Secolo XX

Anno 1 - N. 33 - 30 0ttobre 1963
Settimanale dl Politica, Attualità e CulturaDirettore responsabile: GIORGIO PISANO'

| SOMMARIO |

2 Lettere al Direttore

COSTUME
9 Diario del Secolo XX, di Teresio

CRONACHE
10 La "Garrota" venne ripristinata nel '34 dai marxisti spagnoli

11-12 Presidiano il cielo d'Europa i bombardieri atomici francesi, di Cristiano Bralda

CORRISPONDENZE INTERNE
13 Istruttori d'oltre cortina per i "commando" del PCI - I seminaristi rossi hanno imparato la lezione, di Piero Montigiani

28-29 La condanna di Padre Balducci - L'apostolo del disfattismo ha ricevuto quello che si meritava, di Giuseppe Chidichimo

CORRISPONDENZE ESTERE

14-15 Guerra, ribellione e caos stanno sommergendo l'Algeria, di Lamberto Cristani

SERVIZI SPECIALI

3-8 Longarone: potevano salvarli tutti - L'allarme venne lanciato due ore prima della tragedia, di Paolo Pisanò.

16-22 La "Generazione che non si è arresa" - XIII- Tra i rivoltosi di San Vittore, narrazionedi Giorgio Pisanò

23-27 11 fascismo dalle origini alla dittatura - XVII- La strage del Diana

ECONOMIA

12 Le notizie economiche che nessuno pubblica

ARTE DEL SECOLO XX

30 Una biasfema rappresentazione che infanga la memoria di Pio XII, cronaca teatrale di Giovanni Panutti.

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IN COPERTINA
Longarone. Un abitante del paese distrutto, tornato in patriaall'annuncio della tragedia, piange sulle macerie della sua casa,amorevolmente confortato da due soldati. In questo numero,alle pagine 3-8, i risultati della inchiesta da noi condotta suiluoghi della tragedia: le testimonianze raccolte provano chel'allarme era stato lanciato almeno due ore prima della catastrofe e che migliaia di vite umane potevano essere salvate.

Secolo XX - 29 ottobre 1963
LA BALLATA DELLE JENE

Egregio Direttore,
     nulla da eccepire a quanto lei ha scritto nell'ultimo numero del "Secolo XX", in merito alle responsabilità generali dell'attuale classe dirigente italiana nel terribile disastro del Vajont. Ma ha fatto male a citare, come "pezza d'appoggio" i comunisti e l'articolo del 1959 della giornalista Merlin.

I comunisti non avevano previsto un bel nulla nemmeno loro, perchè era umanamente impossibile prevedere un disastro di quelle dimensioni. Avevano soltanto dato voce (per i loro scopi propagandistici, come al solito) e non erano neppure stati i soli, a preoccupazioni certamente fondate e doverose, ma che si riferivano unicamente alle eventuati conseguenze d'una frana del monte Toc sui paesi rivieraschi del bacino (cioè Erto e le sue frazioni) senza minimamente pensare alla possibilità di una frana tale da provocare il superamento della diga da parte dei milioni di metri cubi d'acqua che hanno distrutto Longarone e provocato le migliaia di morti. Rileggersi l'articolo di allora della Merlin (checchè se ne dica ora) è decisivo in proposito. Ed anche la sentenza del Tribunale di Milano, oggi tanto strombazzata, non accennava affatto alla possibilità di un disastro con le modalità con cui si è verificato, ma soltanto alle possibili conseguenze dell'azione erosiva delle acque per la sicurezza degli abitanti esistenti sulle sponde del bacino!

Attribuire qualche merito ai comunisti in questa tragica faccenda, anche se essi fanno tanto chiasso per attribuirsene è quindi senza fondamento nè giustificazione. Essi sono semplicemente delle jene che si sono gettate senzaindugio, col solito spietato cinico calcolo che li distingue, sui poveri morti di Longarone per farsene seme di futuri successi elettorali: e purtroppo, nel clima vigente, senza che nessuno abbia il coraggio e l'intraprendenza di metterli a posto, questi successi li avranno.

Genova, GIOBATTA PARODI


Riproducendo nel numero scorso, il titolo dell'articolo con il quale nel 1959 l'Unità denunciava il pericolo creatosi nel bacino del Vajont, io non ho inteso lettore Parodi attribuire alcun merito ai comunisti. Sapevo benissimo che il PCI aveva condotto analoghe campagne per tutte le dighe in costruzione e da costruire, solo perchè, così facendo, poteva speculare sui risentirnenti delle popolazioni locali che vedevano i loro interessi passare in secondo piano di fronte a quelli, molto più vasti e imperativi, della collettività nazionale. Sapevo benissimo, come del restosanno tutti, che gli incessanti attacchi comunisti alle grandi società elettriche perseguivano lo scopo finale di togliere all'industria privata il monopolio dell'energia elettrica per metterlo a disposizione della voracità del partiti di centro-sinistra.

Ma ho voluto ugualmente citare l'Unità a dimostrazione della incapacità, della irresponsabilità, della incoscienza della nostra classe dirigente. Le autorità, centrali e locali, avevano il dovere, specie dopo il passaggio allo Stato delle aziende elettriche, di tenere gli occhi bene aperti e le orecchle ben diritte, per raccogliere, valutandole a fondo, tutte le denuncie sui pericoli, veri o presunti, che potevano profilarsi nei giganteschi sbarramenti creati tra le montagne. Tutte le denuncie e particolarmente quelle di fonte comunista. Prima dl tutto perchè, mescolate al veleno delle polemiche e degli attacchi, potevano esservi contenute delle verità, e la salvaguardia delle vite e del beni è un sacrosanto dovere, il primo dovere, di chi governa; in secondo luogo per impedire che, a disgrazia avvenuta, i comunisti potessero gettarsi cometante jene, a banchettare sulle vittime.

I nostri uomini di governo, responsabili della attuale classe dirigente, non hanno saputo impedire nè la strage nè il banchetto. Nè posso accettare il discorso secondo il quale nessuno avrebbe potuto prevedere una catastrofe così immane. Il pericolo esisteva, l'allarme era stato dato, e non solo dall'Unità. Le previsioni forse troppo ottimistiche dei tecnici, dovevano essere valutate, in sede politica, con una visione ben più ampia e responsabile della realtà. Tutte le previsioni dovevano essere prese in considerazione, anche le più catastrofiche. Tutto ciò, invece, non è avvenuto. La tragedla èaccaduta dopo il passaggio allo Stato delle aziende elettriche. Mille e mille innocenti sono morti e potevano essere salvati. Legga i risultatidella inchiesta compiuta da Secolo XX e pubblicata nelle pagine che seguono. Mille e mille innocenti sono morti, invece, perchè tutto l'apparato burocratico dello Stato si trova oggi paralizzato, inquinato, dalla viltà, dalla irresponsabllità, dall'incapacità della nostra classe dirigente.
Questa classe dirigente di pavidi e di intrallazzatori, che si dice democratica e che lascia morire migliaia di Italiani senza muovere un dito. Questa classe dirigente che si dice anticomunista e che riesce a fornire alle jene rossemigliaia di morti su cui imbastire una colossale speculazione politica, che fornisce gratuitamente e stupidamente alla sovversione marxistale armi che maggiormente possono favorirla.
      Poveri morti del Vajont, UCCISI due volte.



Longarone: potevano salvarli tutti -

L'ALLARME VENNE LANCIATO DUE ORE PRIMA DELLA TRAGEDIA


Le testimonianze inedite da noi raccolte provano, senza ombra di dubbio, che fra le 21 e le 22 di quel tragico 9 ottobre le autorità sapevano che stava per accadere qualche cosa di molto grave: tanto è vero che, almomento della sciagura, gli alpini di stanza a Belluno erano già pronti per uscire dalle loro caserme. Ma nessuno pensò di avvisare la popolazione.

(dal nostro inviato PAOLO PISANO')

Le migliaia d'innocenti morti nella spaventosa catastrofe del Vajont potevano essere salvati. Questa è la conclusione alla qualesiamo giunti dopo avere condotto una vasta e accurata inchiesta sui luoghi della immane sciagura. Potevano essere salvati perchè è certo chegià due ore prima della frana un vasto allarme si era diffuso a Belluno e a Venezia, sede della società concessionaria del bacino, la ENEL-SADE. Abbiamo scoperto infatti, tra l'altro, che, al momento della tragedia, gli alpini del battaglione "Belluno" dl stanza nella città omonima, erano già in allarme, pronti per uscire dalla caserma.

La nostra indagine si è sviluppata su due binari moltoprecisi: le responsabilità remote, che investono l'operatodella SADE (società concessionarla fino al marzo di quest'anno), degli organi di controllo dello Stato, e della ENEL-SADE, l'ente nazionalizzatore che ha sostituito la SADE nello sfruttamento del bacino del Vajont; le responsabilità immediate, che ricadono sugli organi centrali eperiferici dello Stato e sulla azienda elettrica statale.
Illustreremo per prima cosa, nelle sue grandi linee, la catena delle responsabilità remote: una catena che iniziò praticamente nel 1948, allorchè la SADE ottenne la prima concessione governativa per l'utilizzazione delle acque del Vajont.

RESPONSABILITà DELLA SADE
La SADE, prima della nazionalizzazione, avvenuta nei suoi aspetti concreti nel marzo scorso, era il gruppo che controllava la produzione, il trasporto e la distribuzione di energia elettrica in tutto il Veneto. Costituita sotto forma di società per azioni, il suo obiettivo era, ovviamente, la ricerca del profitto.
Anche lo sfruttamento del torrente Vajont rientrava dunque nei suoi compiti specifici di società privata che tende a valorizzare nel modo migliore i capitali impiegati. Fatta questa premessa, è chiaro che l'attività della SADE, svolta in funzione di un utile, non doveva necessariamente anteporsi degli interessi che esulassero dalla ragione sociale (statuto) per cui la società veneta si era costituita ed agiva.
Non è detto però che gli interessi pubblici non dovessero essere tutelati. Tutt'altro. La responsabilità di questa azione in difesa della collettività, eventualmente messa in pericolo dalla SADE, era affidata allo Stato. Secondo le leggi, infatti, l'imbrigliamento e lo sfruttamento dei corsi d'acqua, la costruzione di dighe e di impianti generatori di energia elettrica, erano e sono tuttora soggetti all'autorizzazione, al controllo sui progetti di costruzione, al collaudo degli impianti e ad una continua supervisione da parte degli organi tecnici dello Stato preposti a questa funzione.
Chi nega questa realtà, non fa altro che della demagogia.

Chi sostiene, invece, che la SADE eludeva i controlli previsti dalla Legge, pone un problema completamente diverso: accusa cioè gli organi dello Stato di incapacità o di essersi fatti corrompere dalla società privata, abdicando ai loro compiti e sacrificando, come in questo caso, migliaia di vite umane.

RESPONSABILITà DELLO STATO
Quali sono, allora, gli organi dello Stato che debbono rispondere di quanto è accaduto? È noto che la concessione per utilizzare a scopo idroelettrico le acque del torrente Vajont venne data con i decreti presidenziali del 24 Marzo '48, 18 dicembre '52 e 11 marzo '53. Decretata la concessione, spettava al Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici (presidente Giovanni Padoan, segretario generale ingegner Alberto Bianchi) e più precisamente alla sua IV Sezione (presidente ingegner professore Pietro Frosini), per mezzo della Direzione Generale delle Acque e degli Impianti Elettrici (direttore generale Luigi Gasparrini, ispettori generali dottor Guglielmo Biasotti, ingegner Secondo Alfieri, dottor Ernesto Cerbo e dottor Luigi Gallieri), il controllo tecnico dei piani, il collaudo e la supervisione.
Questo per quanto riguarda i controlli al vertice della burocrazia. Alla periferia, invece, deve rispondere il Genio Civile delle singole Province con l'ufficio "Servizio Dighe". Nel caso specifico, l'Ufficio Genio Civile di Belluno, che fa capo attualmente all'ingegner Fortunato Nigro e quello di Udine, affidato all'ingegner Corrado Perini.
Quale di questi ingranaggi non ha funzionato? Quale di questi organismi di controllo e di direzione non ha saputo imporre, pur possedendo tutti gli strumenti necessari, la volontà dello Stato alla SADE? Evidentemente una risposta a queste domande la potrà dare solo quella commissione d'inchiesta che stabilirà, finalmente, le reali e concrete responsabilità.

RESPONSABILITà DELL'ENEL-SADE
Il discorso per quanto riguarda l'ENEL-SADE è del tutto contrario a quello che abbiamo fatto per la SADE.
Precisiamo subito che, dal marzo 1963, gli amministratori della SADE hanno ceduto completamente l'azienda elettrica all'ENEL. Il fatto che quest'ultima si serva ancora dei quadri tecnici della SADE non implica, da quella data, alcuna responsabliltà dei vecchi proprietari. Per quanto riguarda la responsabilità del nuovo organismo pubblico è bene stabilire che se la SADE si presentava come azienda di lucro, l'ENEL-SADE è sorta invece come una azienda di interesse pubblico.
In altre parole se per la SADE l'obiettivo era costituito esclusivamente dalla valorizzazione del capitale, con delle responsabilità unicamente verso i proprietari e i creditori, e cioè verso gli azionisti e gli obbligazionisti, l'ENEL creata appositamente per sottrarre l'industria elettrica allo sfruttamento privato, ha come fine statutario l'interesse della collettività.
Se la SADE, quindi, non era tenuta a prendere in considerazione tutto ciò che esulava dal suo compito specifico (produrre cioè energia elettrica al costo più basso per rivenderla al prezzo più elevato possibile) per l'ENEL il problema si presenta del tutto diverso. In quanto Azienda Pubblica, infatti, che non ricerca il profitto come fine, l'ENEL deve avere come scopo ultimo della sua attività la tutela degli interessi collettivi nell'ambito di tutte le sue competenze. Non si giustifica, quindi, come dimostreremo più avanti, il provvedimento preso recentemente, di aumentare il livello del bacino per produrre più energia elettrica, quando era chiaro che, così facendo, si accentuavano quei fenomeni allarmanti che, sotto la gestione SADE, avevano sconsigliato questo provvedimento.
Risponde oggi, di questa condotta, l'amministratore provvisorio di ENEL-SADE nominato nel marzo 1963 dal Consiglio dei Ministri su proposta del Presidente dell'ENEL, il professor avvocato Feliciano Benvenuti, ordinario di Diritto Costituzionale presso l'Università Cattolica di Milano.

Ed eccoci alle responsabilità immediate. Le testimonianze da noi raccolte proverebbero senza ombra di dubbio che l'allarme era stato lanciato in tempo.

TESTIMONIANZA del signor Italo Rossi, funzionario dell'Ente Provinciale per il Turismo di Belluno.
Ore 22,55: si trova in un bar a seguire la trasmissione della TV quando viene a mancare la luce.
Ore 23,20, torna la luce nel bar.
Ore 23,23: esce dal bar e si reca in un altro locale, il «Leon d'oro».
Ore 23,25, sulla porta del «Leon d'oro» incontra il proprietario del locale, che torna dalla Questura dove ha versato le schedine del Totocalcio, e questi gli dice che passando davanti alla caserma dei pompieri, ha sentito che "è saltata la diga".
Ore 23,27: si precipita al telefono del locale e chiama la redazione del Gazzettino. Gli confermano la notizia precisando che il loro cronista, Mattei, è già corso sul posto.
Ore 23,35, esce dal locale e corre verso casa per prendere la motocicletta e andare a prelevare i genitori che abitano a Belluno bassa.
Ore 23,37: mentre scende per via Simon da Cusighe vede una colonna motorizzata di alpini che imbocca la strada per Ponte nelle Alpi. Osserva subito che non può trattarsi del solo "plotone di pronto impiego" perchè, dopo essere salito in casa, continua a vedere dalle finestre i camion che passano (per il "plotone di pronto impiego" bastano due camion).

TESTIMONIANZA del brigadiere Amerigo D'Incà dei Vigili del Fuoco di Belluno.
Ore 22,45: è in caserma e sta risolvendo le parole incrociate.
Ore 22,55 - Manca la luce.
Ore 23,05. Mentre è ancora tutto buio, gli arriva una telefonata. È un suo amico, il signor Vicentini della "Alpigas" di Ponte nelle Alpi. Con voce allarmata l'amico gli dice «Cosa succede, Amerigo?? Qui sotto sento un rumore enorme». In pochi secondi D'Incà si fa il quadro della situazione. Ricorda immediatamente che alcuni giorni prima, recatosi sulla Diga del Vajont per un servizio di prevenzione incendi, aveva notato che il livello era più basso rispetto al solito. Uno dei tecnici, il perito elettrotecnico Claudio Giannelli, gli aveva raccontato inoltre che c'era una frana in movimento e che la stavano studiando. Il Giannelli aveva aggiunto che giorni prima erano stati sul posto alcuni geologhi. Questi però non avevano giudicato allarmante la situazione e comunque, di lì a pochi giorni, sul Vajont si sarebbe tenuta una riunione "ad alto livello".
D'Incà ricorda tutto questo in un lampo, collega tutti questi episodi alla mancanza di luce, ad un sordo boato avvertito poco prima ed alla telefonata dell'amico. Immediatamente grida al telefono al Vicentini di fuggire il più velocemente possibile, perchè "è crollata la diga". Subito dopo esegue una serie di operazioni che costituiscono praticamente il vero inizio della operazione di soccorso.

Prima, manda il piantone a svegliare i venti uomini che ha a disposizione e che dormono in camerata. Secondo, spedisce immediatamente una "jeep" a Borgo Piave (a Belluno bassa) e negli altri luoghi della periferia di Belluno dove la piena potrebbe mietere vittime. Questa "jeep", con un solo vigile a bordo, riesce a dare in tempo l'allarme e molti riescono a salvarsi all'ultimo momento. Terzo, invia subito alcune squadre verso Ponte nelle Alpi, Longarone e Cadola.
Poi chiama la Telve. Gli risponde il centralinista in servizio notturno, signor Ives Bortot, che è impensierito perchè non riesce a mettersi in contatto con Longarone.
D'Incà gli spiega sommariamente di cosa si tratta e, colla collaborazione del Bortot riesce, in pochissimi minuti, a dare l'allarme in tutta la zona percorsa dal Piave. Poi chiama il Ministero, i vari comandi dei VV.FF. del Veneto e alla fine, la brigata Alpina "Cadore". Trascorrono pochi minuti e già vede passare lunghe autocolonne di alpini dirette alla zona del disastro

TESTIMONIANZA di un operaio della ENEL-SADE in servizio alla diga, che ci ha pregato di non rivelare il suo nome; ma di cui, all'occorrenza, forniremo le generalità.
1) Un po' di tempo prima del disastro, i capiservizio avevano impartito agli operai che lavoravano ai piedi della diga, l'ordine di abbandonare il cantiere.
2) Circa una settimana prima del disastro, era stato altresì ordinato agli operai della ENEL-SADE di abbandonare i baraccamenti della mensa e dei dormitori, situati in cima alla diga.
3) Alcuni giorni prima erano stati comandati degli uomini in servizio notturno con il compito di manovrare i fari che dovevano illuminare costantemente la frana in movimento. Gli operai non erano però eccessivamente preoccupati: sapevano che era una frana "controllata" di circa 2.000.000 di mc., la cui caduta avrebbe provocato al massimo una leggera ondata sopra al bordo della diga.
4) Ancora 15 o 20 giorni prima, sulla diga, vi era stata una riunione di dirigenti e di tecnici "al vertice" dell'ENEL-SADE. Fra questi l'ingegner Sistini, capo di un gruppo di centrali (fra le quali la centrale di Nove) e l'ingegner Sabbadini, uno dei principali dirigenti della sede di Venezia di ENEL-SADE.
5) Sempre alcuni giorni prima, un operaio zoppo, certo De Toffol, venne allontanato dalla diga, nonostante le sue proteste, poichè date le sue condizioni fisiche, non sarebbe stato in grado di allontanarsi con "sufficiente rapidità" al momento della frana.
6) Il giorno 8 ottobre i tecnici fecero costruire un piccolo ponte fra la diga e la parete della montagna per rendere più rapida la fuga degli operai dai posti di lavoro.
7) Giorno della tragedia.
Ore 12,00: il perito elettrotecnico Claudio Giannelli entra nella cabina dei comandi centralizzati. Guarda, attraverso i vetri della finestra verso la frana e commenta ad alta voce: « Forse abbiamo esagerato, ma è meglio calcolare per eccesso che per difetto».
Ore 17,30: Claudio Giannelli, nella cabina dei comandi, chiama al telefono qualcuno e dice che la frana ha accelerato la discesa e che ormai è "questione di ore". A questo punto il testimone, che ha terminato il servizio, si avvicina a Giannelli e lo avverte che se ne va. Giannelli, seguitando ad ascoltare alla cornetta, gli fa segno di andare. Da quel momento non si sono più visti.

TESTIMONIANZA del signor Claudio Tissat, perito elettrotecnico, capo-diga del Vajont, addetto al complesso oleodinamico.
1) L'ordine di abbandonare i dormitori e mensa costruiti sulla diga l'aveva provocato lui, appunto in previsione che la frana determinasse un'ondata tale da sollevare e portar con sè i baraccamenti.
2) Anche il provvedimento di illuminare di notte il costone di montagna l'aveva sollecitato lui per impedire che i rumori, nella notte, spaventassero tutti, quando magari si trattava solo di frane di poco conto. Gli addetti alle dighe vivono sempre, in genere, sotto l'incubo delle frane.
3) I settori dell'ENEL-SADE responsabili del controllo e dei calcoli sulla frana che si stava muovendo da parecchio tempo, erano l'Ufficio Lavori e l'Ufficio Studi i cui tecnici sulla diga sono morti tutti.
4) Giorno 9 ottobre.
Ore 14,00 Tissat chiama diga (via Telve). Trovandosi in ferie da alcuni giorni, il capo-diga vuole informarsi sulla situazione e cerca di parlare col suo fraterno amico Dal Pian. Gli risponde un tale Dal Col: situazione normale.
Ore 15,30. Tissat chiama diga (via Telve). Vuol parlare, e parla, con un certo Bertotti per concordare il suo rientro dalle ferie. Stabiliscono che lui riprenda servizio la domenica successiva.
Ore 17,00. Dal Pian chiama Tissat. Vuole salutare l'amico che l'ha chiamato prima e concordare una visita del Tissat alla sua famiglia (che abita negli alloggi sopra la diga) per il giorno dopo. Restano d'accordo così. Parlando della situazione, Dal Pian dice che è tutto normale, eccetto il fatto che ora svuotano il bacino di un metro e mezzo al giorno anzichè di un solo metro come nei giorni precedenti. Ma non dà spiegazioni di questa aumentata velocità di svuotamento.
Ore 22,00. Tissat è fuori casa. Dal Pian lo chiama al telefono e, non trovandolo, parla con la madre.
Fa un discorso non molto chiaro (riferisce la madre) la cui sostanza, però, è la seguente: "Dica a suo figlio di non venire su, domani".

TESTIMONIANZA del carabiniere Francesco D'Arrico, della stazione CC di Longarone.
Ore 22 circa del 9 ottobre. Con il collega Rinaldo Aste di Rovereto (che ha perso la moglie Pia e i figli Graziano di sette anni e Stefano di otto mesi, e ora è in forte stato di "shock") viene comandato di pattuglia per costituire un posto di blocco a Dogna ed impedire il traffico sulla strada del Vajont, verso la diga, poichè deve iniziare un parziale scarico del bacino per le 24,00.
Il D'Arrico e l'Aste si salvano per miracolo e vengono ricoverati entrambi, prima all'Ospedale di Bolzano, e poi a quello di Trento.

CONCLUSIONE
La nostra indagine ha quindi puntualizzato alcuni elementi fondamentali che, per quanto riguarda le responsabilità remote, vanno così specificati.
- Primo Assoluta mancanza dei necessari controlli da parte degli organi dello Stato, centrali e periferici, sugli studi (particolarmente di natura geologica) e sulle realizzazioni compiute dalla SADE nella vallata del Vajont.

- Secondo Imperdonabile leggerezza degli organi direttivi e tecnici della ENEL-SADE (l'ente nazionalizzatore subentrato alla SADE nel marzo di quest'anno), che decisero di aumentare il livello delle acque del bacino pur sapendo delle precarie condizioni del terreno circostante.


Per quanto concerne, invece, le responsabilità immediate, ecco i punti fermi stabiliti dalla nostra inchiesta:
- Primo L'ENEL-SADE, pur sapendo da tempo che nella zona del bacino esisteva un serio pericolo costituito da una frana in movimento, non prese l'unico provvedimento che poteva evitare un probabilissimo disastro: vale a dire l'immediato svuotamento, sia pure parziale, del bacino. Al contrario, anzi, come già detto, fece aumentare il livello delle acque.

- Secondo Pur sapendo che la situazione del bacino destava preoccupazioni, l'ENEL-SADE e le autorità dello Stato, centrali e periferiche, non considerarono necessario avvisare le popolazioni delle località minacciate. Nè vale la considerazione che i tecnici avevano preventivato una frana di proporzioni molto minori di quella che purtroppo precipitò nel bacino. I dirigenti dell'ENEL e le autorità dello Stato, avevano il preciso dovere di ipotizzare le eventualità peggiori. E di correre quindi, per tempo, ai ripari.

- Terzo È provato che alle 17.30 la situazione cominciò a precipitare e che i capi di ENEL-SADE vennero messi al corrente di quanto stava accadendo.

- Quarto È provato che tra le 17,30 e le 22 la situazione si andò rapidamente aggravando, tanto è vero che alle 22, sulla diga, l'allarme doveva essere gravissimo. Lo conferma la telefonata che a quell'ora il Dal Pian fece al Tissat, per consigliarlo di non salire al Vajont il giorno seguente.

- Quinto È provato che tra le 21 e le 22 le autorità civili e militari della zona vennero avvisate, indubbiamente dalla sede veneziana dell'ENEL-SADE, che lo stato di pericolosità del bacino e quindi della diga era giunto a un punto tale da richiedere l'immediato svuotamento del bacino stesso. Tant'è vero che i due carabinieri della stazione di Longarone vennero inviati, circa alle 22, lungo la strada del Vajont, in località Dogna, per bloccare il traffico in vista di un parziale, ma rapido, svuotamento del bacino previsto per le ore 24.

- Sesto La conferma decisiva che le autorità civili e militari della zona vennero poste in allarme tra le 21 e le 22 è fornita dalle testimonianze del signor Italo Rossi e del brigadiere Amerigo D'Incà, che, appena mezz'ora dopo la catastrofe videro sfilare le autocolonne degli alpini di stanza in città. Ora, è noto anche ai profani che non è possibile dare l'allarme a dei reparti immersi nel sonno e, nel volgere di pochi minuti, inquadrarli in pieno assetto, approntare gli automezzi, caricarli sui medesimi e avviarli su strada. Ciò dimostra che alle 22, gli alpini di stanza a Belluno si trovavano già pronti, in stato di preallarme.

È lecito quindi domandarsi, e le commissioni d'inchiesta dovranno dare una risposta a questo angoscioso quesito, perchè mai, nonostante la gravità e i segni premonitori del disastro imminente, nessuno si sia preso la responsabilità di prendere l'unica decisione che poteva salvare la vita di migliaia di creature.
Sarebbe bastato che un carabiniere, passando per Longarone e le sue frazioni vicine, avesse lanciato un grido d'allarme.

PAOLO PISANO'

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  Daniele Segre -


Pagina provvisoria - puo' essere che qualche link sottostante non risulti efficiente. Devo ricaricare ogni cosa a mano (56k). Scusatemi.

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