I padroni della diga più alta del mondo
Fu la più prevista delle sciagure. Solo che era troppo importante per la Sade chiudere in bellezza l'epopea delle dighe; e oltretutto non si poteva darla vinta a quella comunista di Tina Merlin.
E la diga più alta del mondo fu scavalcata via da acqua e fango e costò duemila morti incolpevoli. Divenendo la più grande strage di MAFIA di questo Paese.
Parlare oggi, a quasi cinquant'anni dalla strage, del caso del Vajont, non è tanto per commiserare, o per condannare (o per assolvere), quanto per tornare su fatti e antefatti che in un'azione congiunta di uomini potenti, di fango e di acqua hanno portato alla morte inaccettabile di duemila persone, e un intero paese, Longarone. Il nostro compito, oggi, è quello di capire bene la lezione, per impedire che le condizioni si ripresentino e la frana di un altro monte Toc - anche figurato, o solo "diverso" - scivoli di nuovo, irresistibilmente in un nuovo invaso e di nuovo l'acqua salti via un'altra diga «più alta del mondo», seminando ancora la distruzione. I personaggi criminali e criminogeni di allora che abbiamo imparato a conoscere, patetici e mascalzoni, arroganti e idioti (o intelligenti ed eroici) non erano diversi e non ne sapevano meno dei loro eredi Paniz, Scajola e Brancher. Il capitale oggi non è meno pericoloso, non ha meno voglia di profitti, anzi. Anche la cricca del cemento è la stessa. Ma da allora, lo applica "depontenziato" come a L'Aquila.
Ma la memoria potrebbe servire a chi vuole la terza canna sotto il Gran Sasso, a chi vuole pilastri alti quattrocento metri sulle coste di Sicilia e Calabria (per stendere sopra il mare un campo di calcio lungo tre chilometri), a chi vuole costruire decine di centrali elettriche, con anche un po' di nucleare. Niente più di un principio di precauzione, un buon uso dei principi di "Via" (Valutazione di impatto ambientale). Niente più, di questo.
Il «Taccuino dell'azionista» del 1955 portava, a pagina 379, un'informazione stuzzicante. «Al piano nazionale di nuove costruzioni concordato con il governo nel 1948 la Sade ha partecipato con una quota di circa 900 milioni di kWh, coi nuovi impianti Piave-Boite-Maè-Vajont». In quei tempi ci si doveva contentare. Poche notizie filtravano dai consigli di amministrazione e il meritorio Taccuino, per poter comunicare qualcosa agli amati risparmiatori, era disposto a scrivere che «l'esercizio in esame è stato fecondo di opere».
Del resto, un critico severo dei 'padroni del vapore' o dei 'baroni elettrici' come Ernesto Rossi (le definizioni sono inventate da lui) ironizzava per la sua scoperta dei tre bilanci semiufficiali compilati dalle principali società per azioni: uno per gli usi interni (teutonicamente esatto), uno per i risparmiatori (manipolato) ed un altro destinato al Fisco (minimale, falso). L'informazione circolava il meno possibile; e anche il fatturato era un segreto; e candidamente, padroni e baroni spiegavano che non si dovevano dare «ingiusti vantaggi alla concorrenza». Concorrenza che nell'Italia delle dogane interne e dei dazi non era, a ben vederla, un granché; e quale poi fosse la concorrenza di un'impresa elettrica monopolista, nessuno lo spiegò mai.
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Il Vajont era una carta importante per la Società Adriatica di elettricità, o 'Sade' come confidenzialmente era chiamata in circoli ristretti. Ufficialmente era «l'Adriatica», un'entità orgogliosa e potente, uno stato nello stato. Era stato Volpi di Misurata a farla grande, a procurarle il monopolio di fatto su produzione, trasmissione e distribuzione elettrica nel Triveneto (Istria compresa), a mettere le basi di Marghera.
E il conte Volpi era quello che con un colpo di mano aveva ottenuto nell'ottobre 1943, nella Roma-città aperta, dagli uffici semideserti, l'autorizzazione a costruire una centrale idroelettrica e la relativa diga lungo il corso del Vajont, affluente di sinistra del Piave.
Autorizzazione che se appare dissennata e totalmente irregolare a chi ne legge oggi, venne invece sanata e confermata qualche anno dopo, tornate la democrazia e la libertà, da un decreto del presidente della repubblica, Luigi Einaudi. La ricostruzione era un obbligo primordiale e si doveva pur compensare la Sade per la dolorosa perdita dell'Istria.
Intanto, all'ex ministro fascista Volpi venuto a mancare, era succeduto un altro ex ministro fascista, Vittorio Cini, conte di Monselice e senatore del regno, cui il duce aveva affidato anche la costruzione dell'E42, (vulgo: il palazzo dell'Eur, a Roma), un neo-Colosseo quadrato per celebrare i fasti del ventennio. Una breve fronda fiutato il vento, un passaggio da Dachau, avevano tenuto lontano Cini da ogni forma di epurazione. E i suoi «meriti patriottici» erano 'tali e tanti' che quando si tenne il processo per la catastrofe del Vajont il suo nome fu subito escluso e protetto.
Era stato uno dei veri grandi del regime e tuttavia quando il regime finì, Cini rimase nei nuovi ranghi dei "padri della patria" repubblicana.
L'Adriatica aveva esperti alpinisti. Il maggiore di tutti era Carlo Semenza, un professore molto accreditato sempre alla ricerca di acque da imbrigliare e di nuove valli da sbarrare. Un vero primato è «la costruzione della diga da sbarramento ai piedi del ghiaccio (sic) della Marmolada (a quota 2.050) compiuta quasi per l'intero... Si prevede di poter iniziare nel prossimo inverno un invaso parziale», narra il Taccuino. Ed è il Semenza che da almeno trent'anni ha puntato il dito sulla valle del Vajont. Il suo primo progetto, come si legge(va) in www.vajont.net, è del 1929; e nel corso degli anni anche la diga è cresciuta, per contenere più acqua e fornire più energia a Venezia, al suo porto, alle sue industrie (della Sade) nascenti. « Qui sorgerà la diga più alta del mondo, "il sogno della mia vita" », assicura Semenza: il primato dell'ingegneria italiana, e un vanto imperituro per l'Italia.
Il momento è molto difficile per l'industria idroelettrica. A ben vedere ha fatto il pieno. Le necessità energetiche del paese sono oramai legate alle centrali termoelettriche e le «promettenti ricerche di idrocarburi» in Val Padana o in Sicilia di Mattei (ENI) spingono in quella direzione. I più preveggenti, tra cui la stessa Sade, pensano addirittura all'«utilizzazione industriale dell'energia nucleare».
Questo è il clima industriale in cui matura la nazionalizzazione elettrica e la nascita dell'Enel.
Ernesto Rossi, pubblica nel suo libro «Elettricità senza baroni» una tabella dalla quale si vede che nel 1960 la produzione idroelettrica era di 46 milioni di kWh contro gli 8 milioni termoelettrici. Due figure mostrano che la distribuzione, quasi tutta al Nord, delle nuove centrali termiche non fa che ricalcare la struttura idroelettrica precedente. Il Sud era e rimarrà senza elettricità, almeno finché ne rimarranno i baroni.
E i baroni si difendono. In pratica si impadroniscono di un partito di nobili e risorgimentali origini, il Pli (partito liberale), e lo affidano a un uomo di banca, Malagodi, perché costruisca un po' di barricate. Ma non bastano i soldi degli elettrici per fermare la spinta al cambiamento. I chilowatt sono più importanti dell'ideologia e i chilowatt negli anni '60 li può fornire a tutti, Sud compreso, soltanto l'industria pubblica.
Nel frattempo la Sade completa la costruzione della diga con estrema rapidità. Se la diga sarà funzionante entro il 1960, e quindi piena d'acqua, non perderà i contributi ministeriali. Così si va sempre più in fretta. Se gli abitanti di Erto e di Casso, e perfino quelli di Longarone, sul versante veneto, sono preoccupati, la Sade li accusa di essere comunisti e sguinzaglia loro dietro i carabinieri. Tina Merlin, giornalista dell'Unità, riesce a farsi trascinare da questi in tribunale che però l'assolve. La sua passione è lucida e veemente: vede il monte che frana, e vorrebbe che tutti sapessero, e si tirassero via. Ma la Sade è sorda.
Carlo Semenza non ascolta neppure suo figlio Edoardo, il giovane geologo che utilizzando un'altra scienza, sa da quasi quattro ANNI le stesse cose che sa la imputata Merlin. Ma oramai è tardi.
Fonte: http://italy.indymedia.org > dal "Il Manifesto" giovedì 9 Ottobre, 2003
- I riferimenti a "Paniz, Scajola e Brancher" e al "cemento depotenziato come a L'Aquila" ce li ho aggiunti io, Dal Farra Tiziano.