IL VAJONT DOPO IL VAJONT - 1963/2000
MAURIZIO REBERSCHAK

IL VAJONT DOPO IL VAJONT - 1963/2000

Dopo. Tutto si centra su questo termine.
Dopo. Presuppone un prima. Ovvio, scontato, banale.
Dopo. È chiaro che «dopo» il Vajont si connette al «prima», non un «prima» generico, vago, indeterminato, fatto di tanti momenti nel volgere del tempo, ma un «prima» preciso, singolo, unico, assiomatico, precettivo, il solo «prima». Il 9 ottobre 1963. Disastro, catastrofe, come correttamente va definito quel mercoledì delle 22,39.
Disastro, se si insiste maggiormente sul profilo giuridico, perché tale si configurò uno dei reati indicati nei capi di imputazione e tale sarà la sentenza nel giudizio finale, accanto a quello di omicidio colposo plurimo. Catastrofe, se si preme di più sull'aspetto epistemologico, che orienta la riflessione su una teoria della conoscenza mirata a individuare il punto critico di un sistema messo in crisi dalla rottura forzata dell'equilibrio naturale alterato dalla violenza dell'uomo. E, se si vuole recuperare il senso etimologico delle parole, anche tragedia, che spesso è stata usata in modo generico, quindi ambiguo, per mitigare e attenuare colpe, perché intesa come evento inevitabile: no, tragedia in senso greco, nel significato più corretto e nobile del termine, cioè l'agire umano che provoca rovina, distruzione, dolore, sofferenza, morte, cui segue però una catarsi, una ripresa dell'uomo capace di rimettersi in piedi con le sue forze.

Ma... attenzione, c'è un «ma». Il «dopo» non data soltanto dal disastro-catastrofe-tragedia. Così si precluderebbe una storia, la storia del Vajont, che è una lunga storia, fatta di uomini e terre, di comunità e luoghi, di persone e case, di istituzioni reali e segni simbolici. Vajont: un torrente, una valle. Non ci sono forse testimonianze di presenze umane della preistoria neolitica a Erto? documentazioni di insediamenti e commerci di epoca romana nei territori di Castrum Laebactium dove passava forse la via Claudia Augusta Altinate?
Storia lunga ed estesa, perché un tempo gli spazi non si identificavano con confini amministrativi: i cacciatori preistorici spaziavano nelle valli alla caccia di animali; i romani introdussero le confinazioni, ma inglobarono sempre genti e territori all'interno dell'ampia e onnicomprensiva qualificazione di civis e civitas. Dunque un «luogo», con vita, produttore e recettore di storia. Certamente, in senso stretto, Vajont identifica soltanto l'humus tra la vallata del torrente e il suo incassarsi nella gola profonda. Ma ogni toponimo va poi verificato nell'estensione effettiva dello spazio e del tempo in cui si identifica. Quindi Vajont: storia lunga, dimensione aperta, vita intrecciata.

Perché, per quanto siano stati evidenti nel corso dei tempi gli isolamenti, le marginalità, le segregazioni, le necessità vitali imposero contatti, intrecci, relazioni, rapporti, condivisioni. Così il Vajont si collega nell'esistenza quotidiana al Piave, al Cellina, e poi, nel corso della storia, ad Aquileia, Venezia, Austria..., non come sole entità fisiche, ma come tessuti di scambi, collegamenti, comunicazioni. Un tutt'uno imprescindibile. Che il 9 ottobre 1963 pose in evidenza sulla scena della tragedia. «Vajont» allora come sinonimo di un ampio e vasto contesto territoriale, economico, sociale, politico. Altro che isolamento di una piccola comunità, che, è vero, indiscutibilmente ci fu se si considera solo la valle e i suoi abitati in senso stretto. Ma l'occhio deve spaziare in proporzioni ben più lontane e l'orizzonte va allargato, per capire meglio l'insieme di questa «entita» fatta di legami intessuti.

Torniamo al « dopo», in senso stretto. Su cui, tutto sommato, non si è ancora molto riflettuto. Certamente ci sono state considerazioni, studi, attenzioni su alcuni aspetti importanti. La ricostruzione urbanistica anzitutto. E poi l'opera dei soccorritori. Le testimonianze dei superstiti. In tutte si ritrova una costante: lo specchio all'indietro sul 9 ottobre, mai la proiezione in avanti dal 9 ottobre. Il 9 ottobre 1963 fu un atto di fondazione. Una rottura esasperata, lacerante, traumatica col passato. Un impulso costituente del futuro. Nessuno allora l'avrebbe pensato, a nessuno sarebbe venuto in mente che con la rottura violenta dell'identità del passato si sarebbe ricostruita una identità fondata sull'evento disastro-catastrofe-tragedia. E che sarebbe stata recuperata la dimensione del «Vajont» come intreccio di trama complessiva, ben più dilatata del percorso di un torrente che non c'è più e di una valle inghiottita da un monte.

L'evento fondativo è l'elemento decisivo della costituzione di una identità, l'atto fondamentale per la costruzione di una coscienza collettiva e soggettiva. Gli storici hanno verificato questa teoria inter pretativa sugli Stati nazionali contemporanei. Per esempio gli Stati Uniti d'America trovarono la propria identità con la dichiarazione di indipendenza proclamata il 4 luglio 1776; la Francia la basò sulla rivoluzione iniziata con la presa della Bastiglia il 14 luglio 1789. Furono atti promotori di identificazione tra Stato istituzionale da un lato, e consapevolezza e adesione nazionale dall'altro. In Italia invece è assai difficile trovare un autentico atto fondativo: lo fu la proclamazione dello Stato unitario il 17 marzo 1861? oppure la Repubblica sancita con voto popolare il 2 giugno 1946? Furono questi atti istitutivi statali, cui tuttavia non si accompagnò una parallela coscienza di nazione e patria, con la conseguenza di una dissociazione di cittadinanza. Per diverse ragioni cioè in Italia venne a mancare un «vincolo di cittadinanza», vale a dire una «memoria riflessiva, ricostruttiva di una storia vissuta insieme»1. Ciò non significa che si sia verificata una crisi di identità, perché in ogni caso l'identità non si immedesima con alcun presupposto ritenuto «naturale» ma è sempre il risultato di un processo di costruzione, spesso artificiale e imposto, talvolta anche frutto di «invenzione» o quanto meno forzata elaborazione2.

Per il «Vajont» è indubbio che esista un fatto di fondazione, il 9 ottobre 1963. Ci si può servire del paradosso di Maria Stuarda per comprendere il significato identitario del Vajont: «nella mia fine è il mio principio»3. Dunque morte causata dalla massa d'onda di almeno 25 milioni di metri cubi. E con essa sterminio, distruzione, annientamento. «La fine della storia», se si volesse applicare a ritroso il titolo di un noto libro4. Ma nello stesso tempo - quasi per logica assurda - atto creativo di rinascita, costruzione di nuova identità, reincarnazione simbolica di uomini e donne, ricreazione di terre, acque, città, paesi. Una follia dell'irrazionalità contro natura dell'uomo non può essere considerata alla stregua di un terribile segno del «dito di Dio», di «giudizio», «vendetta» e «castigo», come cercarono subito di indicare - pur nella disperazione del momento - il vescovo di Belluno, Gioacchino Muccin, e il nuovo primo parroco di quella Longarone catecumenale - don Piero Bez - che avrebbe dovuto assumere quasi un nuovo «battesimo», cioè una rinascita indipendente da ogni credo: «rialziamoci e procediamo» fu un monito rivolto a tutti, quasi come «prova di vita»5.

Ma se ogni identità e risultato di una «costruzione storica», frutto di processi di elaborazione e sedimentazione consolitiatisi nel tempo per decenni, secoli, a volte millennia quale identità si sarebbe potuta ricostruire in un luogo in cui la storia venne spazzata via? Il «nuovo» non avrebbe potuto prescindere dal «vecchio»7. Ma quale era il «vecchio» e quale il «nuovo», se a Longarone, solo per fare un riferimento, un terzo della popolazione venne sottratta dall'onda8? La stessa riflessione va applicata all'intero luogo «Vajont», a Erto e Casso, Castellavazzo. Per non parlare poi di Vajont, inteso come paese «città nuova» si potrebbe dire ben a ragione -, «creato» nel giugno 1971. Si pone quindi un interrogativo sui resti - o suite «rovine» o sulle «macerie» - della storia, sui percorsi della memoria o, meglio, delle memorie, sull'irrompere della «novità» e sulla supremazia della «modernità». Se è inconfutabile che «il diventare moderni non è facoltativo, ma la condizione stessa della sopravvIVenza»9, è altrettanto indiscutibile che le tracce del passato immettono nella realtà del presente, facendola comprendere meglio.

Ma se la storia nel Vajont è stata eliminata? Ci sono vari modi per sradicare le cosiddette «vestigia» della storia, cioè le impronte che ciascun uomo segue - magari anche inconsapevolmente - nel percorso della sua storia. Certo sarebbe più semplice eliminare la storia. Magari qualcuno ha tentato di farlo e può anche cercare di farlo ancora. Per esempio eliminando i segni della cultura, come propose un famoso film, Fahrenheit 451 10, oppure bandendo le conoscenze sulla storia più recente, quasi a voler creare nuove verginità indipendenti dal passato, con operazioni di plastica o quanto meno di lifting. Ma il «nuovismo», la brama dell'assolutamente nuovo senza contaminazioni trascorse, alla lunga non resiste alla prova dei fatti.

La storia e «una», anzi «la» ragione collettiva, capace di far capire che «il senso del passato come continuità collettiva dell'esperienza rimane sorprendentemente importante persino per coloro che sono i maggiori fautori dell'innovazione e che credono che la novità equIValga a miglioramento»11. Diversamente l'uomo sarebbe solo a «una dimensione», secondo una felice espressione12, privato di ogni suo trascorso, senza inizio, ma anche senza visione della fine, soggetto all'alienazione. Un «uomo senza qualità»15, la cui «ricerca del tempo perduto»12 porterebbe a trasformarsi in un «Ulisse»'' nella continua e affannosa peregrinazione di conoscenza senza mèta.

Tuttavia se cerchiamo nei libri di storia il Vajont, troviamo ben poco, e «ciò a dispetto del fatto che si tratta del disastro più grave in termini assoluti che ha colpito la popolazione civile in Europa, almeno nel secondo dopoguerra»16. Fa specie poi che del Vajont si parli solo in occasione di altre catastrofi, come quella di Stava (1985) per esempio, facendone un unico pastrocchio senza proporne le affinità e individuarne le differenze. Ma ciò risponde a un lungo e non ancora finito processo di rimozione della memoria pubblica. Perché, se è comprensibile che la memoria privata spesso abbia accantonato il ricordo per un procedimento di autodifesa interiore, non è certamente giustificabile il passaggio dalla solidarietà iniziale all'indifferenza successiva, all'oblìo finale: per il Vajont, come per altri traumi della storia dell'Italia repubblicana, in primo luogo lo stragismo e il terrorismo. Questa operazione di riposizione nel dimenticatoio è avvenuta per lungo tempo, finché non ci hanno pensato la televisione e il cinema a ridestare l'attenzione, prima con Marco Paolini nel 1997 e poi con Renzo Martinelli nel 2001 17. Si doveva cioè imboccare la strada del linguaggio mediatico per far risuscitare l'interesse. Un paradosso. Solo il più esteso linguaggio di omologazione poteva comunicare la diversità del «caso Vajont»18.

Non che del Vajont non se ne fosse occupato alcuno in altri settori, come la letteratura tanto per dare un'indicazione. Ma ci si era sempre misurati con una specie di «lessico abituale», di «uso quotidiano», cioè di luogo comune, senza peraltro produrre un «risarcimento estetico» della tragedia19. Osservazione che si può senz'altro estendere a tutte le forme di presunto «risarcimento» nei confronti del Vajont, in primo luogo a quelle di scrittura o di linguaggio che spesso hanno usato il «Vajont» per fame strumento di uso volgare, sia nella comunicazione scritta che in quella verbale che in quella visiva: «un vajont» è quanto di più abbietto l'espressione mediatica abbia potuto manipolare con la profanazione che spesso contraddistingue la parola e l'immagine quando si riducono solo a forme di sopruso anche del solo buon senso. La banalità del lessico può essere assimilata all'abiezione della «banalità del male»20.

L'irrIVerenza non ha mai fatto i conti con il dolore, il terrore, la paura, il tormento, l'angoscia. I sentimenti fanno parte della storia divenendo coscienza dell'umanità. Con questi aspetti dell'interiorità collettiva bisognerebbe spesso immedesimarsi, per scoprirsi ancora persone, come fecero i superstiti del disastro. «Un dolore che ti porti avanti, continuo». La dignità di chi si trovò proprio là e proprio in quel momento rIVIVe di continuo, incessantemente, senza conoscere sosta: una «perdita d'identità21 che si fatica ancora a credere sia stata reale. Allora, come ora, si crede sia stato «tutto un sogno», non ci si raccapezza a misurarsi con la realtà perché sembra che i ricordi «possono essere frutto della tua fantasia». È soltanto la concretezza della memoria a sottrarre il ricordo alla rimozione, a trasformare il «non dimentichi mai» in un'elaborazione della morte e della vita21. Memoria individuale come ricostruzione della propria esistenza.
Memoria, o meglio «memorie» collettive, anche diverse e contrapposte, come rifacimento dei propri frammenti vitali22. In ogni caso memoria «orientativa», posta sempre sulla «matrice» della storia23.

Una memoria sociale che va oltre il 9 ottobre, continua nel tempo, arriva sino ai nostri giorni. Perché, nonostante i tentativi di accantonamenti forzati, la vita sociale si è presa la rivincita. I modi in cui si è svolto il processo di ricostruzione danno adito a mille discussioni, distinguo, precisazioni, rifiuti, accettazioni. È assodato però per Longarone, come - poco meno - per Erto e - ancor più - per Vajont, il fatto che si tratti del solo esempio di «unica città "rifondata" della Repubblica italiana»24. Citta «inventate», sorte dal nulla laddove c'era stata distruzione, o abbandono, o esodo. In ogni caso private di un nucleo di linfa vitale dell'urbanistica e dell'antropizzazione, cioè lo «spazio». Certo, l'idea di Giuseppe Samonà giocata tutta sul comprensorio era stata innovativa. Troppo innovativa, per essere capita e accettata. Per la prima volta in Italia una visione dello spazio veniva inserita nell'ambito di un «comprensorio» di insediamenti, di infrastrutture, di sistemi produttivi, di relazioni comunitàrie. E ciò nonostante il fatto che non solo i «principi informatori» vigenti dell'urbanistica, ma anche la stessa legge urbanistica non l'avessero ancora acquisita e sperimentata25. Il progetto di «unità comprensoriale», che si estendeva sia in provincia di Belluno che in quella di Udine prima, e di Pordenone poi26, veniva così definito:

Il piano si propone tre obiettivi fra loro interdipendenti. Il primo riguarda la stabilizzazione dell'unità comprensoriale. [...] La dimensione comprensoriale ha un valore politico-amministrativo ed economico determinante solo se riguarda uno sviluppo di azioni fra loro coordinate e quindi rispondenti ad una effettiva unita di interessi per tutto il territorio che include i comuni facenti capo al comprensorio stesso. Con altre parole possiamo dire che la dimensione comprensoriale diventa significante solo se il comprensorio è concepito come un organismo dall'individualità caratterizzata e quindi capace di proporre e sviluppare azioni con l'autorità che gli deriva dall'importanza dei parametri secondo cui queste azioni si sviluppano e da prestigio della convergenza delle forze di tutti al conseguimento di determinate finalità pertinenti all'interesse comune. [...]
Il secondo obiettivo dipende dal primo ed è vincolato intimamente ad esso. Riguarda in linea di massima la formulazione del programma operativo e la messa a punto di tutte le azioni necessarie ad attuarle nelle fondamentali finalità che si propone di realizzare. Queste finalità si identificano, in senso urbanistico, negli interessi primari e generali che coinvolgono tutto il territorio comprensoriale e secondariamente quello dei due subcomprensori. [...]
Il terzo obiettivo del piano si riferisce alla formulazione analitica clegli interventi di portata meno ampia, cioè degli interventi localizzati in quelle zone del territorio in cui e necessario agire per attuare una trasformazione che dia le garanzie di un più equilibrato sviluppo futuro. È evidente che le azioni localizzate dovranno essere espressione particolare dell'azione più vasta da realizzarsi col programma comprensoriale27.
Una pianificazione articolata: si scontrò prima con l'impellenza del «piano» che porto alla redazione di piani urbanistici particolareggiati conformi a insediamenti frammentati, poi con la consuetudine della «variante» che sconvolse ogni residuo di visione globale del territorio. Insomma il «comprensorio» venne disarticolato e snaturato dei significati di fondo, cioè dell'idea di unitarietà e interdipendenza delle aree integrate e di armonia e coordinamento degli interventi di settore.

Con tali difficoltà di visione complessiva, ma anche di competenze istituzionali, dovettero subito confrontarsi gli enti amministrativi locali, che da un lato rivendicarono le loro competenze programmatiche e decisionali, ma dall'altro, piuttosto contradditoriamente, pretesero di continuo dal potere centrale non solo risorse finanziarie, bensi interventi forti e decisi come strumenti operativi per applicare i loro orientamenti28. Tale incongruenza non dipendeva tanto dalle scelte contingenti delle amministrazioni locali, quanto dal sistema dei rapporti e degli equilibri tra poteri centrali e poteri periferici vigente nel sistema italiano, che, per esempio, procedette ad avviare l'attuazione del dettato costituzionale sulle autonomie regionali previsto dalla Costituzione repubblicana soltanto a partire dal 1970 29. È significativo poi che, quanto ai ruoli e alle competenze istituzionali locali si continuasse a parlare di «decentramento» più che di «autonomia», e che quest'ultimo termine - pur usato esplicitamente dalla Costituzione italiana (art. 128) - soltanto nel 2001 venisse proiettato espressamente per comuni e province nell'assetto costituzionale e non soltanto in quello legislativo ordinario30.

Lo svolgimento dei non semplici - anzi difficili - rapporti tra «centro» e «periferia» scandisce anche i tempi della rinascita del «Vajont». La maturazione del processo di «normalizzazione» può considerarsi sedimentata all'inizio degli anni ottanta. Sempre che di «normalità » si possa parlare per il Vajont...
Non si tratta di valutare esclusivamente gli effetti della ricostruzione materiale, ma di considerare la ripresa della «società civile» e della «vita comunitaria»31. Del resto, tanto per indicare un dato, proprio nel 1981 con la rilevazione del censimento generale della popolazione si verifica il massimo picco di vertice della popolazione residente a Longarone (4.481) dopo la catastrofe, che fa da completo contrappeso al minimo toccato dopo il 9 ottobre 1963 (3.207 )32.

Nello stesso periodo può considerarsi stabilizzata la struttura delle aree produttive del «Vajont», le «aree industriali attrezzate» all'interno dei «nuclei di industrializzazione». Le leggi speciali sul Vajont - L. 1457/1963 e L. 375/1964 33 -, avevano prodotto i loro frutti. Leggi che avevano innescato un processo «virtuoso», trattandosi di legislazione «aperta», che non aveva irrigidito e cristallizzato le situazioni e gli stati di fatto, ma aveva promosso una «ricostruzione "dinamica" attraverso la «massa di finanziamenti [...] duttilmente applicata». Il meccanismo stesso dei flussi finanziari e delle agevolazioni fiscali, e la sua stessa modalità di applicazione, incentivò un vero e proprio «miracolo economico», con tutti gli squilibri settoriali e le lacerazioni sociali che ogni sviluppo economico comporta. Discutibile ad esempio può essere considerata la possibilità di trasferimento locale o di cessione di diritti, che però - ribaltando un'opinione diffusa e un luogo comune - può essere considerata motore di accelerazioni anziché di freno. Forse si possono ancora mettere in discussione riserve di opportunità e di carattere etico, meno però remore sotto il profilo dello sviluppo economico. Del resto la legislazione ricordata aveva previsto, accanto agli incentivi e alle aperture, anche vincoli e limiti di attuazione di tali operazioni. Caso «esemplare» viene definite quello del «Vajont», per la crescita che trasformò «un'area marginale in un'area a economia diffusa e vivace34. Ed esemplare, almeno per Longarone, potrebbe essere assunto anche un altro aspetto macroscopico di evidente attualità, quanto meno: col 6,6% di popolazione straniera residente Longarone si attesta di poco al di sotto dei livelli del Veneto (7,3%)35; una societa civile in evoluzione, in cui la ricerca della costruzione dell'identità non si è fermata, e si rimette in gioco attraverso «i processi di integrazione simbolica, culturale, linguistica». Ma la «nuova» identità di Longarone non era partita dopo il 9 ottobre proprio dal sentirsi tutti - longaronesi rimasti e «foresti» immigrati divenuti longaronesi - «membri della stessa città »36? Uomini e donne del «Vajont» hanno imparato da tempo a conoscere la strada dell'«uomo spaesato»5 .

Molti problemi dunque. Tutti da affrontare in sede storica, ma con un approccio multidisciplinare, come si cerca di fare in questa pubblicazione, all'interno della quale non si misurano soltanto storici o insegnanti. Certo, gli storici sono attenti ai documenti, base della ricerca storica tanto da farne oggetto di studio e di indagine38, con l'aiuto degli archivisti, che presentano un importante strumento per la conoscenza, l'inventario dell'archivio processuale del Vajont che si trova depositato nell'Archivio di Stato dell'Aquila39. Altre discipline intervengono e si confrontano tra loro: dalle neuroscienze all'urbanistica, dall'economia alla demografia, dalla critica letteraria a quella teatrale-cinematografica. Una proposta di strumento per un utilizzo didattico nelle scuole40. Ma soprattutto un primo passo sul piano della conoscenza di un problema e di un periodo con cui gli studi poco si sono confrontati. Perché, se sul Vajont da qualche anno qualche elemento di cultura si è acquisito, sul «dopo Vajont» ancora poco si è appreso e scarse sono le riflessioni sia specifiche che complessive. Lo stesso apparato iconografico, ormai abbondante sulla catastrofe, non è di facile reperibilità sul «dopo Vajont»41.

Si fa un primo tentativo, ci si misura con una realtà di conoscenze da approfondire, si fanno i conti con aspetti a volte poco noti. E come tutti gli avvii iniziali, il risultato non può essere che relativo, parziale, limitato. Ma è un inizio, una prima volta, e come tale va preso. Una prova. Con l'augurio che altri riprendano in mano i suggerimenti.

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1 Gian Enrico Rusconi, Patria e repubblica, il Mulino, Bologna 1997, p. 39.

2 Cfr. Giulio Bollati, L'italiano. Il carattere nazionale come storia e come invenzione, Einaudi, Torino 1983; Silvio Lanaro, L'italia nuova. Identità e sviluppo 1861-1988, Einaudi, Torino 1988; Gian Enrico Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione. Tra etnodemocrazie regionali e cittadinanza europea, il Mulino, Bologna 1993; Ruggero Romano, Paese Italia. Venti secoli di identità, Donzelli, Roma 1994; Alfonso Berardinelli, Autoritratto italiano. Un dossier letterario 1946-1998, Donzelli, Roma 1998; Ernesto Galli della Loggia, L'identità italiana, il Mulino, Bologna 1998; Aldo Schiavone, Italiani senza Italia. Storia e identità, Einaudi, Torino 1998.

3 Regina di Scozia, decapitata nel 1587. Stefan Zweig, Maria Stuarda, Mondadori, Milano 1935 (ed. originale Mary Stuart, Viking Press, New York 1935). Si veda in questo volume la parafrasi della frase come titolo del paragrafo La fine come principio nel saggio di Pier Luigi Cervellati. Cfr. l'appropriazione di questa espressione in Thomas S. Eliot, Nella mia fine è il mio principio (East Coker), in Quattro quartetti, Garzanti, Milano 1959 (ed. originale East Coker in Four Quartets, Brace, Harcourt 1943); Agatha Christie, Nella mia fine è il mio principio Mondadori, Milano 1976 (ed. originale Endless Night, Collins, London 1967); Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio, Longanesi, Milano 2006.

4 Francis Fukuyama, La fine della storia e l'ultimo uomo, Rizzoli, Milano 1992 (ed. originale The enti of history and the last man. Free Press, New York 1992).

5 Si veda il saggio di Gianmario Dal Molin in questo volume.

6 Berardinelli, Autoritratto italiano, cit., p. 12.

7 Cfr. il saggio di Luciana Palla in questo volume.

8 Cfr. il saggio di Fiorenzo Rossi in questo volume.

9 Bollati, L'italiano, p. XIX.

10 Il film, per la regia di Francois Truffaut (1966) prende il titolo dalla temperatura di autocombustione della carta (quindi dei libri), corrispondente a 232,78° Cfr. Eric J. Hobsbawm, De historia, Rizzoli, Milano 1997, p. 34.

12 Herbert Marcuse, L'uomo a una dimensione. L'ideologia della società industriale avanzata, Einaudi, Torino 1967.

13 Robert Musil, L'uomo senza qualità, Einaudi, Torino 1962 (ed. originale Der Mann ohne Eigenschaften, Rowohlt, Berlin 1930-1933, e Imprimerie centrale, Lausanne 1943; Rowohlt, Hamburg 19,52; ed. critica Rowohlt, Hamburg 1978, ed. italiana Einaudi, Torino 1996).

14 Marcel Proust, Alla ricerca del tempo perduto, Milano, Mondadori 1970 (ed. originali Grasset, Paris 1914; Editions de la Nouvelle Revue Francaise, Paris 1918-1927; ed. critica A la recherché du temps perdu, Gallimard, Paris 19-54).

15 James Joyce, Ulisse, Mondadori, Milano 1969 (ed. originale Ulysses, Shakespeare and Company, Paris 1922).

16 Cfr. il saggio di Daniele Ceschin in questo volume.

17 Cfr. il saggio di Carlo Montanaro in questo volume.

18 Espressione felicemente usata da Tina Merlin, Sulla pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso Vajont, La Pietra, Milano 1983 (nuove edizioni: Il Cardo, Venezia 1993 - con il titolo Vajont 1963: la costruzione di una catastrofe, e Cierre, Verona 1997).

19 Cfr. il saggio di Francesco Piero Franchi in questo volume.

20 Hannah Arendt, La banalità del male. Eichmann a Gerusalemme, Feltrinelli, Milano 1964.

21 Cfr. il saggio di Cristina Zaetta e Angela Favaro in questo volume.

22 Ferruccio Vendramini, Le «memorie» del Vajont, in Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont, n.e. Cierre, Verona 2008, pp. 251-265.

23 Paul Ricoeur, La memoria, la storia, l'oblìo, Raffaele Cortina, Milano 2003, pp. 136, 187.

24 Cfr. il saggio di Cervellati in questo volume.

25 Si pensi che la legge urbanistica risaliva al 1942 e che il disegno di legge di riforma urbanistica proposto nel giugno 1962 dal ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo venne ritirato qualche mese dopo dal Governo presieduto da Amintore Fanfani per l'avversione dello stesso partito di maggioranza relativa - la Democrazia cristiana - cui apparteneva il ministro (Fiorentino Sullo, Lo scandalo urbanistico. Storia di un disegno di legge, Vallecchi, Firenze 1964).
Va sottolineato che proprio nel disegno di legge Sullo veniva introdotto il concetto di «comprensorio», come un punto qualificante della riforma.

26 Legge 1 marzo 1968, 171, Costituzione della Provincia di Pordenone.

27 Giuseppe Samonà, Piano urbanistico comprensoriale del Vajont. Relazione generale dello schema, Cluva, Venezia 1965, pp. 22-23.

28 Cfr. il saggio di Ferruccio Vendramini in questo volume.

29 Si ricorda che l'ordinamento regionale ordinario venne attuato nel 1970 sulla base della L. 17 febbraio 1968, 108, e che sino al 1990 (L. 8 giugno 1990, 142) l'ordinamento comunale e provinciale era stato regolato dal R.D. 3 marzo 1934, 383, Testo unico della legge comunale e provinciale.

30 Cfr. art. 128 della Costituzione italiana entrata in vigore il 1 gennaio 1948 e l'art. 114 vigente della Costituzione stessa come modificato dall'art. 1 della legge costituzionale 18 ottobre 2001, 3, Modifiche al titolo V della parte seconda della Costituzione.

31 Cfr. i saggi di Palla e Vendramini in questo volume.

32 Si veda il saggio di Rossi in questo volume.

33 L. 4 novembre 1963, 1457, Provvidenze a favore delle zone devastate dalla catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963; L. 31 maggio 1964, 357, Modifiche ed integrazioni della L. 4 novembre 1963, n. 1457, recante provvidenze a favore delle zone devastate dalla catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963.

34 Si veda il saggio di Giorgio Roverato in questo volume.

35 Cfr. il saggio di Rossi in questo volume.

36 Rusconi, Se cessiamo di essere una nazione, cit., p. 178.

37 Tzvetan Todorov, L'uomo spaesato. I percorsi dell'appartenenza, Donzelli, Roma 1997.

38 Cfr il saggio di Maurizio Reberschak in questo volume.

39 Si veda l'inventario di Giovanna Lippi e Daniela Nardecchia in questo volume.
La sede dell'Archivio di Stato dell'Aquila è crollata in seguito al tragico terremoto del 6 aprile 2009. La documentazione processuale del Vajont sembra essersi salvata. Cfr. il saggio di Ivo Mattozzi in questo volume.
(Giovanna Lippi è tra le vittime del sisma de L'Aquila, n.d. Tiziano Dal l'arra)

40 Si vedano le fotografie presentate da Simonetta Simonetti.




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