IL VAJONT DOPO IL VAJONT - 1963/2000

CARLO MONTANARO
MACABRO E «PIETAS»: LA RAPPRESENTAZIONE DEL DISASTRO

Il primo disastro è assolutamente relativo: viene abbattuto un muro1 nello scoperto della fabbrica dei Lumière a Lione. E il cinématographe riprende l'evento, perfettamente programmato nel crollo con tanto di polverone finale. Solo che poi, proiettando e riproiettando, un certo giorno, arrivato per l'ennesima volta verso il termine del rotolino (17 metri, 50 piedi, 30 secondi), prima che la celluloide fuoriesca dall'apparato (reversibile, il cinématographe, cinepresa, stampatrice, proiettore) a Louis Lumière viene da girare la manovella a rovescio e... - magia!! - il muro riemerge dalla nuvola ricomponendosi. Dimostrando così che il cinema custodisce i germi dell'immmortalità. O, quanto meno, i germi della «simulazione» dell'immortalità, della sua «immagine», potendo, ogni volta, ricominciare a «mostrare» un qualcosa che poi viene inesorabilmente distrutto, annientato o perduto.

Perduto con sfumature infinitesimali, se pensiamo a un attore o a un politico forte (Mussolini? Hitler?), ma anche a un personaggio qualsiasi che ci sta vicino (mogli, figli, nipoti) ora nell'epoca delle telecamerine e dei videofonini, un «Innominato» personaggio quotidianamente sotto l'occhio del «grande fratello» e quindi disponibile contestualmente a un confronto preciso sul suo passaggio lento e graduale verso la maturità che poi è la porta della vecchiezza. Per chi la vuole accettare, ovviamente. È il gioco dell'immortalità e della finzione:

Non solo all'attore cinematografico è concesso, novello Faust o Dorian Gray, non l'immortalità, ma tante immortalità. In questo stesso istante, nel mondo, sicuramente esiste - su vari maxi o mini schermi - un Gary Cooper giovane, un Gary Cooper mono giovane, un Gary Cooper maturo, poi anziano, poi vecchio. Tutta una vita, anzi, tutte le vite, che in ogni film diverse, è sempre lui a vivere in epoche diverse, con scenografie diverse e vestiti diversi. Tanto da mettere perfino in forse la stessa esistenza dell'attore. Ed in effetti com'è possibile che la Garbo dopo essere invecchiata, dopo essersi sciupata, incurvata, raggrinzita, sia addirittura morta quando, sempre oggi, la posso vedere splendente al cinematografo o in tv? E ve la immaginate, in un film, la Garbo, con un raffreddore reale o fittizio, come cioè si usava dire una volta, prima che i canali dei media ci sommergessero quotidianamente di tonnellate di assorbenti2?
Un'«immortalità» edulcorata, allora, che dovrebbe sfuggire alle regole della normalità della vita e che si rappresenta inesorabilmente sì, ma in modo sopportabile, nel senso che il montaggio, base strumentale della grammatica e della sintassi del cinema, consente di gestire i tempi della visione fino a rendere consultabili, volendo, immagini raccapriccianti. Alla fine della seconda guerra mondiale gli alleati entrati nei campi di sterminio si trovarono di fronte a tali nefandezze e iniquità perpetrate dai nazisti da temere che la relativa documentazione o avrebbe potuto risultare irreale, falsa, o sarebbe stata, visivamente, insopportabile. E in Inghilterra si chiese la consulenza a uno che ne capIVa, Alfred Hitchcock, che montò sapientemente - alternando nelle varie inquadrature il macabro tenendolo sotto il controllo della pietas - un filmato «possibile» di storia e di denuncia ma che poi si preferì comunque congelare, tenere conservato in archivio. Molta la finzione sulle guerre che invocava suggestione e spettacolarità. Ma che ha imparato abbastanza presto a denunciare la follìa che sottende ogni atto bellicoso fornendone prove sostanzialmente visIVe nella ricostruzione di trincee, di combattimenti, di cimiteri.
Da I quattro cavalieri dell'Apocalisse3 di Rex Ingram, ancor muto, ai sonori All'ovest niente di nuovo4 di Lewis Milestone o 'Westfront 1918'5 di Georg W. Pabst. Per non dire, parlando di stupide stragi, sciagure annunciate e non imposte da una natura matrigna, di Orizzonti di gloria6 di Stanley Kubrick o di Uomini contro7 di Francesco Rosi. Ma si tratta, appunto, di finzione non della realtà della morte.
Pensate alla morte. Da sempre temuta, auspicata, odiata o amata. Ricercata e immanente. Con caratteristiche esterne che normalmente disturbano: la decomposizione che crea subito un diaframma preciso, ineluttabile. Visioni, sensazioni tattili e sensoriali, odori. l'ino a qualche decennio fa la morte era onnipresente: normalmente si defungeva in casa, con tutta la conseguente coreografia, ma anche con un'abitudine all'evento. Più all'indietro le guerre, le pestilenze, i contagi. Noi abbiamo immagini precise di tutto questo. Poetiche nei versi e nelle parole degli scrittori. Splendide nella reinvenzione di pittori e scull'ori. Un passato di morte riprodotta con il filtro della sensibilità altrui. Anche al presente siamo, naturalmente, circondati dalla morte, ma è una morte asettica, più «vista» che vissuta: nei giornali, alla TV. Cadaveri, sangue: morti vere trasmesse attraverso i media.

La conosciamo benissimo la morte, anche se la pratichiamo di meno, perché si defunge pochissimo in casa, oggi. Ed in ospedale e un'altra cosa. Non si vive più l'evento in se stesso, anche se lo si conosce meglio. Se ci si pensa bene una persona qualunque, oggi, attraverso i mezzi di comunicazione di massa, ha visto morire più gente di un soldato della seconda guerra mondiale. Ma si tratta di morte indiretta, riprodotta: esattamente uguale, pensiamoci bene, a quella «finta» del cinema. E al cinema oramai la «rappresentano» così benei Magari col «rallenty», collo schizzetto di sangue congelato che galleggia nell'aria. Non più morte vera, col corpo che si raffredda, si irrigidisce, si guasta. Ma morte ridotta ad elemento spettacolare. Certo, anche nel passato la morte era anche spettacolo.
Le stesse esecuzioni, nate come mònito, si erano sicuramente trasformate in manifestazioni frequentate da esigenti intenditori. Che facevano confronti: «com'è morto bene», oppure: «l'altra volta è durato di piu», ovvero: «che maldestro il nuovo boia...». Così la morte si propone come momento comprimario della vita, ma esteriorizzato. E al cinema si può anche «gustarla». Si hanno delle remore solo quando si sa con certezza che i cadaveri non son manichini di stracci o di plastica. I documentari sui campi di sterminio nazisti bloccano ancora lo stomaco, tra pietà e raccapriccio, pur rimanendo visioni velocissime, inodori, silenziose. Ma alla lunga il cinema può far digerire tutto come, di riflesso, gli altri media che gli sono debitori
8.

Macabro e pietas, dunque: due termini all'apparenza antitetici. Morte rappresentata e morte partecipata.
E, tornando alle origini, non solo il cinema può far digerire tutto, ma, derivando dalla comunicazione per immagini possibile fino alla sua invenzione, è stato anche presto deputato a rappresentare quanto era impossibile documentare direttamente. Facce, paesaggi ed sventi erano stati, nel tempo, rest accessibili e, a loro modo «immortali», tramite il disegno, l'incisione su matrici di legno e di metallo, fra pittura e i suoi derivati come, in particolare, la scenografia teatrale cioè grazie alle leggi della prospettiva, «restituisce» tridimensionalmente spazi inventati o simulati. Il cinema, sviluppandosi, non ha potuto non far riferimento a questi elementi trasformandoli in «tecnologie della finzione». Soprattutto nei primissimi tempi nei quali era impossibile accostarsi velocemente a personaggi o a eventi mentre un pubblico sempre più entusiasta e quindi sempre più esigente pretendeva di «vedere» in movimento quello che fino ad allora era al limite accessibile solo tramite delle immagini statiche. così ogni brava e diligente ditta cinematografica si impegnava con i suoi registi e i suoi tecnici nei realizzare delle «attualità ricostruite». Sia di eventi occasionali come incendi (una «fissa» universale, nei primi anni, quella dei pompieri che scorrazzano a tutto vapore - le caldaie delle pompei - per le città a spegnere incendi e a salvar persone) che di avvenimenti più complessi e spettacolari, come battaglie e disastri. Sì: disastri.

Ne «Il Gazzettino» di Venezia dell'8 gennaio 1909 si poteva leggere:

"È arrivata oggi al teatro S. Marco a San Moise la nuovissima straordinaria proiezione Il terremoto Calabro-Siculo. Questa proiezione non è da confondersi con le altre date in questi giorni a Venezia e che non hanno nulla a che fare con la grandiosità terribile della nostra..."
Otto giorni dopo (il 16 gennaio) si ribadisce il concetto con la «commovente proiezione» ulteriormente identificata da una descrizione aggiuntiva: L'ecatombe di Reggio Calabria. Il filmato, realizzato e prodotto da un pioniere del cinema italiano, Luca Comerio, era diviso in tre serie (di 5 + 3 + 8 minuti) e, a parte l'ostentazione dl sottotitolo più d'effetto veniva presentato con un promozionale «repetita juvant»: «Questa proiezione con è da confondersi assolutamente con le altre date in questi giorni e che non hanno nulla a che fare con la grandiosità terribile della nostra». Ma aggiungendo: «Si pregano le persone sensibili di non intervenire», che sarebbe come assicurare più raccapriccio che pietas. E se non bastava il titolo, un dettaglio in più, tre giorni dopo, avrebbe dovuto risultare ancora più convincente:
"Visto l'afflusso del pubblico si replica per qualche giorno ancora L'ecatombe di Reggio Calabria. La distinta orchestrina diretta dall'egregio maestro Caser (che in queste sere meritatamente si fece applaudire) suonerà durante al proiezione lo «Stabat Mater» di Rossini e l'«Adagio Sonata Patetica, op. 27, n° 2» del Beethoven."
Dalla recensione di un altro documentario (Il terremoto di Messina e Calabria) realizzato nelle medesime circostanze da un'altra casa di produzione italiana, la Cines, possiamo intuirne i contenuti:
" Il lavoro [...] infonde negli animi un senso di tristezza profonda; la vista di tanti disgraziati superstiti vaganti per le rovine, quasi ombre, in cerca dei loro cari, offre uno spettacolo così doloroso da stringere l'animo più sensibile. Tutto quanto v'ha di notevole nei campo della sventura è stato rilevato tutto quanto metta in luce la grandiosità della sciagura, è stato messo sapientemente in risalto: il quadro completo nelle sue grandi linee e nei suoi più minuti dettagli: l'effetto è commovente, doloroso9."
E il tutto, si può aggiungere, in una diecina di minuti di proiezionei potenza e suggestione del cinematografoi Ma è abbastanza ovvio ed evidente che nei momento in cui il terremoto avveniva non c'era nessuna cinepresa in funzione. Ed è solo casuale, fino all'avvento della tv, ogni ulteriore registrazione «in diretta» di eventi naturali10. Anzi, più che fino all'avvento della tv bisognerebbe dire, salvo casi particolarissimi, fino all'avvento di quell'era del «grande fratello» che stiamo vIVendo ora, con migliaia di enti televisivi impegnati, nei mondo, a un lavoro quotidiano di copertura totale, e con milioni di telecamerine private e videofonini costantemente accesi. Basti pensare a un evento come lo tsunami del dicembre 2004 per capire la copertura mediatica oggi possibile per un evento catastrofico.

Mentre agli inizi la gente voleva comunque vedere, «esserci», dato che uno degli elementi base del cinematografo è il 'transfert', ovvero l'«immedesimazione», la scarica di adrenalina simulata che fa vivere una intensa briciola di emozione perché poi si sa che il coinvolgimento finisce con l'accensione della luce nella sala. Le «attualità ricostruite», allora, sopperivano a questa voglia. Si facevano delle miniature, ovvero delle ricostruzioni in scala, o dipinte con la tecnica del trompe l'oeil, «l'inganna l'occhio» reso con il gioco delle ombre, o usando, tridimensionalmente, i materiali più diversi, dal legno alla cartapesta. Sopravvivono due o tre versioni, ad esempio, della cronaca dell'esplosione del monte Pelée che, l'8 maggio 1902, distrusse St. Pierre, la capitale dell'isoletta di Martinica. Quella prodotta da Edison è addirittura in due-puntate di una cinquantina di secondi cadauna: Mt. Pelée smoking before the eruption, e Mt. Pelée in eruption and the destruction of St. Pierre: dopo aver visto fumare il cratere, vari materiali più o meno densi vengono fatti scIVolare dalla cresta sul vulcano di cartapesta, dietro al quale, a un certo momento, si vede anche rapidamente arrivare e scomparire un addetto con tanto di cappello che controlla il buon esito della finzione in atto. Con l'eruzione, poi, delle barchette di materiale leggero galleggianti su un catinone pieno d'acqua vengono attizzate dal fuoco proveniente dalla miniatura di città in fiamme.

Molto più spettacolare la versione francese di Georges Melies (Eruption volcanique à la Martinique) ritrovata nel 2007 nella Filmoteca de Catalunya a Barcellona e riproposta in anteprima mondiale alle giornate del cinema muto di Pordenone nell'ottobre dello stesso anno. La maquette scenografica è del tutto simile, ma la copia è splendidamente colorata a mano amplificando così l'effetto-fuoco con rapidi passaggi giallo-arancione-rosso. Un'immagine del tutto improbabile quanto a verosimiglianza, ma c'è una legge non detta né scritta che regola la graduale acquisizione del realismo: fino a che non ho qualcosa di migliore, quello che possiedo (e/o gestisco) è il massimo. E quindi per i nostri nonni era più che sufficiente un modello di cartapesta, sul quale veniva fatto scorrere dello sciroppo vischioso, coperto poi da una nuvola provocata dallo scoppio di una carichetta di polvere da sparo (effetto pirotecnico), per «partecipare» a un evento altrimenti solo «letto» dai pochi che lo sapevano fare o «affabulato» ai molti analfabeti d'inizio Novecento. Poi, con il progredire della «truccheria», che diventera presto «effetto speciale», scene simili divennero sempre più vere, potendo, al limite, utilizzare perfino nel montaggio inserti «a documentario» nel frattempo realizzati nel corso di eventi reali, magari non proprio nelle fasi più devastanti, altrimenti lo stesso operatore ne sarebbe stato coinvolto... l'ino al digitale dell'oggi. Quella videografica complessa che, perfezionando grazie ai sempre più potenti programmi di computer tutte le tecnologie collaudate nel tempo, permette ormai di «simulare» qualsivoglia evento, facendo abbastanza fatica ancora (ma per quanto?) solo nella replica di fattezze e posture dell'essere umano.

Eppure anche il digitale è solo uno strumento. Uno strumento che, per quanto costantemente migliorato, funziona se dietro c'è qualcosa d'importante da dire o da comunicare: informazione, avventura, divertimento, disagio, commiserazione, meraviglia, sentimento, stupore, emozione.

Il cinema ha parlato poco del Vajont. Qualche cinegiornale, all'epoca, perché nel 1963 la faceva ormai da padrone la TV, e i telegiornali se ne interessarono moltissimo malgrado i disagi tecnologici derivati dall'uso della pellicola invertibile a 16mm che doveva essere sviluppata in appositi laboratori, con tempi molto più lunghi rispetto al magnetico (con vocazione digitale) dell'oggi.
E poi perché c'era probabilmente poco da dire nel senso che, raccontato progressivamente lo strazio, l'evento, dovendo scavare sulle cause, si mise in movimento la corazzata dell'omertà, con la necessità dell'omologazione da un lato del lutto e quindi dell'emotività, e dall'altro della fatalità che doveva attenuare accenni e accenti in relazione a responsabilità sottoposte al vaglio di una magistratura non certo per presupposto rapida. Storicamente, per chiudere con l'excursus storico, non ricordo cataclismi simili narrati in altre epoche e in altri Paesi. Il «catastrofismo» fa parte del DNA del cinema nei filoni più diversi alcuni dei quali si rifanno agli eventi naturali come valanghe, inondazioni, uragani, tornado, incendi e terremoti; ci sono poi quelli dei disastri che coinvolgono i manufatti dell'uomo come navi, aerei, dirigibili, corriere, razzi, navicelle spaziali e quant'altro; e l'interiorizzazione dei drammi interpersonali derivati da eventi eccessivi come lo scoppio della bomba atomica (Hiroshima mon amour11 di Alain Resnais) che funziona solo fino a un certo punto perché risulta molto più inquietante ricorrere alla fantascienza che si ispira alla guerra fredda conseguente alla paura atomica degli anni cinquanta con la rinascita-riapparizione di mostri più o meno preistorici ma non solo. Ma non sono molte le fantasie che attribuiscono all'essere umano la capacità di attentare stolitiamente alla vita dei suoi consimili.

A nessun soggettista o sceneggiatore, però, sarebbe mai venuta in mente una storia come quella del Vajont. Anche perché probabilmente nessun produttore avrebbe mai rischiato una lira su una storia di finzione che partisse da simili presupposti. Con il sogno a lungo accarezzato di un progetto tecnologicamente all'avanguardia ma dedicato a un sito geologicamente instabile; un sogno sotteso da interessi economici da «padrone delle ferriere» e sposato da una classe politica quanto meno costantemente - com'è giusto... - distratta della solità «arroganza del potere». Nessun produttore avrebbe rischiato una lira perché ognuno dei capisaldi narrativi qui sopra descritti rappresenta una sorta di lama di rasoio dato che forzando appena appena la mano, ognuno di essi avrebbe potuto addirittura diventare improponibile fasentando il ridicolo. Un ridicolo costantemente raffreddato, perché sempre in agguato, nella splendida e civile requisitoria di Marco Paolini e Gabriele Vacis. In quel Racconto del Vajont12 trasmesso il 9 ottobre del 1997 in diretta dalla RAI dall'invaso, proprio davanti a sogno materializzatosi nel prodigio tecnologico-ingegnieristico, a quella diga che non solo ha tenuto l'onda d'urto ma che continua a esistere, mònito contro l'arroganza umana. Un ridicolo che non scatta mai in modo perentorio proprio perché, come ricordato nello scritto Pensate alla morte citato più sopra: «Si hanno delle remore solo quando si sa con certezza che i cadaveri non son manichini di stracci o di plastica»13.

E quindi il ridicolo di una situazione nella quale a livello politico-amministrativo quasi nessun esponente si salva persistendo pervicacemente nell'errore non scatta perché nella cronaca, cosa che neppure il più visionario tra gli sceneggiatori avrebbe potuto immaginare, alla fine arrivano quasi duemila morti. Un'onda di innocenti travolti da un evento provocato dall'uomo che ha stolitiamente aizzato contro i suoi simili quelle forze che la natura, nella sua secolare gestione, aveva invece equilibrate. Come si è cominciato a vedere esemplarmente con il primo cinema di realtà pilotata sufficientemente etnografico di un grande regista giramondo, Robert Flaherty, che è riuscito, tra gli anni venti e trenta, a conquistare le sale cinematografiche di tutto il mondo (Nanuk l'esquimese14), arrivando poi a sopravanzare nel gusto del pubblico addirittura lo star-system venendo scelto dal pubblico come opera migliore nella seconda edizione del Festival del cinema di Venezia (L'uomo di Aran15).

Pur rendendo omaggio al grande giullare Dario Fo, proprio in quel giorno insignito del premio Nobel - Fo a sua volta sistematicamente attaccato nelle sue esternazioni da quel «buon senso comune» che avrebbe voluto veder condannata anche Tina Merlin, la giornalista che aveva profeticamente descritto quanto puntualmente poi era accaduto -, non ce la fa Paolini a diventare sistematicamente beffardo o sarcastico. Anche perché l'intenzione non era quella dello sghignazzo verso il potente presente, del classico «castigat ridendo mores», dato che i veri, squallidi protagonisti dell'evento o avevano già lasciato questa terra o avevano esorcizzato con la «ragion di Stato» la loro colpevole disattenzione. Paolini voleva, come peraltro le altre comunicazioni massmediologiche successive come uno Speciale Mixer con Gianni Minoli (trasmesso nel settembre 1996) o una puntata de La macchina del tempo con Alessandro Cecchi Paone (novembre 2003), ricostruire oggettivamente i fatti, citando le riprese sempre più rigate e consunte del terribile repertorio di quei giorni. E continuare a mantener vivo il civilissimo profondo ma contenuto sdegno delle genti della valle del Vajont collegato all'inconsistenza umana di quei protagonisti.

Gli uomini che l'hanno provocata hanno sempre sostenuto la loro innocenza. Uno di loro si è suicidato alla vigilia del processo. Gli altri hanno lottato convinti di non aver fatto altro che il loro dovere e di essere incappati in un evento imprevedibile. Come fai ad ammettere che proprio a te debba capitare quel che non è mai capitato prima ad un essere umano? come fai a riconoscerlo prima, in tempo? E anche dopo che è successo come fai ad ammettere di aver sbagliato? È questo, oltre ad altre più gravi ma umane mancanze, che ha trasformato uomini onesti, tecnici provetti, funzionari mediocri e manager senza scrupoli in una banda di criminali, responsabili morali e materiali di questa tragedia16.

Queste le considerazioni finali nei riguardi di quei signori di Marco Paolini. Considerazioni confermate dall'impossibilità di far loro assumere una dimensione umana appena accettabile in Vajont il film che Renzo Martinelli ha dedicate alla tragedia nel 2001. Martinelli né come sceneggiatore (coadiuvato da Pietro Calderoni) né come regista riesce ad andare oltre l'esposizione dei fatti, a dotare le figurine dei vari artefici del disastro (che, quando funzionano, lo si deve alla professionalità degli attori coinvolti) di un qualcosa che vada oltre la meccanicità del loro agire negativo o positivo che fosse (un po' fanatica appare perfino la Tina Merlin di Laura Morante, malgrado si trattasse di donna simpatica e ricca di grande umanità. Io l'ho conosciuta poi, sul lavoro giornalistico di tutti i giorni).
Il personaggio principale del film avrebbe dovuto essere la diga, quasi sempre «disegnata» (notevoli anche se abbastanza asettici nell'iterazione di inquadrature analoghe, gli sfondi scenografici ricostruiti al computer), dall'alto, con sopra ingegneri e addetti piccoli piccoli, quasi insignificanti malgrado il loro inconscio progetto delittuoso, e immanente su quella valle destinata a diventare la canna che avrebbe guidato l'esplosione dell'acqua verso Longarone. E invece, anche in questo caso, e il fatto in sè a vincere nell'interesse, più che la qualità della sua ricostruzione. Che non strata più di tanto, questo sì, nella descrizione del disastro. Ma che poi non riesce a trovare un qualcosa di esemplarmente forte che riporti l'attenzione su quei duemila morti innocenti, quel lutto immenso, insopportabile che ha condizionato sin dal primo momento tutta la vicenda reale.

Certo: non tutti riescono, com'è accaduto nel 1993 per lo Spielberg di Schindler's List17, a trovare un finale forte, intenso, non retorico e comunque collegato moralmente a una tradizione popolare in uno straziante racconto di morte: con quel tumulo al cimitero che si riempie di pietre portate dai «sopravvissuti» riconoscenti. Eppure il dramma del Vajont continua a risiedere proprio lì, in quelle povere Vittime innocenti, spente in una serena sera d'ottobre mentre vIVevano la loro banale quotidianità, per finire poi spogliate e spesso private pertino delle villosità corporee, profanate dall'acqua, dalla terra, dalle pietre, dalla forza prima dell'aria e poi dell'acqua.

Tra tutte le trasmissioni massmediologiche di rievocazione e di ricordo, quella più vicina alla vera pietas che non produce raccapriccio ma che prospetta l'umanità più profonda, la più intensa è quella che il corpo dei vigili del fuoco del Piemonte ha realizzato nel 1993 grazie a Luigi Cantore e Michele Sforza, Vajont trent'anni dopo. Montando con semplicità immagini le più diverse - qualcuna dal sapore inedito tratta da filmati a passo ridotto - ma, soprattutto, parlando con alcuni tra i soccorritori di allora, il filmato riesce a partecipare l'ansioso sconcerto di persone costrette a vincere ogni personale ritegno nell'arduo compito di recuperare e onorare di sepoltura quei corpi che ora continuano a testimoniare di quanto ridicolo squallore possa dotarsi l'arroganza umana. Sensazioni queste che nessun film, nessuna opera di finzione per grande medio o piccolo schermo, potranno mai rendere nella loro esemplare assolutezza.

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1 Realizzato nel marzo del 1896. N. 40 del catalogo Lumière, La production cinématographique des frères Lumière, par Micelle Aubert - Jean-Claude Seguin, Editions mèmoires du cinèma, Paris 1996, p. 225.

2 Carlo Montanaro, Pensate alla morte, in Gioco. Due giorni di suoni, immagini e materiali, Periccioli, Siena 1983, p. 27.

3 The Four Horsemen of the Apocalypse, 1921.

4 All Quiet on the Western Front, 1930.

5 1930.

6 Paths of Glory, 1957.

7 1970.

8 Montanaro, Pensate alla morte, cit., p. 26.

9 Da «Il caffè chantant e la rivista fono-cinematografica», 5, 5 febbraio 1909, p. 11, citata in Aldo Bernardini, Cinema muto italiano. I film «dal vero» 1890-1914, La Cineteca del Friuli, Gemona 2002, p. 148.

10 Nel mio archivio conservo la sequenza di 1 minuto del film International house con W. Fields del 1933 nel quale, come in certi telegiornali dell'oggi, si vede come durante la ripresa il teatro inizi a tremare: Earthquake sequence.

12 Anche il libro che riporta il testo così si intitola: Marco Paolini, Gabriele Vacis, Il racconto del Vajont, Garzanti, Milano 1997.

13 Montanaro, Pensate alla morte, cit., p. 26.

14 Nanook from the North, 1922.

15 The Man of Aran, 1934.

16 Paolini, Vacis, Il racconto del Vajont, cit., pp. 116-117.

17 1993.




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