IL VAJONT DOPO IL VAJONT - 1963/2000

LUCIANA PALLA

LA «NUOVA CITTÀ» E LA SUA GENTE: UN
DIFFICILE PERCORSO DAL 1963 A OGGI

1. INTRODUZIONE

"È passato quasi un anno dall'immensa sciagura e pare che sia accaduta ieri. Fino al 9 ottobre 1963 e precisamente fino alle dieci è trentanove di sera, Longarone era bello, tutto illuminato e con la gente che passava per le strade, i bar molto affollati, l'orologio della chiesa che scandiva il tempo. Le case occupavano tutta la vallata... Longarone aveva piazze, edifici grandi, aveva le caserme [...]. Nelle belle giornate c'erano tanti bambini: quelli che giocavano al pallone, quelli in bicicletta e quelli piccoli che giocavano con giocattoli. La vita pubblica era molto intensa; c'erano parecchie scuole: le elementari, le medie, l'asilo, le professionali, il centro d'addestramento. Anche le fabbriche erano sviluppate: c'era la fabbrica del filo, la cartiera, quella del marmo, un'occhialeria e altri laboratori che impiegavano abbastanza persone. Se chiudo gli occhi rivedo tutta Longarone come era prima...
Questo e l'anno nuovo per la nuova Longarone.
Facciamo pure Longarone moderna nella sua architettura, ma la Longarone più cara resteranno sempre le persone che ci sono solo con l'anima...
"1.
E un altro bambino, pure lui in quinta elementare, così concludeva il suo tema in occasione del primo anniversario della sciagura: «Questo paese sarà ricostruito. Avra di nuovo le sue fabbriche e i suoi campi. La gente, però , non sarà più quella di prima, chissà se sarà onesta lo stesso. Longarone sarà un paese diverso; quello di prima vivrà solo nel nostro ricordo»2.
Questi bambini di dieci anni hanno colto intuitivamente quella che sarebbe diventata la «nuova» Longarone: un paese attivo, pieno di fabbriche, con un tasso di disoccupazione fra i più bassi in provincia di Belluno, ma anche con i problemi che un'elevata concentrazione di industrie comporta; un paese moderno, che nei progetti iniziali avrebbe dovuto essere avveniristico, il paese del futuro, tutt'altra cosa dai soliti borghi di montagna, in realtà, secondo l'opinione dei più , d'aspetto anonimo, quasi un quartiere di periferia industriale, nonostante gli sforzi delle varie amministrazioni che si sono succedute di dargli una caratterizzazione propria, di vivificarlo.

Ma una sua identità Longarone ce l'ha: è il paese dei contrasti, fra vecchio e nuovo, fra passato e presente, fra «superstiti»3 e nuovi arrivati, fra la memoria degli uni e quella degli altri, composte ognuna delle due da tante storie individuali. I superstiti, sempre meno numerosi con il passare degli anni, hanno un passato condiviso, quello della «vecchia» Longarone che vive nel ricordo, mitizzato di per sè , e che rende difficile l'accettazione della totale diversità della «nuova» Longarone che è sorta dalle macerie. E soprattutto essi portano ancora il peso del loro dolore, incommensurabile, inconcepibile per chi non lo ha vissuto.

La sera del 9 ottobre 1963 essi hanno perso ogni punto di riferimento: l'onda ha spazzato via non solo le case, ma l'intera comunità, e insieme la continuità culturale, storica, l'ambiente geografico. È mancato quindi, per chi doveva ricominciare a vivere, il sostegno che viene dall'interno del proprio mondo, dai parenti, dagli amici, dai luoghi familiari, dagli oggetti della vita quotidiana. Tutto è andato perduto, e questo ha reso molto difficile l'elaborazione del lutto, tanto che ognuno dei superstiti ha una propria sofferenza che spesso rimane ancora chiusa con riserbo dentro di sè ; talora invece essa viene comunicata agli altri, quasi gridata, con la voglia finalmente di condividerla, di farsi accettare per quello che si è vissuto dopo quella notte.

Ogni superstite ha un proprio modo di vivere la memoria: mantenendo il dolore dell'esperienza personale custodita nel proprio intimo e richiamando invece in vita la tragedia collettiva per le future generazioni, come monito, in favore della prevenzione di altri simili disastri causati dall'uomo; oppure rendendo pubblica la propria storia a ricordo di tutte le 1.910 vittime, una per una, cercando di dare loro un volto, in modo che le generazioni future possano conoscere i vecchi abitanti di Longarone, prima nella loro vita serena, poi nel loro dramma; oppure cercando di far valere i diritti di chi, nel processo di ricostruzione e di risarcimento dei danni non ha ottenuto ancora un adeguato riconoscimento di quanto gli spettava;
oppure, semplicemente restando in silenzio...

Longarone ha oggi oltre 4.000 residenti. Se si considera che il Comune - 4.688 abitanti nel 1961 - ebbe 1.450 morti essendo stato raso al suolo il centro storico con le frazioni di Pirago, Rivalta e Villanova, si capisce come la «nuova» Longarone si sia ripopolata di gente «diversa» da quella di prima. Tornarono molti emigranti, parenti dei deceduti, ereditarono i loro diritti e si costruirono la loro casa, ma parecchi vennero per lavoro dai paesi vicini, o da più lontano.
La ricostruzione offriva molte opportunità e il paese crebbe con l'apporto di persone di origini diverse, i cosiddetti «foresti», ognuno dei quali si è portato dietro la propria storia, le proprie abitudini, la propria memoria. Oggi come oggi non sembra che ci siano conflitti degni di nota fra «vecchi» e «nuovi» longaronesi, in quanto questi ultimi sono ormai ben inseriti nel contesto sociale. Rimane però il problema dell'essere comunità, del «fare paese», che molti percepiscono. Una costante nel tempo, e ancor oggi attuale, da parte di autorità civili, religiose e di associazioni, è quella di «unificare», di «mettere in comunicazione», di far «condividere». Si creano opportunità per l'uso del tempo libero, si organizzano incontri animati di vario genere: le iniziative culturali a Longarone sono ricche e varie. L'Amministrazione comunale cerca di abbellire il paese dando colore alle facciate prima così grigie, tenta di rendere visibile il centro, di creare luoghi fisici di ritrovo in un paese nato così anonimo, modernizza l'arredo urbano.
Questi interventi, sulla cui opportunità il giudizio della popolazione non è sempre concorde, non sembra per ora siano riusciti nel loro scopo: dare un'anima a Longarone. Il problema - commenta qualcuno - non è la struttura fisica del paese, bensì quella sociale: le famiglie sono tante piccole isole, ognuna con la propria storia, con legami affettivi spesso lontani che cercano di riallacciare appena possono, la domenica, i giorni di festa, recandosi al paese d'origine.
I superstiti, d'altra parte, le loro radici le hanno nel ricordo, o - scriveva il bambino di quinta elementare - nel proprio cuore, e fanno fatica a riconoscersi nelle moderne vie e piazze della «nuova» Longarone; anzi, qualcuno commenta, dovrebbero cambiarle il nome perché non c'è più nessun legame con il paese di una volta.

È convinzione di alcuni che dovrà passare ancora qualche generazione prima che le ferite si rimarginino, si possa pensare al futuro lasciando dietro di se un fardello così pesante di dolore, di sofferenze, di rivendicazioni, e si condivida finalmente un nuovo tessuto sociale a Longarone. Nei colloqui avuti in occasione di questa ricerca con longaronesi «vecchi» e «nuovi» sono emerse tante aspettative deluse, senso di impotenza, solitudini, ma anche voglia di andare avanti, di costruire, di «voltar pagina»: segni questi di vitalità, di speranza, nonostante la difficoltà di vivere in un paese di tale eterogeneità degli stili e degli abitanti. Se torniamo in dietro di almeno quarant'anni e rileggiamo le testimonianze di chi diede in qualche modo, come amministratore, come soccorritore, come volontario, il suo contributo nei momenti immediatamente successivi al disastro, e risentiamo le voci dei superstiti, ci rendiamo conto delle fatiche che furono affrontate, dei sacrifici, del coraggio che sorresse la decisione di andare avanti, di ricostruire il paese proprio là , e ci meraviglia quanto lavoro e quanta dedizione quegli uomini seppero dare per arrivare all'oggi, pur tra gli inevitabili errori che furono commessi o, spesso, subìti4.
Longarone, alla mattina del 10 ottobre, si presentava come una landa deserta: Ormai il sole era già abbastanza alto - racconta un bambino di allora la cui casa si salvò - mia madre mi disse: Guarda fuori dalla finestra! Io ho guardato e non ho visto niente, quello che era il normale paesaggio era completamente cambiato. Mi ricordo il riverbero delle ghiaie, alla luce del sole... Non capivo cos'era tutto quel bianco che vedevo...5

2. LA RICOSTRUZIONE PUBBLICA E PRIVATA

2.7. I primi due anni dopo la tragedia, fra speranze e delusioni

Il primo numero del bollettino parrocchiale «Longarone», uscito già nel novembre 1963 con l'elenco delle quasi 2.000 vittime, e già di per sè un manifesto programmatico della ricostruzione del paese. Scrive don Piero Bez, il nuovo arciprete, nel suo mesto saluto ai parrocchiani superstiti, colpiti insieme a lui da tanto dolore:

La ripresa sarà forzatamente lenta, ardua, ma ci deve essere; lo esigono l'avvenire dei vostri figli, la memoria dei nostri morti. Ed è possibile.
[...] Dimostriamoci robusti nella prova. Non assumiamo, vilmente, l'atteggiamento di vittime, tutto pretendendo dagli altri. Dagli altri avremo l'aiuto a rimetterci in piedi, ed a questo abbiamo diritto; ma dobbiamo essere noi a camminare verso un avvenire migliore; noi con le nostre risorse morali, intellettuali e soprannaturali
6.
Su un piano di calcolo economico - si legge ancora nel bollettino - il progetto di ricostruire il paese su quella landa deserta è «temerario»: «un investimento produttivo in Longarone trova, per ora, giustificazione soltanto in un atto di fede»7.
Eppure la cronaca quasi giorno per giorno di quel primo mese è gia un tam tam della rinascita:
10 ottobre. «Sono arrivati i soldati: in lunghe file, ordinati, silenziosi».
11 ottobre. «Sono tornati gli emigranti, in gruppi sempre piu numerosi. [...] Nel pomeriggio il Consiglio comunale si riunisce: dieci soltanto i sopravvissuti».
12 ottobre. «Il municipio ha ripreso la sua attività [...] Ed accanto al municipio, nell'edificio delle scuole, funziona un posto di ristoro, un magazzino viveri e vestiario: un centro di assistenza è stato istituito presso il municipio».
13 ottobre. Prima messa sulle macerie della chiesa.
16 ottobre. I bambini riprendono la scuola, nel municipio sono state sistemate provvisoriamente due aule. Sono una trentina appena, mentre 150 loro compagni insieme a molti insegnanti sono stati travolti dall'onda.
21 ottobre. È uscita la prima relazione del Comune con il titolo "Ricostruiamo Longarone".
28 ottobre. «La Faesite ricomincia a lavorare».
5 novembre. Anche la scuola media riprende le lezioni, in alcune aule delle scuole elementari di Castellavazzo, con gli alunni e gli insegnanti superstiti.
6 novembre. «A Longarone si apre il nuovo ufficio postale», al piano terra delle scuole elementari.
9 novembre. Viene riaperto a Roggia il centro ENAIP, e a Pians incominciano i lavori per la costruzione delle prime case prefabbricate8.
Con la solidarietà di tanti si fa fronte all'emergenza, ma si cerca anche di dare i primi segni di normalità , per quanto è possibile, in una situazione in cui di «normale» non c'è più niente.

Il commissario straordinario del Governo Giacomo Sedati, a distanza di poco più di un mese dal suo insediamento a Longarone, il 21 novembre 1963 nella sua Relazione dà conto della drammatica situazione di fatto in cui si è trovato ad agire, dei primi provvedimenti adottati nell'immediatezza dell'emergenza, e dei problemi che egli ha incontrato. Si è dovuto cercare alloggio alle famiglie senza casa in attesa dei prefabbricati, assistere e sistemare gli orfani, cercare di avviare di nuovo al lavoro le categorie produttive (artigiani, commercianti, lavoratori dipendenti), assicurare sussidi a chi era rimasto senza reddito, oltre che affrontare i grandi temi degli indennizzi, risarcimento danni e ricostruzione che stavano tanto a cuore ai superstiti.

Gli errori compiuti in questo primo difficile periodo - secondo Sedati - riguardano «più il piano morale e psicologico che quello materiale della efficacia e tempestività dei soccorsi». Egli cerca di sopperire «a tale stato di cose attraverso quotidiani, frequenti colloqui con i danneggiati, onde raccogliere gli stati d'animo e dare loro l'assicurazione dell'interessamento governativo»9. Il suo scopo è di riaccendere nei superstiti la fiducia nelle istituzioni, gravemente scossa dall'emergere delle responsabilità non solo della SADE-ENEL ma degli organi di controllo dello Stato stesso nella tragedia del Vajont. Un duro colpo al rinsaldarsi di tale fiducia viene inferto il 9 dicembre 1963, quando si sparge la notizia che Longarone dovrà essere ricostruita presso Ponte nelle Alpi, dato che la Commissione di tecnici nominata dal Ministero dei lavori pubblici non esclude per almeno due anni il pericolo di nuove frane che potrebbero far debordare le acque del residue bacino del Vajont.

Il sindaco Terenzio Arduini, in un incontro programmato con i rappresentanti della vita economica e sociale a due mesi di distanza dal disastro per porre concretamente le basi del processo ricostruttivo, deve dare la triste notizia:

Noi sbigottiti e sgomenti da tale situazione, stentiamo a credere che Longarone non possa più ricostruirsi sulle antiche fondamenta; stentiamo a concepire di trasferirci altrove, ma se i tecnici responsabili non possono dare la garanzia della sicurezza non possiamo noi assumerci la responsabilità di sostenere la ricostruzione di Longarone oggi10.
Inizia - egli dice - «la vera tragedia, la tragedia dei vivi»: se anche Longarone potesse essere ricostruita altrove, cosa avverra delle frazioni del comune, dei paesi e delle valli limitrofe che traevano vita e sviluppo proprio dalle attività economiche di Longarone? Ben triste è quel primo Natale nella chiesa prefabbricata non ancora ultimata, coperta alla meglio da un tendone scosso dal vento di una violenta bufera di neve, mentre il vescovo Gioacchino Muccin insieme ai superstiti celebra la messa di mezzanotte; l'ambiente è segno della precarietà in cui ancora vive la popolazione rimasta, riunitasi tutta a Longarone per quella funzione, così come accadrà per molti anni.
Sul sindaco socialista Arduini cadrà, forse un po' immeritatamente, la responsabilità di essere stato troppo condiscendente all'imposizione governativa, soprattutto quando, di lì a poco, i contrasti fra forze politiche di diverse tendenze si acuiranno in ambito locale. Il Comitato dei superstiti presieduto dall'ingegner Luciano Galli, sorto già il 21 ottobre con l'intenzione di rappresentare «con potere vincolante e deliberante»11 la volontà dei concittadini di fronte alle autorità dentro e fuori l'Amministrazione comunale, si fa promotore di una forte protesta di parole e di fatti.
L'ingegner Galli non esclude che una situazione di pericolo esista, come egli stesso aveva affermato a metà novembre12, ma deve essere ridata sicurezza ai longaronesi svuotando il lago che era ancora a quota di massimo invaso, e non allontanando i superstiti dal loro paese. Essi si sentono di nuovo «strumento della programmazione umana», in questa decisione presa senza interpellarii di ricostruire le loro case altrove perché strutturalmente più facile che non su un mucchio di macerie.

La protesta culmina con il blocco stradale della notte di San Silvestro che da un lato divise i superstiti non sui fini ma sui mezzi da adottare per far valere i propri diritti, e dall'altro forse contribuì al ripensamento del ministro dei Lavori pubblici Pieraccini, che il 12 gennaio 1964 a Longarone promise la ricostruzione in loco e ne stabilì i tempi: entro il 31 marzo di quell'anno la redazione del nuovo piano urbanistico, entro il mese del maggio successivo l'appalto dei relativi lavori. Era forse finito il pericolo? Erano stati presi nel frattempo provvedimenti riguardo all'invaso del Vajont? No, tanto che la popolazione continuerà a lungo a non sentirsi sicura a ogni precipitazione fuori dell'ordinario. Sarà soprattutto la gente di Erto e Casso, provvisoriamente sistemata a Cimolais, a insorgere ripetutamente per chiedere il sollecito svuotamento del lago, senza del quale non potevano essere messi in atto progetti per rendere di nuovo abitabili i loro paesi13.

Ma neppure a Longarone la situazione torna tranquilla. Le case provvisorie sorte in località Pians cominciano ad animarsi di superstiti, i quali usufruiscono di uno spaccio cooperativo, si aprono i primi negozi prefabbricati, un nuovo bar funziona già nel vecchio edificio delle scuole elementari come punto d'incontro fra i cittadini, è stato istituito in paese un centro assistenza per i sinistrati. Sono questi segni, insieme a molti altri, di come grazie ai primi interventi statali e alla solidarietà nazionale e internazionale la vita stia riprendendo a passi veloci. Il blocco stradale della strada di Alemagna organizzato dal Comitato dei superstiti che dal 10 febbralo 1964 continua per giorni dimostra però che la sfiducia nelle istituzioni non è stata vinta. Regna una grande incertezza in paese dovuta, secondo don Piero Bez, a una generale mancanza «di organicità, di chiarezza e di autorità»: "C'è sempre nell'aria un'ombra di mistero. [...] Perché non si informa direttamente la popolazione, non la si mette al corrente di quanto si intende fare e di quanto si è ottenuto? [...] La nostra impressione è che ciascuno agisca per conto suo, ignorando o quasi quello che fa l'altro14."

Lo Stato a un mese dalla catastrofe aveva approvato, con la legge n. 1457 del 4 novembre, un primo provvedimento transitorio per la ricostruzione, con una serie di interventi finanziari. L'impegno preso dal nuovo Governo di centro-sinistra era di ricostruire Longarone «piu bella di prima», e in tempi strettissimi: il nuovo centro - aveva promesso l'onorevole Pieraccini - sarebbe sorto «come un modello di razionale, moderna, viva pianificazione urbanistica, studiata in tutti i suoi aspetti economici e sociali. La scelta di illustri personalità della cultura e della tecnica per questo compito vuole significare l'omaggio della nazione a chi tanto ha sofferto per la recente catastrofe»15.

La legge speciale n. 357, che verrà approvata il 31 maggio 1964, avrebbe dovuto porre le basi programmatiche e finanziarie per tale ambizioso progetto.
La protesta del febbraio nasceva dal fatto che i superstiti percepivano la disparità tra le proprie specifiche esigenze e quanto a Roma nel frattempo si stava elaborando. Essi chiedevano in primo luogo l'immediato anticipo del risarcimento dei danni subìti, e la garanzia di 400-500 posti di lavoro in loco, sufficienti al momento per la popolazione rimasta. Ma la logica della legge n. 357 non era quella del risarcimento puro e semplice dei danni subìti dalle popolazioni del Vajont, bensì quella della trasformazione economico-sociale della provincia di Belluno, della sua industrializzazione. Agevolazioni e incentivi dovevano cioè far rinascere Longarone, ma all'interno di una realtà più vasta, che da zona di montagna spopolata dall'emigrazione si inoltrasse verso uno sviluppo di tipo capitalistico16. Il piano preparato dall'equipe di Giuseppe Samonà nominato da Roma interpretava quindi queste esigenze riformatrici del centrosinistra, e si discostava dalle aspettative dei superstiti sia nella sua parte comprensoriale che in quella relativa alla ricostruzione del paese. La zona che per legge avrebbe beneficiato dei contributi pubblici era estesa infatti a un comprensorio di 42 comuni delle province di Belluno e Udine17, alla cui organizzazione veniva subordinata la ricostruzione dell'area distrutta, e ciò avrebbe potuto causare ritardi nel venire incontro alle urgenze dei superstiti.

Quello che con proteste locali e viaggi nella capitale si riuscì a ottenere dalle amministrazioni comunali delle zone sinistrate fu uno svincolamento del piano particolare di ricostruzione edilizia delle aree colpite, da tale piano urbanistico comprensoriale in modo da ridurre i tempi tecnici delFinizio dei lavori. Cominciarono così le opere pubbliche a Longarone: l'arginatura sul Piave e sul Maè , la costruzione delle strade e delle fognature, la riattivazione della linea ferroviaria, tanto che il 30 maggio 1964 il primo treno di linea si fermava nella nuova stazione di Longarone, con grande sollievo dei suoi abitanti.

I superstiti però temevano che il fatto che le industrie - che avrebbero dovuto ridare vita al loro paese il quale prima del 1963 proprio da esse traeva la sua fonte principale di reddito - potessero venire installate per legge in qualunque parte del comprensorio e addirittura nelle province limitrofe, bloccasse la ripresa economica dell'area disastrata. Molte furono le loro iniziative perché le facilitazioni economiche fossero limitate ai comuni sinistrati, eliminando l'articolo 13 della legge, ma senza risultati concreti. In effetti l'industrializzazione del Comune di Longarone avvenne con molto ritardo: le aree di Villanova-Faè, Fortogna e San Martino destinate a tale scopo rimasero a lungo deserte, mentre nella valle del Piave, più comoda e appetibile, sorgevano grandi complessi proprio con i fondi del Vajont; solo nel novembre 1965 a Villanova cominciarono i lavori per la costruzione dello stabilimento della Procond, tanto che come si legge nel bollettino parrocchiale - una crescente emigrazione aveva «nuovamente ripreso a farsi sentire fra i superstiti, costretti dopo due anni di promesse a riprendere il cammino per l'estero»18.

L'articolo 13 della legge n. 357, che consentiva a chi aveva acquistato «i diritti» dai successori delle aziende distrutte di costruire nell'ambito del comprensorio, oltre a migliorare l'economia delle zone vicine anziché far rinascere le zone disastrate, aveva messo in moto un vero e proprio «mercato nero delle licenze», ovvero «una ondata di speculazioni che trasformò i sopravvissuti e i parenti delle vittime della strage in nuove vittime degli "affari d'oro" che ne derivarono»19.
Era mancata infatti da parte dello Stato un'adeguata informazione sugli effettivi benefici della legge e in particolare sul valore economico dei diritti dei superstiti alcuni dei quali, sconvolti dal dolore o desiderosi di ricominciare la propria vita in altro modo o altrove, vendettero spesso per poco o niente quei pezzi di carta su cui altri costruirono imprese di miliardi.

Tutti questi problemi minavano la fiducia nelle istituzioni, creavano invidie, inimicizie, e cattivo sangue in mezzo alla popolazione, per pretese discriminazioni, parzialità, ingiustizie, legate anche a una non sempre chiara, o almeno sorretta da un'adeguata informazione, distribuzione dei sussidi e dei doni della solidarietà. Ciò che rendeva l'amarezza ancora più forte era il fatto che con il passare del tempo al di fuori della comunità, in ambito politico generale, si diffondeva l'idea del disastro del Vajont come di una fatalità, e non di una responsabilità umana20.

Una delle più profonde cause di lacerazione della comunità superstite ruota però intorno alla ricostruzione del paese così com'era stata prevista da Samonà nel piano regolatore esposto nel municipio di Longarone già il 20 febbraio 1964. La planimetria disegnata non corrispondeva affatto a quella della vecchia Longarone. Il nuovo abitato si articolava non più lungo un unico asse, ma lungo quattro strade parallele fra loro, scavate sul pendio e sostenute da muri di cemento. Erano previste due zone residenziali con case prevalentemente a schiera nella parte alta, mentre nella parte bassa si doveva edificare la zona direzionale-commerciale, e nel parco Malcolm la zona culturale, con una netta distinzione delle relative funzioni.

Il Consiglio comunale con sindaco Arduini, per non perdere del tempo prezioso e non spostare troppo in là la data della ricostruzione, approvò il piano regolatore già il 14 marzo 1964, pur facendo appello al Ministero perché tenesse conto delle esigenze dei cittadini; il Comitato dei superstiti invece iniziò un'opera di ferma opposizione e già il 26 marzo 150 capifamiglia superstiti sottoscrivevano il loro rifiuto al piano, considerato del tutto avulso dalla tradizione e dalla storia locale oltre che inserito - come si è detto - in un vasto comprensorio che avrebbe tarpato le ali a una veloce ripresa economica. La nuova scuola elementare, condannata in modo pressoché unanime sia per l'estetica che per la funzionalità, e le prime case a schiera soprannominate «bunker» per il loro aspetto squadrato e grigio, diventarono appena costruite il simbolo di scelte compiute dall'alto, senza interpellare la popolazione, senza tener conto delle esigenze di un ambiente di montagna, sacrificate a un progetto utopico di città del domani, nella sua fredda razionalità.

Il paese - si scriveva - come complesso di edifici pubblici e privati, deve essere progettato da chi ha dimestichezza con le costruzioni di montagna, conosce per esperienza la durata del sole, l'intensità del freddo, l'innevamento, la piovosità , la direzione dei venti, la consistenza dei pendii, la compatibilità tra esigenze di ricettività e disponibilità di terreno fabbricabile21.
Invece di recuperare il possibile - si denunciava - il piano particolareggiato di Samonà eliminava ogni traccia dell'abitato precedente, in favore della «grigia uniformità di una realizzazione tecnicamente perfetta, ma povera di sentimento, di calore, di vita»22.

Decisioni difficili si presentavano in un momento in cui nulla era chiaro: Ad oggi non sappiamo - si legge sul bollettino parrocchiale dell'agosto 1964 - ancora in concreto come faremo queste benedette case [...], se il danaro necessario sarà dato per intero in anticipazione o se si dovrà sottostare all'annoso controllo della Corte dei conti, se potrà essere cambiata la destinazione dell'unità immobiliare che si ricostruisce23.

Esplosero la contrapposizione politica, lo scarico delle responsabilità, le accuse reciproche. L'Amministrazione socialista Arduini decise di andare avanti con il piano Samonà, coinvolgendo però maggiormente i diretti interessati: ogni sinistrato fu invitato a esprimere per iscritto le proprie esigenze abitative sotto la coordinazione dell'architetto Avon di Udine che aveva la funzione di intermediario fra la popolazione e Samonà stesso. La nuova Amministrazione dell'indipendente Protti, eletta nel novembre 1964, fece propria la posizione del Comitato dei superstiti di contrapposizione netta al piano particolareggiato approvato dalla Giunta precedente, che fu praticamente sottratto al professor Samonà, cui rimase il piano comprenso riale.

Incominciarono così una serie di modifiche con cui si cercava di tener conto delle esigenze della popolazione, ma contemporaneamente si spostava nel tempo anche l'inizio vero e proprio della ricostruzione pubblica e privata. Il 17 marzo 1966 giungeva finalmente notizia «che il piano particolareggiato [del capoluogo] con le varianti suggerite dal Consiglio superiore dei lavori pubblici e studiate in sede locale, è stato approvato»24. Un grosso ostacolo era stato finalmente superato, ma nel frattempo erano passati due anni di delusioni, di attesa, di precarietà :

E triste e doloroso, a due anni dalla catastrofe - si legge - con un paese distrutto da rifare, vedere uomini e giovani dotati di capacità e buona volontà , far la valigia e cercare lavoro altrove, mentre sulle rovine della loro casa cresce l'erba. Le poche imprese edili superstiti hanno l'attrezzatura completa in magazzino. Se son riuscite ad avere qualche lavoro, è fuori di Longarone25.
2.2. La ricostruzione delle case ha inizio, ma...

L'opera di ricostruzione finalmente si mette in moto, procede a scatti, con avanzamenti man mano che si superano le difficoltà di ordine burocratico ed economico. Si mantiene lo schema edilizio disegnato dal professor Samonà: un centro allargato proteso sulle pendici della montagna, e che ingloba anche le vecchie frazioni distrutte di Pirago e Rivalta. Le singole costruzioni invece assumono gli aspetti piu diversi. Rifiutata l'architettura «moderna» dell'architetto veneziano vien meno «la possibilità di dare una veste unitaria, omogenea, immediatamente comprensibile alla nuova città di Longarone».

Gli enti pubblici iniziano a costruire «ognuno per proprio conto, con la propria individualità, secondo i propri regolamenti, assistiti dai propri progettisti». Sulla città, «ormai disorientata da questa Babele degli stili»26, si sovrappone progressivamente l'edilizia residenziale corrente, in modo spesso casuale, anch'essa guidata dai criteri soggettivi dei committenti e dei tecnici. A ogni modo si riaccende la speranza fra la popolazione: "Chi percorre ora il centro del paese - si legge sul bollettino parrocchiale al 1° luglio 1968 - ha davanti a sè l'immagine di una cittadina moderna che giorno per giorno viene assumendo una sua fisionomia definitiva. Certo: ci sono qua e là ancora dei vuoti che stonano; c'è l'enorme spazio accanto alla chiesa che è ancora coperto di ghiaia e sassi, ma nel complesso lo spettacolo è consolante. A buon punto i lavori di costruzione di tutti gli edifici pubblici che entro l'anno dovrebbero essere completati; terminate molte case nelle quali già si vede l'andirivieni degli inquilini, il centro viene via via assumendo il suo carattere. Un altro bar si è aggiunto a quello di Luciano Teza; qualche negozio si è aperto; un senso di attività si scorse dovunque: speriamo che esso continui, e che l'attività edilizia, una volta cessata, ceda il posto a quella più duratura delle industrie, che consenta al nuovo paese un futuro privo di preoccupazioni economiche27.

Sei mesi dopo, al dicembre 1968, in effetti la maggior parte degli edifici pubblici di Longarone, escludendo la chiesa e gli impianti sportivi, è ultimata28; nella primavera del 1973 lo è anche circa l'80% della ricostruzione privata29.

E d'obbligo menzionare almeno le opere nate dai contributi della solidarietà, perché tanto care ancor oggi alla popolazione: le case a schiera e la scuola professionale donate dal «Corriere della Sera», quest'ultima inaugurata il 7 ottobre 1968; la casa di riposo per anziani inaugurata il 9 ottobre 1970 e finanziata dai Lions Clubs, dall'«Arena di Verona», dalla Croce Rossa italiana e svizzera; la «Casa del bambino» donata da Achille Lauro, inaugurata il 24 ottobre 1971. Questi edifici sono i più evidenti segni sul territorio degli aiuti economici che vennero da ogni luogo, soprattutto nel periodo dell'emergenza.

Parte del «Fondo di solidarietà», che riuniva le offerte raccolte dalla RAI, su richiesta dell'Amministrazione comunale di Longarone fu concessa dal prefetto, a partire dal 1966, come anticipi in danaro agli aventi diritto alla ricostruzione, dato il ritardo con cui i contributi statali venivano erogati. Si cercava così di ovviare in parte agli effetti della complicata burocrazia («non parliamo dei documenti occorrenti. I superstiti li calcolano a peso, e corrono da un ufficio all'altro con la valigia»)30, e all'insufficienza dei finanziamenti per la costruzione di un'unità abitativa anche a causa dell'aumento dei costi: "Tutte le case che si vedono finite o in costruzione - commentava Giuseppe De Vecchi nel settembre 1967 - sono fatte... a credito, perché i contributi arrivano con ritardi tali da mettere in crisi la ricostruzione; i mutui, che la legge prevede, arrivano dopo la effettiva ricostruzione, ma non poco ragionevole ritardo, sibbene dopo uno o due anni e intanto il vantaggio previsto se ne va in interessi salati da pagare alle banche, le quali operano nel modo che si sa e cioè danno soldi soltanto a chi dimostra di averne il triplo, mentre noi a Longarone siamo rimasti privi di ogni solitia garanzia. Indubbiamente la legge prevede aiuti considerevoli, ma dimostrarne il diritto è fatica immane"31.

Fu così che molti superstiti accettarono la «transazione» che l'ENEL offriva a risarcimento delle vittime promettendo a disposizione 10 miliardi di lire da distribuirsi agli «aventi diritto» purché - clausola capestro imprescindibile - rinunciassero a costituirsi parte civile nel processo penale dell'Aquila per l'attribuzione delle responsabilità per la morte di quasi 2.000 persone.
Allo scopo di gestire la «transazione» si costituì il Consorzio dei sinistrati, presieduto dall'avvocato Alberto Scanferla, che iniziò a operare dal 1967, per quantificare in danaro le stesse perdite umane subite:
"La transazione fu un ulteriore motivo di divisione dei longaronesi - scrive Ferruccio Vendramini a commento delle voci da lui raccolte anni dopo sull'argomento - formandosi due correnti coagulate ancora una volta la prima attorno alla sinistra, e la seconda attorno ad alcuni politici di altro segno inseriti nel Consorzio. Dalle testimonianze si evidenzia che il bisogno di denaro per ricostruire la casa e il desiderio di voltar pagina furono alcune delle motivazioni che favorirono l'accettazione della transazione Enel, anche se certamente senza entusiasmo. Una parte di coloro che non vollero aderirvi costituirono un comitato, presieduto da Ferruccio Parri. La tensione fra gli opposti schieramenti arrivò al punto che il Comune non concesse al senatore Parri una sala a Longarone per incontrare i superstiti costituitisi parti civili52.

Il bollettino parrocchiale documenta il dividersi del paese in due e riporta le ragioni degli uni e degli altri:

Varie scritte sono appese sui muri del paese, dove, in un tono violento, si condanna la deliberazione [del consiglio comunale di accogliere la proposta dell'Enel] come un tradimento compiuto nei confronti della giustizia ed una speculazione condotta sulle vittime della sciagura. I consorzisti rispondono che si è invece offerta finalmente ai sinistrati la possibilità di una soluzione che altrimenti chissà quanto per le lunghe si sarebbe trascinata33.
L'accordo transattivo, cui aderì la grande maggioranza dei sinistrati, passò alla fase esecutiva il 12 settembre 1969, proprio mentre il processo dell'Aquila si avviava alla fase finale senza più la presenza di quasi tutte le parti civili che si erano costituite al suo inizio34.

Se passata la fase dell'emergenza, in cui il dolore comune aveva unito i superstiti in una sola identità, si erano succedute le polemiche e le divisioni riguardo ai modi della ricostruzione, alla distribuzione dei sussidi e al risarcimento dei danni, con la prima sentenza del tribunale dell'Aquila che aveva rifiutato la tesi della prevedibilità dell'evento e dichiarati innocenti cinque degli otto imputati si ritrova la concordia di tutti. Mai in paese dopo il disastro si era messa in dubbio la responsabilità umana, come dimostrano i discorsi dei sindaci in occasione delle commemorazioni del 9 ottobre e la cronaca registrata mese dopo mese nel bollettino della parrocchia foriera del sentire della gente:

Stupore, amarezza, sdegno agitano in questo momento il nostro cuore, come quello di tutti i longaronesi, increduli di fronte ad una sentenza così ingiusta [si commenta il 17 dicembre 1969, cioè il giorno stesso in cui era stato emesso il verdetto]. Non si sa che cosa pensare e che cosa dire: anche uno degli ultimi capisaldi di cui non si era mai dubitato, la magistratura, si rivela manchevole e incapace. [...] E un grave colpo hanno subito anche la verità e la giustizia35.
L'assemblea dei superstiti, interprete questa volta «dei sentimenti di tutta la popolazione», esprime la volontà di continuare la battaglia: un «comitato unitario d'appello per la giustizia», formato dai rappresentanti di ogni corrente politica, ne studierà i modi e cercherà la solidarietà della nazione civile36.

Il processo sarà seguito con partecipato coinvolgimento sino alla sentenza definitiva della Corte di Cassazione che il 25 marzo 1971 stabilì che si era trattato di disastro colposo, dando finalmente ai superstiti un risarcimento morale, nonostante la mitezza delle pene impartite. Si chiudeva così un fondamentale capitolo della «vicenda Vajont» ma se ne apriva un altro: il dibattito in sede civile per la definizione e il risarcimento dei danni, che si trascinerà sino al 1999 con la transazione Montedison a favore del Comune di Longarone.

Cause penali e civili si susseguirono trascinandosi per tempi lunghissimi, contribuendo a mantenere aperte le ferite causate dal disastro e impedendo ai superstiti di rinchiudere il doloroso passato alla loro memoria e volgersi finalmente al futuro: intanto la struttura fisica di Longarone si avvia al completamento. Nel 1975 la ricostruzione privata è attuata al 90%, sono ormai iniziate le opere pubbliche della zona ricreativo-sportiva del parco Malcolm, la sistemazione delle vie e delle piazze del centro; il loro completamento si avrà man mano che si potrà usufruire dei fondi stanziati con il rifinanziamento della legge Vajont nel 1978, nel 1983 e nel 1987. Pure la chiesa, la cui prima pietra era stata posta il 9 ottobre 1975, fu finalmente consacrata il 9 ottobre 1983.

2.3. Le scelte economiche di base per lo sviluppo del paese

Il processo economico che diede vita alla «nuova» Longarone fu contemporaneamente semplice e complesso. Semplice perché basato unicamente sull'industrializzazione cui si aggiunse con il tempo lo sviluppo del settore fieristico, e complesso perché, dopo il ritardo iniziale con cui le prime imprese si insediarono sotto la spinta degli incentivi statali, esse attraversarono periodi di crisi che portarono talvolta alla chiusura, talvolta alla ristrutturazione. Solo con l'impiantarsi nel paese dalla metà degli anni ottanta delle occhialerie si svilupparono prospettive ottimistiche riguardo alla consistenza e relativa stabilità dell'occupazione; nel 2001, secondo i dati dell'ISTAT, le fabbriche dell'occhiale e affini esistenti nel comune di Longarone davano lavoro a 2.299 addetti su un totale complessivo di 4.428 37.

Ma torniamo al primo periodo della ricostruzione, quando furono impostate le scelte economiche di base per lo sviluppo del paese. Agricoltura e allevamento, già molto ridotti prima del 1963, furono pressoché abbandonati mentre si puntò - come abbiamo detto sullo sviluppo del settore secondario, riprendendo il ruolo trainante che esso aveva assunto a Longarone già antecedentemente al disastro in difformità con il resto del territorio provinciale. Mentre però la zona artigianale, tra la stazione e il Piave, nella primavera 1966 «e tutta un cantiere, grazie alla volontà tenace dei nostri artigiani»38, l'industria sostenuta dai contributi statali stenta ad attecchire dato che essi sono fruibili non solo nell'area sinistrata ma in tutto il comprensorio. Così scrive Franco Franchini, consigliere comunale, nell'ottobre 1967:

A tuttoggi, le industrie insediate nei territori di tali comuni [Longarone e Castellavazzo] non sono altro che le ricostruzioni di una frazione delle imprese che già operavano nella zona [...]. Il quadro statistico dell'occupazione delle maestranze, e pertanto sceso dal quasi accettabile livello pre-disastro a quello di una zona sottosviluppata, dando origine a conseguenze delle quali le principali sono la necessità di trovare altrove una occupaziope per le nuove leve di lavoro ed il mancato rientro degli emigranti [...]. Notiamo invece che le industrie di un certo rilievo hanno ricevuto l'autorizzazione ad insediarsi ben al di fuori dei territori disastrati usufruendo così di cospicui finanziamenti aventi origine in minimi danni materiali o derivanti da diritti acquistati perlopiù per poche centinaia di biglietti da mille.
[...] Sollecitate da allettamenti massicci e consistenti, le società industriali hanno disertato le nostre aree per andare ad installarsi altrove, arrecando in tal modo ad altre popolazioni quei benefici economici collegati alia presenza di industrie ed alla conseguente maggior occupazione che, quasi del tutto, sono mancati a Longarone e a Castellavazzo
39.
Era questa l'espressione di un malcontento diffuso all'interno dei due comuni.
Poco dopo le prime aziende industriali cominciarono a sorgere, sostenute dagli incentivi economici previsti dalla legge n. 357, nelle aree nel frattempo predisposte dal CONIB40 nel Longaronese: nel marzo 1970 oltre alla Procond e alla Filatura del Vajont, che occupavano complessivamente più di 600 operai, faceva sorgere buone speranze la ormai prossima apertura di uno stabilimento per lavanderla industriale e uno per torrefazione del caffè41. Non andò in porto invece la Siderurgica Landini, importante industria di base per cui già era stata attrezzata l'area a Villanova e che avrebbe dovuto occupare da sola circa 600 dipendenti.

Nonostante ciò costituisse per i longaronesi una grande delusione, il censimento del 1971 indica i progressi che si sono ormai fatti nell'ambito dell'occupazione: le industrie manifatturiere del comune danno lavoro a 1.326 addetti e l'industria nel suo complesso a 1.609, quasi 1.000 in più che nel 1961 42. In occasione del primo decennale dal disastro del Vajont si scriveva sul bollettino parrocchiale: "L'occupazione è totale. Gli unici casi di disoccupazione temporanea sono dovuti al travaso da un'azienda all'altra per libera scelta dello stesso lavoratore. È noto che il Longaronese è oggi la zona più industrializzata della provincia e che gran parte della manodopera impiegata nei suoi stabilimenti viene da fuori"43.

Il decennio successivo fu un periodo difficile per l'industria nazionale, complice la crisi petrolifera, e ciò costrinse molte grandi imprese a ristrutturarsi per affrontare le mutate condizioni del mercato e della domanda.
Anche la situazione occupazionale nel Longaronese conobbe momenti preoccupanti. Alcune aziende, sorte per sfruttare le agevolazioni previste dalla legge, come l'esenzione decennale di imposte dirette e indirette, in prossimità della scadenza di tale termine chiusero o si trasferirono altrove; altre, come la Faesite e la Procond, incontrarono grosse difficoltà di mercato, e dovettero affrontare processi di ristrutturazione interna che non sempre andarono a buon fine. L'Amministrazione comunale seguiva passo passo con apprensione le vicende di ogni singola fabbrica: la cassa integrazione alla Procond, la chiusura dell'Antille Caffè , dell'Até lier des Orfè vres, poi l'aprirsi di nuovi stabilimenti (Pelf e Meccanica del Piave) nell'area di Villanova.

Si può leggere nel primo numero del «Notiziario dell'amministrazione comunale di Longarone», nell'agosto 1975: il problema occupazionale ci sta particolarmente a cuore perché solo il mantenimento degli attuali livelli occupazionali garantirà al paese la possibilità di continuare il suo sviluppo economico e civile. Qualora le fabbriche venissero chiuse o riducessero notevolmente la loro produzione e fossero costrette a licenziare i propri dipendenti, il nostro comune sarebbe destinato a morire. Sorto e sviluppatosi grazie al commercio, all'artigianato e all'industria, è proprio per questo che ha potuto sopravvivere nel corso dei secoli, e, in particolar modo, riprendersi e risorgere dopo la sciagura del Vajont44.

Nel suo insieme il nuovo complesso industriale manifatturiero del Longaronese superò il periodo di crisi degli anni settanta grazie alle agevolazioni che erano state prorogate, ma anche a causa del tipo di azienda, di dimensioni medie - che resse meglio di quelle grandi ai momenti di difficoltà del mercato - e con produzione diversificata anziché monoculturale: prevaleva il settore metalmeccanico, ma era presente anche il settore tessile, di lavorazione del legno, eccetera.

Secondo i dati ISTAT risulta che gli addetti nell'industria manifatturiera del comune di Longarone nel 1981 sono 1.599, quindi 273 unità in più rispetto al 1971. Si può concordare quindi sul fatto che il Longaronese accentua nel periodo 1961-1981 la sua «vocazione industriale», gode di uno sviluppo più rapido rispetto all'intera provincia bellunese e da bacino di emigrazione si trasforma in «un rilevante centro di assorbimento della forza-lavoro del comprensorio»45: tutto ciò sebbene non ci sia stata una programmazione reale di tale sviluppo in quanto molte imprese furono attirate soltanto dagli incentivi economici anziché da obiettive condizioni geografiche e strutturali favorevoli al loro insediamento qui piuttosto che altrove.

La successiva crisi economica produttiva degli anni ottanta interessò di nuovo anche la provincia di Belluno, tanto che nel solo comune di Longarone nel quinquennio 1981-1985 si persero 400 posti di lavoro. Si attivarono le associazioni cattoliche, nel maggio 1984, con l'istituzione di un «Fondo di solidarietà per lavoratori», per «aiutare con contributi e prestiti in danaro, e anche in altre forme, le famiglie dei lavoratori del Longaronese che si trovano in accertate difficoltà dovute alla crisi di lavoro che ha colpito la zona»46.
L'Amministrazione comunale si sforzo di «recuperare i posti di lavoro perduti a seguito della crisi delle aziende locali, nonché di creare nuove attività di lavoro»47 coinvolgendo soprattutto l'imprenditoria del posto in modo che a poco a poco si sostituisse a quella esterna.

Movimenti in controtendenza si manifestarono a iniziare dal 1986-1987, che permisero un recupero sia in termini occupazionali che «di vitalità imprenditoriale, con la nascita di nuove realtà produttive»48. Venne rifinanziata nel 1986 la legge n. 190 per il completamento della ricostruzione, e al suo interno essa «destina 5 miliardi [di lire] per le attività economiche delle zone del Vajont. In tal modo viene assicurata al CONIB la possibilità di continuare a concedere contributi alle attività industriali (nuove o che si rinnovano)»49. È il momento dell'insediarsi delle occhialerie, di questo comparto del manifatturiero di consolitiata tradizione in Cadore.

Sebbene si continui a stimolare «una poliproduttività» delle aziende in modo che abbraccino anche gli altri settori, le fabbriche dell'occhiale si ampliano e si moltiplicano nelle aree industriali del Longaronese. Se esse nel 1991 danno lavoro a 794 persone, cinque anni dopo, nel 1996, occupano già 2.298 addetti, cifra che rimarrà più o meno stabile negli anni successivi nonostante alcune circostanze sfavorevoli che costringono le unita più piccole a chiudere mentre le più grandi si ristrutturano trasformandosi in società di capitale e affrontando il mercato mondiale con prodotti di qualità50.

Nel luglio 1998 la ricostruzione economica di Longarone può considerarsi conclusa: "Il comune di Longarone - si legge nel bollettino dell'amministrazione - è sede del maggior polo industriale della provincia di Belluno. [...] Attualmente nel nostro comune abbiamo all'incirca 3.300 posti di lavoro, suddivisi nel settore dell'occhiale, dell'elettronica, della meccanica, del tessile e si è raggiunta quasi la saturazione dell'area a ciò destinata e corrispondente a 61 ettari per la sede di Villanova a cui vanno aggiunti 13 ettari della sede di San Martino. [...] La zona industriale, motivo di orgoglio del comune, che ha assicurato il lavoro alla cittadinanza permettendo di non conoscere la piaga della disoccupazione salvo che per sporadici casi, ultimamente ci rivela il rovescio della medaglia51.

E cioè i problemi legati allo sviluppo quali l'inquinamento dell'aria e quello acustico, «la viabilità, l'elettrosmog, l'abbandono di rifiuti pericolosi per decenni, ed altri ancora»52.

La presenza sul territorio di un tessuto industriale capillare porta oggi a interrogarsi sulla qualità della vita a Longarone e sui sistemi per migliorarla. Ci si rende conto dei limiti di uno sviluppo a senso unico, ci si interroga su ulteriori risorse del comune finora mai valorizzate: il patrimonio forestale, oasi ambientali come la val del Grisol e Cajada, il recupero museale di antiche usanze e mestieri nelle frazioni... Né si è finora avvertita in senso positivo la presenza a Longarone del Parco delle Dolomiti bellunesi, che forse avrebbe potuto contribuire al sorgere di iniziative di promozione turistica del territorio in modo da creare un'economia complementare alle attività industriali53.

Ciò è avvenuto invece grazie allo sviluppo del polo fieristico, con la Mostra internazionale del gelato - che si ebbe la prima volta nel 1959 e che dopo il disastro venne ripetuta a Longarone già nel 1968 - cui seguirono altre manifestazioni annuali di grande importanza. Nel 1978 venne inaugurato Arredamont, «mostra di carattere nazionale per l'arredamento della montagna»: Affiancare alla Mostra del gelato un'altra iniziativa analoga - si scriveva - significa lanciare sempre più il nome di Longarone tra gli operatori economici nazionali ed internazionali e fare della nostra cittadina uno dei centri dell'economia bellunese54.

Visto il successo ottenuto l'Ente Fiera, che succedette alla Pro loco nell'organizzazione delle esposizioni, ne predispose altre sino ad arrivare a una decina di manifestazioni all'anno, attraendo nel 2005-2006 oltre 1.500 espositori e 160.000 visitatori: Longarone Fiere con le sue manifestazioni legate al territorio e ai suoi valori, con rassegne che spaziano dall'edilizia all'agricoltura, dalle attività ludiche ed escursionistiche al turismo e all'ospitalità, dai prodotti agroalimentari alle attività da svolgersi all'aria aperta, quali la caccia e la pesca, dall'artigianato al commercio, alle mostre mercato e ai meeting internazionali, ha radicato il proprio ruolo di catalizzatore di iniziative di promozione economica e favorito l'approccio a mercati più vasti, proprio a favore delle imprese locali55.

I visitatori giungono per la gran parte da fuori provincia, e per la Mostra internazionale del gelato da oltre 50 nazioni. Un esempio di come Longarone punti sugli aspetti innovativi dello sviluppo è l'istituzione nell'area di Villanova della Certottica (Centro di certificazione della qualità dell'occhiale), un investimento in conoscenza, in collaborazione con l'Università di Padova, in grado di innalzare il livello del Made in Italy dell'occhialeria italiana che in provincia di Belluno ha una produzione pari al 75 % di quella nazionale.

Molte persone arrivano quindi a Longarone, per affari, per visitare le fiere e, ultimamente, attratti dai luoghi della tragedia, per una specie di «turismo culturale»; vi si soffermano quanto basta per raggiungere lo scopo, poi ripartono. Longarone è ancora per i forestieri un luogo di passaggio, non di soggiorno: ha mantenuto la sua funzione tradizionale di crocevia, punto dove si transita per recarsi altrove, e questa caratteristica è uno dei pochi legami che il paese «nuovo» ha con il suo passato.

3. LA RICOSTRUZIONE DELLA SOCIETA' CIVILE

9 ottobre 1963: la comunità non esiste più.
La Longarone di oggi, con il suo ampio e qualificato insediamento di fabbriche, i suoi palazzi e vie di recente ristrutturati, le sue nuove piazzette tirate a lucido, cosa ha in comune con la vecchia Longarone fatta di case di pietra, che nei ricordi ci appare come «un paese industrioso, articolato e insieme compatto, basato su sentimenti schietti di familiarità, amicizia, mutua assistenza»56?
Dov'e oggi l'animazione dei giorni di festa, il passeggio domenicale, lo spontaneo ritrovarsi al caffè , la facile comunicazione derivata da stabili rapporti sociali, in sintesi, dov'e il senso di appartenenza alla comunità?
Il venir meno dell'identità, lo spaesamento di cui parlano molti longaronesi e senz'altro segno dei tempi, in un mondo velocizzato, in cui tutto e relativo, mutevole, intercambiabile. Ma per il centro di Longarone tutto ha «inizio» la sera del 9 ottobre 1963, quando ogni equilibrio fu travolto: in conseguenza della distruzione fisica di uomini e cose, fra i rimasti «si sono create fratture gravi a livello di rapporto d'eta, di sesso, di composizione familiare e professionale, di possesso di beni e d'occupazione lavorativa»57.

La società non esisteva piu, bisognava ricostruiria in tutti i suoi aspetti. In questa difficile impresa si pensò a dare al nuovo paese ciiicienza tecnica, razionalità, modernità, infine benessere, ma non si fece un'opera di ricognizione del passato» che fu volutamente sepolto, non si indagò la «fisionomia della civiltà annegata» per ricrearne la qualità della vita, lo stile delle case, il tipo di aggregazione sociale58. Anzi, si cancellò anche quello che poteva essere conservato, il sagrato della chiesa, la gradinata dell'altare, i ruderi di alcune case che potevano essere un elemento prezioso di rilettura del paese. Oggi solo il Museo delle pietre vive ricorda l'antico «magnifico tempio», che è stato sostituito con la chiesa di Giovanni Michelucci, simbolo del dolore e contemporaneamente della rinascita di Longarone, percepita però dalla gente più come un'espressione concettuale che non come sede della propria comunità cristiana.

È mancato il concorso dei superstiti, chiamati poche volte e solo in seguito alle loro proteste contro i progetti «di carta», a esprimere un parere su come doveva essere il luogo che proprio essi avrebbero abitato. Probabilmente i tempi non erano ancora maturi per la concezione di un'edilizia in armonia con le concrete esigenze umane e ambientali, e tanto meno lo erano perché si potesse pensare e programmare un piano di intervento per la «ricostruzione psicologica, sociale, culturale della comunità»59.

Il commissario straordinario onorevole Sedati aveva iniziato un lavoro di indagine sulle esigenze non solo fisiche dei superstiti, suggerendo proposte che garantissero una loro concreta partecipazione «alla gestione dei diversi problemi in discussione: assistenza generale, assistenza agli orfani, distribuzione degli aiuti, piani per la ricostruzione urbanistica». In tal modo, attraverso un impegno diretto, avrebbero potuto affrontare positivamente «i problemi individuali e collettivi del momento»; invece furono lasciati nella passività , i bisogni «impalpabili» furono ignorati.

Il superstite, relegato nel suo ruolo passivo, è diventato in un primo momento «l'assistito», e poi «l'avente diritto» al risarcimento materiale e morale di tale sciagura causata dall'uomo, e quindi molto più pesante da sopportare che non una catastrofe naturale. Al tormento di questa grande ingiustizia subì ta che univa gli animi in un solo dolore, si sovrapposero via via malumori, rancori, polemiche che misero l'uno contro l'altro i superstiti stessi: i criteri di distribuzione degli aiuti, la determinazione dell'entità degli indennizzi, le offerte di transazione dell'ENEL generarono sospetti di nuove ingiustizie, di privilegi, di speculazioni che continuarono ad alimentarsi negli anni, e ancora oggi non sono del tutto spariti.

A prescindere da tutti i casi nel Pordenonese di malversazione dei fondi destinati al Vajont, che furono perseguiti dalla magistratura, era la stessa legge speciale n. 357 a permettere movimenti di danaro che in realtà divennero di fatto speculazioni sulla tragedia, a causa soprattutto dell'insufficiente informazione dei sinistrati sulle agevolazioni previste e della mancanza di adeguati controlli. Ad esempio - come si è già detto - era del tutto legale che le «provvidenze», o i «diritti», potessero essere ceduti a terzi quando i legittimi proprietari non ne potessero o volessero beneficiare. Non vi fu nessuna opposizione in Parlamento, nemmeno da sinistra, su questo punto della legge, «eppure la norma urtava qualsiasi principio giuridico, di buon governo e anche di buon senso»60.

Persone che non avevano avuto alcun danno dal Vajont ricavarono così grossi vantaggi economici, mentre altre vennero sostanzialmente defraudate dei loro diritti. La comunità dei superstiti, amareggiata e delusa, si frantumò al suo interno, perse l'unione, la forte identità che l'aveva legata nel periodo dell'emergenza, e così non fu in grado di dialogare con i nuovi arrivati, con i «foresti» che l'opera di ricostruzione in atto richiamava a Longarone.

Ad accrescere la difficoltà a comunicare con gli altri, dentro e fuori del paese, avrebbe concorso il fatto con il passare del tempo nell'opinione pubblica che i superstiti cominciarono a essere considerati a volte come delle persone che, sì , avevano sofferto a causa di un evento che i più erano convinti fosse «naturale» - la causa innocentista, come abbiamo visto, aveva avuto la prevalenza nei mass media - ma erano stati ben risarciti dallo Stato con «fiumi di danaro»: «con le tasche piene si piange meglio», si sentì dire qualcuno.
Tale pregiudizio avrebbe spinto alcuni superstiti a chiudersi ancora di più nel proprio personale dolore. Si tratta però di stati d'animo individuali, non generalizzabili a tutta la comunità.

Ricordiamo solo che gli stanziamenti previsti dai diversi provvedimenti legislativi per il Vajont ammontavano nel 1992 a 1.450 miliardi di lire (a valori di quell'anno), elargiti a partire dal novembre 1963. «Classificando in ordine di grandezza gli stanziamenti per calamità realizzati dopo il 1968 - scrive Gian Paolo Barbetta - il Vajont si trova solo al quattordicesimo posto».
Tali cifre «non paiono pertanto "fuori linea" rispetto a quanto si è verificato in circostanze analoghe in altre parti del Paese, anche se nella comparazione e complesso tener conto delle difficoltà tecniche e ambientali (e perciò dei differenziali di costo) dei diversi interventi ricostruttivi»61. Inoltre, tali fondi servirono non solo a ricostruire le zone sinistrate, ma a finanziare l'industrializzazione di ampie zone della provincia di Belluno, e in parte anche di quella di Pordenone. Ma torniamo all'interno della comunità distrutta, ai suoi primi tentativi di rinascere.

3.2. I molti coraggiosi sforzi di ripresa sociale

Mentre gli adulti vagavano ancora fra le macerie alla ricerca dei dispersi, ed erano assorbiti anima e corpo dai problemi della casa, del lavoro, di come fare a ricominciare a vivere, i bambini erano lasciati soli, nessuno aveva né il tempo né la forza di occuparsi di loro, nessuno parlava con loro. Forse proprio attraverso i ricordi personalissimi e lontani di un bambino che allora aveva sei anni si può capire il bisogno di normalità e gli sforzi coraggiosi per porne le prime basi da parte della parrocchia e dell'Amministrazione comunale. Egli racconta che fu don Piero Bez, il nuovo arciprete a prendersi cura di lui e dei compagni, a invitarli negli angusti spazi della provvisoria canonica a giocare, a stare assieme il pomeriggio, dopo la scuola. Una volta ultimata la chiesa prefabbricata poi, nei primi mesi del 1964,

in un'atmosfera febbrile attrezzò per noi [ragazzi], in una casa diroccata di fronte al municipio, una piccola sala giochi con un calcetto e un bigliardino. Con la collaborazione di alcuni giovani di allora [...] aprì il «Cinema Piave» in un prefabbricato a fianco della chiesa. Ogni domenica pomeriggio, dopo il vespro e la dottrina, c'era uno spettacolo e tra il primo e il secondo tempo si poteva comprare il croccante da «Arcangelo Caramei»62.
La vita di parrocchia di prima fu ripresa e riproposta pari pari, in segno di continuità con il passato. Pure nelle case prefabricate di Pians nel frattempo si era ricreata una piccola comunità, con i suoi diritti e le sue abitudini che venivano dal paese vecchio: si ricordano ancora le amicizie di quei primi giorni fra bambini e fra adulti, i rapporti di solidarietà, i giochi, gli incontri. Tali legami a poco a poco si persero con lo smantellamento dei prefabbricati, che portò a un'altra dispersione dei superstiti nelle case nuove ormai ultimate. Questo passo atteso da tanti anni ruppe un equilibrio che nel frattempo si era formato: era stato trovato un modo di vivere insieme che andò distrutto di nuovo, si ricominciava un'altra volta daccapo.

All'inizio si passeggiava la domenica come una volta quando il paese era ancora in piedi. Allora c'era la banda, si mangiava il gelato, si stava insieme in allegria. Ora si camminava fra le macerie, richiamando a mente le vecchie vie, dove erano state messe delle targhette con i nomi delle famiglie scomparse, come l'indicazione del panificio, dei negozi, delle osterie... Erano le ultime tracce del passato, che sparirono del tutto con l'avviarsi dei lavori di ricostruzione e con il popolarsi del paese di tanta gente venuta da fuori:

Qualcuno era andato via, non è più tornato qui... [...]. Diverse famiglie sono andate a stare a Belluno [...]. Ricordo che si sentiva la mancanza dei nostri compagni di prima, tra di noi si facevano sempre i confronti con com'era prima... Poi pian piano..., i bambini sono quelli che si adattano più facilmente. Il grosso è arrivato anni dopo, quando il paese è stato ncostruito. Il 1968-69 è il periodo in cui il paese si ripopola, con le case che vediamo adesso. C'è stata un'immigrazione massiccia di persone, tante dai paesi limitrofi ma tante da fuori... I bambini venivano a scuola con noi, arrivavano anche durante l'anno. Parlavano italiano, e allora noi insegnavamo loro il dialetto! Si sono integrati, con la scusa del gioco i bambini entrano subito in familiarità tra di loro [...]. Ma poi tanti di questi sono andati di nuovo via. C'è stato un viavai di gente, un ricambio continuo, prima per la ricostruzione, poi perché han fatto le fabbriche, che poi sono andate in crisi... Qui a Longarone c'è sempre stato un viavai di gente63.
Prima del disastro molte persone arrivavano in paese, per commercio, per lavoro, si era abituati al contatto con chi veniva da fuori, non era certo una comunità chiusa quella di Longarone. Dopo il disastro tutto cambia:
Il vuoto lasciato dalle persone scomparse, e da quelle che in seguito al trauma e ai tempi della ricostruzione hanno deciso di abbandonare il paese per trasferire la lore residenza nei comuni limitrofi, è stato colmato dall'immigrazione di nuovi abitanti, attratti dalle opportunità offerte dalle attività economiche locali. [...] Gli immigrati dopo il disastro, sono giunti in un paese che stava affrontando i problemi della ricostruzione fisica, ma che non era pronto o disposto a sostituire le relazioni sociali tragicamente annullate con nuove relazioni. Oltre tutto, il sentimento collettivo del sopravvissuti era indirizzato in primo luogo alla formazione dell'identità di «vittime», che vedevano in parte minacciata anche dalla ricostruzione demografica del paese64.

33. Il paese si popola di nuovi abitanti

Il disastro aveva causato 1.910 vittime, di cui 109 risiedevano nei comune di Castellavazzo, 158 in quello di Erto e Casso e circa 200 in altri comuni. Il comune di Longarone contava, al 30 settembre 1963, 4.638 abitanti, divisi in undici frazioni, con il 30% concentrati nel capoluogo. Tre mesi dopo il comune aveva 3.230 abitanti: nel capoluogo erano rimaste solo 406 persone. Nel giro di 10 anni la comunità si ripopola fino a raggiungere quasi il livello di prima della catastrofe: nel 1972 Longarone conta 4.346 abitanti65.

Nel decennio successivo l'aumento continua, in controtendenza con quanto succede in provincia di Belluno, dove il calo demografico è già iniziato per proseguire negli anni successivi. Nel 1981 a Longarone ci sono 4.481 residenti, con un incremento sia del numero delle famiglie che dei loro componenti. A iniziare dal 1991 la tendenza si inverte, la popolazione comincia a diminuire sino a raggiungere 4.122 abitanti nel 2001; si risente anche qui del calo delle nascite ma senza che esso incida sensibilmente sulla stabilità demografica del comune.

Complessivamente, rispetto alla provincia, la popolazione di Longarone dal 1961 al 1991 risulta mediamente più giovane: «Ad ogni decennio Longarone vede una composizione leggermente più elevata per le prime fasce cTeta e inferiore per le ultime due»66. Giuseppe Capraro, nel suo studio sociologico edito nel 1975, analizza i motivi di tale fenomeno; e in genere la composizione della «nuova» popolazione che è diversa da quella di prima:

Longarone si è ripopolata - egli scrive - perché ci sono stati tanti nuovi matrimoni, dai quali sono nati numerosi bambini. [...] Alto è stato pure l'indice dell'immigrazione, specie nei due momenti forti della ricostruzione (1964 del 1969) con netta prevalenza del secondo; vengono a Longarone perlopiù famiglie giovani o sposi che, magari, hanno anticipato la data del loro matrimonio perché nel nuovo paese ci sono opportunità economiche ed è facile trovarvi una sistemazione migliore67.
È il disastro stesso a mettere in moto dei meccanismi di rinnovamento che nel giro di dieci anni ringiovaniscono l'intera popolazione: la famiglia e la parentela acquistano una grande importanza fra i superstiti nel momento di scoramento generale, i legami primari si consolitiano, la volontà di ripresa incrementa tutti gli indici di vitalità (fecondità , nuzialità, natalità, immigrazione).

A un aumento così importante e rapido della popolazione non si accompagna però , secondo Capraro, un corrispondente miglioramento della qualità della vita:

Non è facile ambientarsi a Longarone [...]. Il centro è diventato terra di nessuno; gli incontri sono frettolosi; non ci si conosce più ; abitanti dello stesso condominio non si salutano nemmeno, non per cattiveria o vecchi rancori, ma solo perché non ci si presta reciproca attenzione; le presentazioni sono confinate al primo incontro e poi via: ciascuno ha il suo programma e lo segue senza confrontarlo con gli altri. Sì , ci sono alcune manifestazioni di massa; qualche festa ben riuscita; degli spettacoli dove si è in molti, magari ci si pesta i piedi per la ressa di persone e poi tutto muore lì , la vita quotidiana continua con la sua segmentazione di sempre68.
Questa estraneità generale degli uni per gli altri viene denunciata anche oggi quasi con le stesse parole: il bisogno di «unita», di «comunità» è tuttora un'esigenza sentità da tanti a Longarone centro, mentre la vita nelle frazioni, dove la continuità storica non è stata rotta, e più solidale, più ricca nei rapporti umani.
Allora, negli anni settanta/ottanta, alla base di quella «diffidenza reciproca» c'era la divisione fra vecchi e nuovi longaronesi, cui parrocchia, associazioni, Amministrazione comunale cercarono di far fronte. Secondo studi ormai noti (Tessarin, Capraro, Calafiore) la gran parte dei «foresti» impiantatasi a Longarone dal 1964 agli anni ottanta nelle fasi di maggior incremento dello sviluppo edilizio e industriale, non veniva da molto lontano: circa la metà arrivava dai comuni direttamente confinanti, moltissimi comunque dalla provincia di Belluno e dal Veneto.

L'origine «nostrana» della quasi totalità dei nuovi longaronesi - scrive ancora Capraro - conferma l'affinità culturale con i superstiti e fa pensare ad una facile integrazione. Invece si dà il caso di gente partita magari da pochi chilometri di distanza che per i locali diventa subito «foresta» quando mette su casa a Longarone69.

Quello che fa la differenza non è l'alterità d'origine, bensì «il fatto di aver vissuto o meno l'esperienza del disastro, dell'emergenza, delle vicende giudiziarie e delle prime fasi della ricostruzione. Questa esperienza è senza dubbio costitutiva dell'identità della comunità»70, la cui «memoria» non può essere condivisa nello stesso modo dai vecchi e dai nuovi longaronesi.
Non sembra esserci un fenomeno di «segregazione abitativa» degli uni o degli altri, o differenze significative riguardo al tipo di attività svolta e al livello di occupazione, in quanto nessun gruppo detiene di per sè una posizione privilegiata. Forse si rimprovera più o meno implicitamente ai nuovi di aver tratto vantaggio dall'opera di ricostruzione, e quindi dalla tragedia, ma ciò che rende difficile il legame e l'identità forte della «comunità colpita» consolitiatasi con il protrarsi delle vicende giudiziarie, e quindi del peso dell'ingiustizia subì ta che impedì di staccarsi dai passato costringendo anzi a riviverlo per tanto tempo ancora dopo il disastro.

Invece, lo si scriveva nel 1993 ma lo affermano anche oggi quasi con le stesse parole quanti sono attivamente coinvolti nella vita sociale del paese,

per conservare e trasmettere alle generazioni che verranno il senso e la ragione della tragedia consumatasi a Longarone, l'identità rivolta alla comunità del passato deve aprirsi e integrarsi al presente, modificarsi affinché l'essere di Longarone non significhi solo essere parte di una comunità disastrata, ma anche di un nuovo paese ricostruito attraverso l'impegno morale e civile di tutti i suoi abitanti71.
Le istituzioni locali religiose e politiche fecero molto perché si facesse più vivo «il senso della comunità» che - si scriveva in occasione del 9 ottobre 1975 - «è la mè ta più ambì ta per il nostro paese ora che ha risolto, almeno in parte, i suoi problemi di ricostruzione materiale, ma che non è riuscito ancora a ricreare quell'anima che possedeva prima del disastro»72.

La parrocchia organizzò incontri e dibattiti per facilitare la voglia delle persone di conoscersi, le amministrazioni comunali favorirono appena possibile la ripresa di attività culturali e sportive, con particolare attenzione ai giovani, così numerosi nella nuova Longarone.
Nacquero man mano, già a poco tempo dai disastro, per protrarsi spesso fino a oggi, associazioni volontaristiche di ogni tipo. Si riprendeva una tradizione molto viva prima del 1963, anche se - si lamenta spesso - con una partecipazione più scarsa di una volta e solo di breve periodo. Tuttavia, quasi ogni notiziario comunale dedica spazio all'elenco delle loro attività, e ne sottolinea l'importanza per la qualità della vita, per la ricchezza della società .

Qui possiamo solo ricordare, tra le tante che operarono e operano tuttora attivamente sul territorio, qualcuna di queste numerose associazioni: la Pro loco, che all'inizio si occupò dell'organizzazione delle fiere ma poi divenne un punto di riferimento fermo per tante attività ricreative e culturali; la Fraternità della misericordia, con fini assistenziali; il Circolo fotografico Bruto Recalchi, che cura soprattutto il recupero della memoria storica e delle tradizioni locali; i vari club sportivi, fra i quali il ciclistico Veloce club Longarone fu il primo a rinascere, il 20 gennaio 1965.

Allo sport venne del resto dedicata un'ampia area nell'opera di ricostruzione, con grandiosi progetti realizzati via via negli anni: lo stadio, la pista di atletica, il palazzetto dello sport, la piscina, strutture all'avanguardia a livello del triveneto che richiamarono manifestazioni nazionali e internazionali, anche se comportarono costi di gestione difficilmente sostenibili con il tempo per l'Amministrazione comunale.

La biblioteca civica «Carlo Pais», inaugurata nel luglio 1960, si era salvata dai disastro, e a poco a poco divenne un importante centro di riferimento culturale di raccolta di documentazione per il paese nuovo. Essa fu gestita in un primo momento dai Circolo Gianfranco Trevisan, sorto alla fine del 1969 in ricordo del medico condotto scomparso nelle acque del Maè durante l'alluvione del 1966, con lo scopo di «promuovere e diffondere la cultura fra i giovani»73.
A costoro si dedicherà sempre molta attenzione, non solo con iniziative di vario ordine o con indagini sui loro bisogni ed esigenze, ma chiamandoli a un ruolo di protagonisti, come con il «Progetto giovani» approvato dai Consiglio comunale nel dicembre 1989: considerato che nel comune erano ben 1.500 (su poco più di 4.000) le persone di età inferiore ai 25 anni, si decise di sperimentare un «Centro di aggregazione giovanile» con sede stabile «come strumento per favorire la socializzazione, la partecipazione e il protagonismo [...], il positivo utilizzo del tempo libero, la realizzazione dei valori»74.

Gruppi di giovani si formano anche autonomamente, per fare teatro, o, come i recenti 'The Idols', «con l'obiettivo di organizzare delle iniziative a carattere non solo sportivo, ma anche sociale e di solidarietà»75.

3.4. Vecchio e nuovo, memoria del passato e progetti per il futuro a confronto

Longarone appare, nel tempo e oggi, ricca di iniziative e attività di ogni tipo, per tutte le età , eppure da tante parti si continua a lamentare la scarsa partecipazione della gente, l'indifferenza verso l'aspetto sociale e culturale del paese, lo scoraggiante assenteismo a ogni proposta di essere attivi con un proprio contributo. Ciò che manca - si dice - è un tipo di aggregazione spontanea, fatta di occasioni quotidiane, di incontri informali, di piccole solidarietà.

Qualcuno ribadisce oggi quanto Ivo Mattozzi scriveva ancora all'inizio degli anni ottanta: «Lo stile di vita dei Longaronesi di oggi assomiglia molto di più a quello degli abitanti delle periferie urbane che non a quello dei Longaronesi di ieri»76. Se lo sfaldamento delle comunità di montagna è iniziato ovunque da tempo anche senza aver subito un trauma come quello del Vajont, a Longarone la scomparsa improvvisa del passato ha reciso di netto le radici e dall'oggi al domani è nata una società artificiale, composita, condizionata dallo sviluppo delle industrie che dominano l'economia del paese. La maggior parte delle famiglie ha i parenti lontani perciò i bambini crescono senza la vicinanza dei nonni, i genitori lavorano entrambi, i giorni festivi si torna al paese d'origine: Longarone per tanti diventa il luogo dove si lavora, e il tempo libero lo si trascorre altrove. Il fatto che il Longaronese sia ancor oggi un polo di attrazione di manodopera da fuori per le sue fabbriche, richiama gente nuova, perciò il processo di integrazione è sempre 'in fieri', reso più complicate dal relativamente alto numero di cittadini stranieri residenti: n. 265 al 31 dicembre 2006 nel comune di Longarone, la maggior parte provenienti da Croazia, Cina, Albania77.

Un fenomeno che fa riflettere, in una società che vive di un'industria tecnologicamente avanzata come quella di Longarone, e il tasso di scolarizzazione che al censimento 2001 risulta ancora relativamente basso. L'indice di non ultimazione della scuola dell'obbligo (dai 15 ai 52 anni), è del 9,29%, rispetto alla media provinciale del 7,68%. La percentuale del conseguimento del diploma di scuola superiore (dai 19 anni in su) e del 21,68% rispetto alla media provinciale del 27,75%; e più basso che a Longarone solo nei comuni montuosi molto lontani dalle sedi scolastiche, mentre è ben più elevato a Perarolo, Calalzo, Lozzo, e Lorenzago. L'indice di possesso del diploma di scuola superiore per la fascia d'età dai 19 ai 34 anni è anch'esso molto più basso della media provinciale e di alcuni comuni limitrofi come Lorenzago, ma anche Castellavazzo. In compenso, il tasso di disoccupazione complessivo è molto basso (2,73% sulla media provinciale del 3,66%), e ancora più basso quello relativo alla disoccupazione giovanile (6,78% sulla media provinciale del 10,19%)78.
L'attrattiva, che secondo gli operatori scolastici pare ancor oggi diffusa fra i ragazzi, del guadagno precoce anche se non qualificato conseguente a un lavoro di pura manovalanza, ha inciso senz'altro negativamente sulla qualità della vita a Longarone inibendo la grande potenzialità creativa e costruttiva insita nelle nuove generazioni.

Se si lamenta da più parti la poca solidarietà all'interno del paese degli uni verso gli altri, non si può certo dire che essa sia mancata verso l'esterno. La comunità superstite non ha dimenticato gli aiuti giunti da ogni parte del mondo dopo il disastro, e ha dato il suo contributo ogni volta che una nuova tragedia lo richiedeva. Amministrazione comunale e associazioni di volontariato si sono attivate ad esempio in occasione del terremoto del Friuli, dell'Irpinia e dell'Umbria, del disastro di Tesero, dell'alluvione del Piemonte. Patti di amicizia legano Longarone in particolare con Bagni di Lucca già dal 1964 in quanto in quel paese si stava per costruire una diga osteggiata dagli abitanti per possibili conseguenze dannose; con le città croate di Plostina e Kutina, in cui vivono delle comunità originarie del Bellunese, colpite dalla guerra nell'ex Jugoslavia; con Urussanga in Brasile dal 1991, in quanto la maggior parte dei suoi abitanti ha origini locali.

Queste iniziative, insieme ad altre più recenti a salvaguardia del territorio e prevenzione di disastri futuri, come l'organizzazione di convegni sul tema, l'impegno nella costituzione del Centro regionale di protezione civile, del laboratorio GRJL (Geo Risk Joint Lab) che, all'interno del CNR, «nasce dall'accordo bilaterale sottoscritto tra il niinistro degli Affari esteri italiano e quello del territorio e infrastrutture giapponese» 9, esprimono un modo di «fare memoria» rivolto al futuro, progetto più che ricordo. A questa memoria «ufficiale», fatta propria dalle istituzioni pubbliche, si accompagnano però tante memorie «private» che non sempre sono in accordo con essa.

Quanto sia delicata la questione di consegnare il passato alle nuove generazioni lo dimostra la difficoltà negli anni a porre le basi concrete di un «Museo del Vajont»: prima, nel 1979, esposizione «permanente» nei locali del municipio, poi progetto più ambizioso ma a tutt'oggi non concretamente realizzato, in quanto non si è ancora adattata a tale scopo una sede idonea. Il motivo non è probabilmente tanto di ordine funzionale, bensì legato al fatto che un museo nasce quando si è posta una reale distanza emotiva fra presente e passato, e quest'ultimo non incide più sull'animo dei protagonisti se non come ricordo.

Invece nel caso del Vajont i conti con il passato non sono ancora stati fatti del tutto, tante cose sono percepite come irrisolte soprattutto da parte di chi dentro di se porta ancora il peso delle ingiustizie subì te, la rabbia di una vita «anormale», «marchiata» dall'evento, sofferenze che è ben difficile quantificare e risarcire in modo adeguato sia moralmente che economicamente. Nel caos del dopo disastro ci fu chi ebbe più sfortuna degli altri, chi fu abbandonato a sè stesso, e in sè stesso si chiuse, sentendo che la vita si era fermata lì , a quel 9 ottobre.
Furono soprattutto coloro che avevano rinunciato a parlarne interiorizzando la propria condizione di vittima al punto da esasperare le difficoltà del vivere, che percepirono il racconto teatrale di Marco Paolini, trasmesso in diretta tv il 9 ottobre 1997, come una liberazione: si sentirono finalmente in diritto di essere ascoltati, e in dovere di tramandare agli altri la propria traumatica esperienza.

Molto fino ad allora si era scritto e molto si era detto nelle scuole, soprattutto in occasione delle commemorazioni del 9 ottobre, ma in un modo in un certo senso «discreto» che non aveva avuto grande eco fuori della comunità superstite; invece, dopo il monologo di Paolini la memoria fu «diffusa» in lungo e in largo, chi non aveva mai parlato cominciò a raccontare e a Longarone iniziò a giungere tanta gente da fuori per vedere, per sentire, (forse) per capire.

Un altro fatto concorse a riaprire le ferite mai rimarginate, fece tornare di attualità non solo la tragedia del 9 ottobre ma il «dopo», che fu - dicono in molti - «peggio di un secondo Vajont», e pose concretamente il problema del «fare memoria»80. Fra il 1999 e il 2000 si giunse alla conclusione della lunga e tormentata vicenda giudiziaria con un accordo di transazione definitiva che chiudeva la spinosa questione del risarcimento dei danni patrimoniali e morali arrecati alle zone sinistrate: la Montedison si impegnò a corrispondere al Comune di Longarone e a quello di Castellavazzo la somma rispettivamente di 77 e di 3,8 miliardi di lire81.

L'intenzione dell'Amministrazione di Longarone fu di utilizzare quel risarcimento a favore indistintamente di tutta la comunità: per dare una nuova veste al centro in modo da renderlo il più possibile «vivibile» e «animato»; per ristrutturare il cimitero delle vittime di Fortogna in modo da farlo divenire un «monumento nazionale»; per diffondere la memoria del Vajont con iniziative che facessero idealmente percepire «il paese che non c'è piu» nello spazio attuale della «nuova» Longarone eec.
Si pensò sostanzialmente a una nuova ristrutturazione di Longarone dopo quella radicale degli anni sessanta, per chiudere con il passato, per dare finalmente «normalità » al paese anche dal punto di vista architettonico. Si privilegiò la memoria «collettiva» da consegnare ai posteri, anziché quella «soggettiva» dei pochi superstiti e sopravvissuti oggi rimasti.

Questo ha generato un senso di spaesamento in alcuni, e di ribellione in altri a difesa di una memoria concreta, individuale, fatta di persone, di nomi, di singoli dolorosi eventi che si temeva venisse dimenticata per sempre con la scomparsa degli ultimi protagonisti. Un cimitero fatto di croci bianche tutte uguali senza fotografie, una Longarone con piazze nuove e con le case colorate, sono sì forse più belli esteticamente, più ordinati e funzionali, ma costituiscono un altro elemento di stacco dal passato del ricordo che si percepisce allontanarsi sempre più : si sfumano quei pochi punti di riferimento affettivi e ambientali che avevano aiutato a vivere, e in un certo senso come ricominciare un'altra volta. Da qui nuove lacerazioni, nuovi contrasti.

4. LA VALLE DEL VAJONT: UNA STORIA TRAVAGLIATA

In questo saggio, per economia di spazio, non abbiamo parlato esplicitamente del comune di Castellavazzo ma il Longaronese è stato considerato nel suo insieme: anche se di ben diversa entità furono i danni subìti, i due paesi infatti hanno condiviso in linea di massima i problemi inerenti alla ricostruzione che abbiamo in sintesi delineato. Inoltre, per quanto riguarda i servizi e il lavoro, Castellavazzo gravità su Longarone; la cultura, le tradizioni, la storia passata dei due comuni non presentano differenze sostanziali.

Ben diversa è invece la situazione di Erto e Casso prima, durante e dopo il disastro, per cui è opportuno almeno qualche cenno a riguardo. La loro economia prima del 1963 si basava non sull'industria ma sull'emigrazione e sulla coltivazione della terra, una parte rilevante della quale era però già stata espropriata dalla SADE per la costruzione dell'invaso82.
Il 9 ottobre oltre alla distruzione dell'abitato di San Martino e di alcune altre frazioni, il comune perse tutta l'area pastorale del monte Toc, buona parte dei seminativi di Casso, parte dei seminativi di Erto e circa il 30% del patrimonio zootecnico. Il disastro portò quindi all'improvvisa dissoluzione di un mondo basato su un equilibrio molto precario, accelerò «nel modo più brutale e con largo tributo di sangue [...] un processo in atto: l'abbandono della montagna e il declino del paesaggio culturale»84.

Il comune venne subito evacuato per motivi di sicurezza, la popolazione fu ricoverata in gran parte a Cimolais e Claut, dove vennero poi costruite delle case prefabbricate. Il bestiame rimasto fu messo all'asta, i campi abbandonati, e impedito l'ingresso al paese di Erto per il rischio "di caduta di frane e di esondazione del lago". Per scoraggiare il rientro abusivo fu interrotta l'erogazione di energia elettrica e il funzionamento dell'acquedotto. Con quest'esodo coatto comincio però anche la divisione della comunità, una parte della quale era propensa ad accettare il definitivo allontanamento dal paese e l'insediamento in una località nuova «liberamente scelta», mentre la rimanente parte pretendeva un solerte svuotamento del lago per permettere il rientro senza pericolo a Erto e la ripresa dell'economia tradizionale.

Nel febbraio 1964 venne costruito un muro al passo San Osvaldo, dichiaratamente "per proteggere Cimolais in caso di esondazione del lago", ma con esso, passato alla storia come «il muro della vergogna», attraverso uno stretto e obbligato passaggio si esercitava un posto di blocco molto efficace per impedire rientri non autorizzati. Solo il 1° marzo 1967 fu revocato ufficialmente il decreto che vietava la permanenza a Erto, ma parecchie famiglie, già a iniziare dall'inverno 1963-1964, vi si erano insediate clandestinamente, decise a riprendere la propria vita di prima pur nell'illegalità e nella scomodità di un paese abbandonato dallo Stato, senza più servizi, senza scuole, senza Amministrazione comunale che era stata spostata provvisoriamente a Cimolais.

Nel frattempo era già iniziata la costruzione dei nuovi insediamenti nel maniaghese. Con un referendum sottoposto ai capifamiglia alla fine del 1965 gli abitanti di Erto e Casso erano stati chiamati a scegliere fra tre alternative: «rimanere a Erto, trasferirsi in un paese da erigere nel territorio di Maniago, oppure in una frazione di Ponte nelle Alpi». A Erto (21% delle scelte) sarà predisposto, a partire dal 1971, un piano per 150 abitazioni in località Stortà n, a monte del vecchio abitato; a Ponte nelle Alpi (15%) sorgerà la frazione «Nuova Erto»; in pianura, allo sbocco della Valcellina, fu creato il nuovo paese di Vajont (64%). «Si trattò quindi di una vera e propria emigrazione - più o meno forzata, date le scarse certezze offerte dalla scelta - dei 4/5 della popolazione»85.

Il 23 aprile 1971 avvenne quanto era già nell'aria da tempo: il Consiglio comunale, pressato dai superstiti che non avevano voluto abbandonare la loro valle, deliberò la scissione amministrativa fra il Comune di Erto e Casso e il nuovo paese di Vajont, che poco dopo verrà riconosciuto come Comune autonomo dalla Regione Friuli Venezia Giulia. Si legge sul bollettino parrocchiale di Longarone riguardo tale deliberazione:

"A Cimolais è stata clecisa la spaccatura della comunità ertana e, praticamente, la sua fine. Fine verso la quale i superstiti di Erto si avviarono quando scelsero di distribuirsi in varie zone, rinunciando ai vincoli di tradizione e di costume, in vista di un maggior benessere e nella prospettiva di rifarsi una nuova esistenza. Quello che Longarone seppe evitare nelle drammatiche giornate del dicembre 1963 [...] è stato invece il destino di Erto. Ora sono rimasti quassù i più attaccati alla propria terra, coloro che nutrono ancora fiducia che la vecchia Erto possa tornare a rivivere e a svilupparsi. La decisione odierna, che propone di creare due comuni, uno ad Erto, l'altro a Vajont, non fa che ratificare una situazione che già di fatto esisteva86.
Negli anni successivi si cominciò a costruire il paese in località Stortàn, fra tante polemiche e con molta lentezza, così che nel 1982 solo un terzo delle nuove abitazioni erano completate. Edifici moderni si opposero senza intermediazione a quelli tradizionali del paese vecchio, che vennero abbandonati a sè stessi. Oggi chi si ferma a Erto può passeggiare fra il vecchio centro quasi deserto ma testimone di una vita antica ricca di una propria preziosa specificità. Appena a monte vede estendersi il nuovo anonimo abitato; qualche ristorante e il Museo del Vajont, gestito dal Parco delle Dolomiti friulane, accolgono i frequenti visitatori che arrivano lassù nel giro delle zone disastrate, divenute così note dopo l'orazione civile di Paolini e il film di Renzo Martinelli, 'Vajont', uscito nelle sale cinematografiche nel 2001.

Quale il presente e il futuro dei paesi di Erto e Casso? Sarebbe proprio opportuna una ricerca approfondita su questa comunità oggi dispersa in tre località diverse, divisa fra chi si è adeguato alla vita di pianura e chi invece insiste per abitare la montagna. Quali i rapporti fra questi due mondi? Quale l'impatto del ricordo sulle scelte fatte in questi ultimi quarant'anni?

Come Longarone, anche il Comune di Erto e Casso ha accolto il 13 gennaio 2000 la proposta di transazione avanzata dall'ENEL, con l'offerta di un corrispettivo di oltre 18 miliardi di lire a fronte dell'abbandono delle cause in corso, da ripartirsi per il 35% a favore del Comune di Vajont. Ma può questo servire a dare pace agli animi, a chiudere le ferite ancora aperte? E in che modo la memoria del Vajont, così divisa, sarà consegnata alle future generazioni?

Il Comune di Erto e Casso al momento del disastro aveva 1.931 residenti; nel censimento del 2001 se ne sono contati 424, di cui 35 nel paese di Casso. Il calo demografico non si è avuto solo con lo scindersi della comunità andata ad abitare in pianura alla fine degli anni sessanta, ma è stato continuo anche dopo: nel 1971 a Erto e Casso i residenti erano ancora 671 87. Oggi il lavoro è abbastanza vicino nelle industrie del Longaronese, la viabilità è più comoda, comincia a esserci un barlume di turismo, e qualcuno mette a posto la vecchia casa: ci potrà ancora essere un'inversione di tendenza per questi paesi, o saranno definitivamente abbandonati a sè stessi88?

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1 Teresa D'lncà , Din don le canpane de Longaron... Il Vajont raccontato da una maestra ai suoi alunni di quel tempo, Comune di Longarone, Longarone 2003, pp. 113-114. 2 Ibidem, p. 117. 3 Con il termine «superstiti» comprendiamo anche i «sopravvissuti», ben consapevoli però del fatto che questi ultimi sentono di non poter condividere con nessun altro la loro drammatica esperienza di estratti vivi dalle macerie. Negli ultimi anni sono nate due associazioni distinte: l'«Associazione superstiti del Vajont» e il «Comitato per i sopravvissuti del Vajont». Da costoro era considerata infatti troppo ampia la qualifica di «superstite» estesa a chi, anche nei paesi limitrofi, «senza aver subì to perdite dirette, si è prodigato a soccorrere, a ricomporre le salme, si è trovato a vivere e condividere i disagi e il travaglio della ricostruzione - non solo urbanistica ed economica - ma quella ben più difficile e faticosa dell'identità locale della nascente comunità, del senso di appartenenza territoriale (Il cittadino e le istituzioni, «A tre. Longarone e dintorni», .5, settembre 2000, p. 3). In occasione dell'anniversario del 9 ottobre 2007 dal Comune di Longarone sono state riconosciute ufficialmente entrambe le associazioni e i loro rispettivi statuti e programmi.

4 Vedasi a proposito il volume Solidarietà e ricostruzione nel Vajont, a cura di Ferruccio Vendramini, Comune di Longarone, Longarone 1998.

5 Bruno Pradella (n. 19.57), Testimonianza orale registrata a Longarone il 1° dicembre 2007. I nastri delle interviste sono attualmente in mio possesso.

6 Nell'ora del dolore, «Longarone», I, 1, novembre 1963, p. L. Don Piero Bez ebbe dal vescovo l'incarico di seguire le popolazioni superstiti della parrocchia di Longarone il 14 ottobre e dal 16 iniziò il suo ministero pastorale, ospitato presso una famiglia di Roggia. Rimase a Longarone sino al 1979.

' ' 7 Longarone risorgera?, «Longarone», I, 1, novembre 1963, p. 9.

8 Diario del primo mese, «Longarone», I, 1, novembre 1963, p. 10.

9 Solidarietà e ricostruzione, p. 21. In questo volume (pp. 19-36) la Relazione di Sedati è pubblicata integralmente.

10 Ibidem, p. 14. L'intervento di Arduini e riportato integralmente alle pp. 13-17.

11 Giuseppe Capraro, Longarone, Istituto bellunese di ricerche sociali e culturali, Belluno, 1975, p. 43

12 Solidarietà e ricostruzione, cit., p. 264. Si tratta della relazione presentata da Galli all'assernblea del Comitato dei superstiti il 17 novembre 1963.

13 Nel maggio 1964 venne aperta la galleria di scarico a quota 720 metri per far defluire l'acqua del restante bacino nella val Cellina. Lo svuotamento totale dell'invaso si ebbe invece solo nell'agosto 1966 (Da un mese all'altro: 25 agosto, «Longarone», IV, 5, settembre-ottobre 1966, p. 3).

14 Quello che manca a Longarone, «Longarone», n, 2, febbraio 1964, p. 1.

15 Fiorello Zangrando, La pianificazione alternativa. Il Comitato dei superstiti del Vajont e la ricostruzione di Longarone (1964-65), in L'urbanistica nel dopo Vajont. Atti del convegno 3 ottobre 1992, Comune di Longarone - Collegio degli ingegneri e architetti, Longarone s.a. [1993], pp. 64-65.

16 Cfr. Vincenzo D'Alberto, Aspetti della politico economica provinciale prima e dopo il Vajont, in Disastro e ricostruzione nell'area del Vajont, a cura di Ferruccio Vendramini, Comune di Longarone, Longarone 1994, pp. 193-200.

19 La Provincia di Pordenone all'epoca non era ancora stata istituita: sarebbe stata costituita nel 1968.

18 Da un mese all'altro: 5 novembre, «Longarone», in, 8, novembre-dicembre 1965, p. 4.

19 Claudio Leoni, La memoria del Vajont a quarant'anni di distanza, tesi di laurea, Università di Pavia, Facoltà di Scienze politiche, relatore Alessandro Cavalli, a.a. 2003-2004, visibile su internet sul sito www.vajont.org a cui fu donata dall'autore
(sito poi fatto oscurare nel 2007 e denunciato, più volte, dal sindaco De Cesero Pierluigi, e oggi attivo come www.vajont.info).

Chi possedeva una licenza commerciale, artigianale o industriale propria, o a lui ceduta da un cittadino appartenente ai comuni sinistrati, aveva diritto a un contributo del 20% a fondo perduto per riavviare l'attività e a un mutuo dell'80% a tasso agevolato del 3% della durata di 15 anni oltre all'esenzione dal pagamento delle tasse per 10 anni.
Cfr. a proposito del mercato nero delle licenze Mario Passi, Vajont senza fine, Baldini Castoldi Dalai, Milano 2003, pp. 116-117. Spetterà comunque alla ricerca storica verificare la reale misura delle cessioni delle licenze, e indagare se e come tale traffico portò a investimenti di rilievo in attività produttive nelle zone previste dalla legge.
20 Nel gennaio 1964 una Commissione d'inchiesta del Ministero dei lavori pubblici presieduta dal presidente del Consiglio di Stato Carlo Bozzi aveva riscontrato gravi responsabilità nell'ambito dell'operate della SADE e dei mancati controlli statali.
Successivamente nel luglio dello stesso anno una Commissione parlamentare, cui parteciparono esponenti di tutte le forze politiche, nella sua relazione di maggioranza sancì invece l'imprevedibilità della tragedia. Sull'impatto di tale esito sulla popolazione di Longarone, cfr; il saggio di Ferruccio Vendramini in questo volume.

21 Giuseppe De Vecchi, Chiarezza e speditezza, «Longarone», III, 1, gennaio 1965, p. 2.

22 Notizie di cronaca: 6 ottobre, «Longarone», III, 1, gennaio 1965, p. 5.

23 Marcello Sacchet, Una nuova battuta di arresto alla ricostruzione di Longarone?, «Longarone», n, 6, agosto 1964, p. 7.

24 Da un mese all'altro: 17 marzo, «Longarone»,IV, 2, marzo-aprile 1966, p. 3.

25 Disoccupazione, «Longarone», III, 5, giugno-luglio 1965, p. 5.

26 Fausto Orzes, La città mancata. Architetture di carta e case di pietra, in L'urbanistica, p. 87/88

27 Da un mese all'altro: 1 luglio, «Longarone», VI, 4, luglio-agosto 1968, p. 3.

28 Da un mese all'altro: 8 ottobre, «Leco della valle», I, 3, dicembre 1968, p. 3. Dall'ottobre 1968 il bollettino cambia nome (da «Longarone» a «L'eco della valle») e diventa foranì a, dà cioè voce non solo alla parrocchia di Longarone ma a anche alle altre sette parrocchie della foranì a: Castellavazzo, Igne, Fortogna, Podenzoi, Codissago, Casso, Sovérzene.

29 Ricostruzione: problema sempre difficile, «L'eco della valle», VI, 2, marzo-aprile 1973, p. 4.

30 Ci sono o no, i soldi per la ricostruzione?, «Longarone», IV, 3, maggio-giugno 1966, p.1

31 Giuseppe De Vecchi, La vita riprende ma fra tante difficoltà frapposte dalla burocrazia «Longarone», VI, 6, settembre 1967, p. 2.

52 Superstiti e testimoni raccontano il Vajont, a cura di Ferruccio Vendramini, Comune di Longarone, Longarone 1992, pp. 188-189.

33 Da un mese all'altro: 26 maggio, «Longarone», V, 5, agosto 1967, p. 3. Manca ancora un'indagine storica approfondita sul tema delle transazioni offerte dall'ENEL. E il rendiconto finale (o provvisorio)

34 «Mentre non si può non rispettare la volontà della maggioranza che ha deciso per il sì - si scriveva sul bollettino parrocchiale - validi restano pure i motivi che hanno spinto parecchi a rifiutare questo accordo e a non abbandonare il processo. Ognuno ha agito secondo quello che gli dettava la coscienza e perciò ci pare inopportuno voler penetrare nell'interno di ciascuno per esprimere dei giudizi affrettati e inesatti. L'augurio che facciamo è che questo nuovo denaro che arriva a Longarone non sia fonte di ulteriori risentimenti, divisioni, egoismi, ma [...] possa divenire strumento di giustizia e carità » (Da un mese all'altro: 12 settembre, «L'eco della valle», n, 7, dicembre 1969, p. 2).

35 Da un mese all'altro: 17 dicembre, «L'eco della valle», in, 1, gennaio-febbraio 1970, p. 4.

36 Il 10 gennaio 1970 si tenne a Belluno la «marcia della giustizia», con un lungo corteo, presenti i sindaci delle zone sinistrate «che ribadirono le richieste di arrivare presto a una sentenza perché stavano incombendo i termini della prescrizione con conseguente impunità dei colpevoli» (Superstiti e testimoni, cit., p. 188).

37 ISTAT, Censimento generale della popolazione 21 ottobre 2001, Roma 2005.
I dati economici particolareggiati e confrontati per anni diversi sono stati gentilmente messi a disposizione dalla Camera di commercio di Belluno.

38 Realtà e speranze, «Longarone», IV, 2, marzo-aprile 1966, p. 1.

39 Franco Franchini, I problemi piu urgenti: fermezza della giustizia, immediata ripresa industriale, «Longarone», V, 7, ottobre-novembre 1967, p. 2.

40 Consorzio per il nucleo di industrializzazione della provincia di Belluno: per la sua istituzione e le sue funzioni si rimanda al saggio di Ferruccio Vendramini in questo volume.

41 Uno sguardo alle principali industrie della nostra zona, «L'eco della valle», III, 2, marzo 1970, p. 2.

42 ISTAT, Censimenti delle attività economiche del 1961 e del 1971, Roma, ad annum. 43 Piero Bez, La situazione dieci anni dopo il disastro, «L'eco della valle», VI, 4, settembreottobre 1973, p. 1.

44 Il problema occupazionale, «Notiziario dell'amministrazione comunale di Longarone», I, 1, agosto 1975. Per questo tema si veda il saggio di Vendramini in questo volume.

45 Gian Paolo Barbetta, Costi, benefici, efficacia della ricostruzione nel Vajont, in Disastro e ricostruzione, cit., p. 131.

46 Renzo Marinello, Pensieri della settimana, s.e., Longarone 1993, pp. 51-52.
Il bollettino parrocchiale di Longarone e dintorni, da cui si potevano attingere tante notizie, opinioni, problematiche mese per mese, si interruppe nel 1978, e sarebbe stato ripreso da don Luciano Saviane nel 1995. Don Renzo Marinello che successe come parroco di Longarone a don Piero Bez dal 1979 al 1993, al posto del bollettino ogni settimana preparava un laquo;foglietto» per i suoi parrocchiani con l'indice delle messe, ma anche con esortazioni, considerazioni critiche e notizie varie del paese, i cosiddetti «pensieri» che vennero poi raccolti nel volume appena citato.

47 Un anno di amministrazione, «Longarone», notiziario a cura dell'amministrazione comunale, numero unico, 1986, p. 1. Dal dicembre 1999 il bollettino del Comune cambierà il suo nome in «A3. Longarone e dintorni».

48 Attività economiche e occupazionali nella ComunitàMontana «Cadore-Longaronese-Zoldano», «Longarone», numero unico 1989, p. 13.

49 Nell'occupazione qualcosa si muove, «Longarone», numero unico 1987, p. 2.

50 ISTAT, Censimenti delle attività economiche del 1991 e del 1996, ad annum. Lo sviluppo delle occhialerie a Longarone e in provincia di Belluno, con la storia e le caratteristiche di ogni stabilimento oggi in funzione, è consultabile nel volume edito dal CONIB, Trent'anni di sviluppo industriale, s.e., Feltre 2002.

51 L'industna longaronese, «Longarone», 15, luglio 1998, p. 5.

52 La qualità della vita a Longarone, «A3 Longarone e dintorni», 3, maggio 2000, p. 1.

53 Longarone e il Parco delle Dolomiti bellunesi, «Longarone», 15, luglio 1998, p. 8.

54 Manifestazioni fieristiche 1979, «Notiziario dell'amministrazione comunale di Longarone, IV, 2, agosto 1978, p. 20.

55 Il passo è tratto dal «Il Sole 24 Ore» del 17 maggio 2006 e riportato in «A3 Longarone e dintorni», 2, luglio 2006, p. 21.

56 Superstiti e testimoni, cit., p. 34.

57 Celso Coppola, Una comunità frantumata: i bisogni individuali e collettivi nell'emergenza, in Disastro e ricostruzione, cit., p. 56.

58 Ivo Mattozzi, Per una storia di Longarone nel Novecento, in Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont, n. e., Cierre, Verona 2008, p. 60 (precedenti edizioni: Il Grande Vajont, a cura di Maurizio Reberschak, Comune di Longarone, Longarone 1983; Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont, Cierre, Verona 2003).

5) Coppola, Una comunità frantumata, cit., p. 58.

b0 Emanuele Tortoreto, Il dopo-Vajont: la legislazione per la rinascita e lo sviluppo dell'economia, in Disastro e ricostruzione, cit., p. 62

61 Barbetta, Costi, benefici, efficacia, cit., pp. 128-129.

62 Pradella, Testimonianza orale, cit.

63 Ibidem.

64 Nicoletta Tessarin, Disastro e ricostruzione sociale: il senso di appartenenza alla comunità, in Disastro e ricostruzione, cit., pp. 7 e 13.

65 Capraro, Longarone, cit., p. 54.

66 Solidarietà e ricostruzione, cit., p. 195.

67 Capraro, Longarone, cit., pp. 60-61.

68 Ibidem, p. 71.

69 Ibidem, p. 139.

70 Alessandro Cavalli, Memoria e identità della comunità ricostruita, in Disastro e ricostruzione sociale, cit., p. 31.

71 Tessarin, Disastro e ricostruzione sociale, cit., p. 21.

72 9 ottobre 1975. Anniversario della sciagura del Vajont, «Notiziario dell'amministrazione comunale di Longarone», I, 2, 1975, p. 2.

73 Il circolo culturale longaronese «Gianfranco Trevisan», «L'eco della valle», in, 1, gennaio-febbraio 1970, p.2.

74 Approvato dal consiglio comunale il Progetto giovani, «Longarone», numero unico, 1990, p. 9.

73 «A3 Longarone e dintorni», 1, luglio 1997, p. 4.

76 Mattozzi, Per una storia di Longarone, cit., p. 61.

77 Dati ISTAT, elaborati dalla Camera di commercio di Belluno.

78 ISTAT, Censimento generale della popolazione 21 ottobre 2001, Roma 2005.

79 Presentato il Grjl del Cnr e la Fondazione Vajont, «A tre Longarone e dintorni», 2, dicembre 2003.

80 Alcuni degli appartenenti a quel 6% che non accettò la transazione offerta dall'ENEL si costituirono parte civile, il processo andò avanti sino al 1982, e così ebbero un risarcimento che non corrispondeva però affatto alle spese sostenute nel frattempo. Altri si estraniarono completamente, non ne vollero più sapere tanto era il dolore e il disgusto per il modo in cui si speculava sui morti, e non ebbero perciò alcun tipo di risarcimento.
C'era poi la legge sulla "commorienza": circa 400 vittime del Vajont non sono state risarcite «perché non si è stabilito chi ereditava, essendo morte nello stesso momento» (Vittime non risarcite, nuove trattative, «Corriere delle Alpi», 8 ottobre 2007, p. 9). Tante sono quindi a tutt'oggi le questioni ancora aperte.

81 Cfr. Reberschak, Il Grande Vajont, cit., 2008, p. 250.

82 Ibidem, pp.31-32.

83 Giovanni Calafiore, Longarone, rinascita di una città, Università di Roma «La Sapienza», Roma 1984, p. 18.

84 Francesco Micelli, Il paesaggio del Vajont, in Disastro e ricostruzione, cit., p. 227.

85 Reberschak, Il Grande Vajont, cit., 2008, p. 486.

86 Da un mese all'altro, «L'eco della valle», IV, 5, giugno-luglio 1971, p. 4. Queste poche note sulla storia di Erto e Casso dopo il Vajont sono state desunte, oltre che dal bollettino parrocchiale di Longarone, dal cd-rom Materiali della mostra permanente del Centro visite di Erto a cura di Luciano Di Sopra, edito dal Parco naturale Dolomiti friulane.

87 Cfr. dati ISTAT, Censimenti della popolazione dal 1961 al 2001, Roma, ad annum.

88 Si ringraziano tutti coloro che hanno collaborato a questo saggio con la loro viva testimonianza, aiutandomi a entrare nel dramma di questa comunità:

don Giuseppe Bortolas, Gioachino Bratti, don Francesco Cassol, Micaela Coletti, Luigina Corazza, Giovanni Danielis, Italo Filippin, Mario Guarino, Renato Migotti, Gianni Olivier, Bruno Pradella, Roberto Sant, don Luciano Saviane, Piermarco Tovanella, Giuseppe Vazza, Cristina Zaetta.
Inoltre un sentito grazie per l'aiuto nella raccolta di materiale e per i preziosi consigli nella stesura del testo va a: Viviana Capraro, Patrizia Gentile, Maurizio Reberschak, Simonetta Simonetti, Ferruccio Vendramini.



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