di distorsione mediatica e di svilimento della realtà del caso Vajont.

Purtroppo non ci si limitò a questa "mancanza" di una visione totale della realtà, si fece di peggio creando una ulteriore "distorsione" della realtà dei fatti. I media dell'epoca furono in grado di stravolgere la vicenda nei riguardi di una sua effettiva comprensione da parte dell'opinione pubblica al punto di arrivare al capovolgimento della figura stessa delle vere vittime.
Subito dopo la tragedia la macchina della solidarietà si mosse in modo massiccio offrendo un importante contributo per i sinistrati rimasti senza niente. Il governo si preoccupò di fornire aiuto economico e materiale ai superstiti. Gli stessi mass-media organizzarono sottoscrizioni umanitarie per raccogliere soldi da far pervenire alla povera gente che aveva perso tutto ed in molti casi, come per quella del "Corriere della Sera", si realizzò una diretta distribuzione di parte dei soldi ai superstiti. Aiuti di ogni genere giunsero da tutta Italia, ma anche dal resto del mondo.
Nel 1964 il governo approvò una legge ad hoc per risollevare le sorti economico-industriali di quell'area disastrata, la cosiddetta "Legge Vajont". Questa legge fece piovere una montagna di soldi su quella parte d'Italia che era stata colpita dalla tragedia.

La stampa, ancora una volta in modo acritico, diede totale credibilità al buon governo che si impegnava ad aiutare i poveri e bisognosi superstiti e non si preoccupò di analizzare le ampie dimensioni delle ritorsioni di quella legge, sopratutto nei confronti delle persone cui era stata inizialmente destinata. L'acriticità non permise di indagare sull'effettivo utilizzo di quella legge e dei suoi benefici non tanto da parte dei bisognosi destinatari, quanto da parte di "furbi" impresari che se ne approfittarono ingannando questi ultimi.

Se fino a quel momento il sopravvissuto era raffigurato attraverso il richiamo a sentimenti di pietà e commozione, ma col passare del tempo la sua figura venne dipinta coi colori dello sfaccendato ubriacone che vive a spese della solidarietà degli altri cittadini, e dello Stato che fa di tutto per sopperire alle mancanze derivategli dalla catastrofe.
Questa immagine ulteriormente "traviata" non tenne in considerazione i risultati psicologici causati dal trauma, nè le condizioni di smarrimento per avere perso tutto, nè quelle di rabbia per veder che la giustizia non arrivava, mentre le calunnie diffuse erano abbondanti.
Anche questa nuova immagine della popolazione rimasta a vivere nella valle contribuì, per "merito" dei media, a socializzare in modo fuorviante gran parte dell'opinione pubblica la quale, immagazzinata la memoria di una catastrofe ritenuta "naturale", fu in seguito portata a ritenere rimborsati adeguatamente coloro che "dalla natura impietosa" erano stati feriti. Del resto, per chi non poteva far altro che fidarsi delle notizie che gli venivano offerte, non avendo nemmeno la possibilità di un termine di paragone "credibile", non fu assolutamente difficile ritenere quei superstiti quasi come "beneficiari" della tragedia.
Anche i media furono in questo modo partecipi del fiorire di un "secondo Vajont", che come il primo non permise ai "montanari", o almeno a quelli di loro che erano sopravvissuti, di esser ascoltati nei loro lamenti e nelle ingiustizie che li stavano circondando. Ancora una volta i media, schiavi del potere che li rendeva inconsapevolmente ciechi di fronte alla verità ed incapaci di reagire all'eventuale profilarsi di qualsiasi dubbio, preferirono fissare nella memoria degli italiani la bontà e solidarietà dello Stato che si impegnava a fondo per risolvere una situazione di disagio e la "pioggia di denaro" che cadde sui sopravvissuti ingrati ed avidi nei confronti del loro benefattore.
La memoria civile collettiva restò dunque "traviata" dalla considerazione della "fatalità" quale unico motivo della morte di 2000 innocenti. Gli utenti dei media non ebbero la possibilità di restare indignati seriamente nei confronti di una vicenda così terribile. Non ebbero la possibilità di lottare perchè un sistema corrotto del quale non avevano ancora conoscenza fosse abbattuto. L'opinione pubblica non fu spinta verso un comune desiderio di giustizia per i sopravvissuti anche per questi motivi. Il tempo fece in modo che la loro storia fosse considerata al pari di ogni altra vicenda di devastazione per opera di calamità naturali e dopo poco tempo dimenticata.

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