IL VAJONT DOPO IL VAJONT - 1963/2000

GIORGIO ROVERATO - L'ECONOMIA: DALLA TRAGEDIA ALLA RINASCITA

1. PREMESSA

E' opportuno anticipare la chiave di lettura che sta alla base di questo breve saggio, peraltro condivisa in letteratura. Vale a dire il fatto che la tragedia del Vajont e l'insolitamente rapida legislazione straordinaria a favore della ricostruzione (non usuale da parte di uno Stato irrimediabilmente centralista) innescarono un meccanismo virtuoso che travalicò le aree colpite dal disastro, innestandosi in gran parte del tessuto provinciale, e consentendo a un territorio secolarmente emarginato di agganciarsi (ancorché tardivamente) ai trend di sviluppo della pianura veneta. Probabilmente nella sollecitudine governativa, e parlamentare, gioco un ruolo non secondario la percezione che - nonostante i molti tentativi di far passare l'evento come imprevedibile - esistessero pesanti responsabilità soggettive, come poi sia la Commissione parlamentare d'inchiesta sia la magistratura accertarono.

Non che lo Stato non avesse precedentemente rivolto attenzioni legislative anche al Bellunese, dalla L. 647/1950 riguardante le aree Montane dell'Italia centro-settentrionale1 alle agevolazioni fiscali disposte con L. 635/1957 per le «località economicamente depresse», nelle quali vennero automaticamente ricompresi tutti i comuni della Provincia. Solo che questi due provvedimenti, pure importanti, non scaturirono significativi processi di crescita: il primo occupandosi unicamente dell'esecuzione di opere straordinarie, tra le quali (e con scarse risorse) di regolare i corsi d'acqua e di avviare un timido miglioramento delle reti di comunicazione con la pianura; il secondo fornendo esenzioni decennali sull'allora imposta di ricchezza mobile2 alle nuove imprese che, inferiori ai 100 addetti, si fossero insediate in quel territorio. E fu proprio l'insoddisfacente stato delle infrastrutturazioni ferroviarie, e stradali, a non rendere lì appetibili investimenti di imprenditorialità esterna, che si allocarono invece in quei comuni di pianura o della pedemontana che, ugualmente dichiarati «depressi», erano in grado di aggiungere alle esenzioni fiscali statali una serie di agevolazioni locali, dai terreni ceduti gratuitamente all'imprenditore agli allacciamenti gratuiti alle varie utenze idriche, telefoniche ed energetiche, dalle agevolazioni sulle tasse comunali a qualche contributo in conto capitale3.

Tutti benefici che i ristrettissimi bilanci dei comuni bellunesi non potevano consentire, salvo rari e isolati casi, come Agordo che concesse (1958) un terreno a un piccolo artigiano di origine milanese4, che lì si insediò dando poi vita (1961) alla Luxottica, oggi il maggior produttore mondiale di occhiali. Per il resto, tali legislazioni non sortirono effetti; e il Bellunese rimase nella sua depressione, salvo che nelle aree in cui l'esplosione del turismo montano nella seconda metà degli anni cinquanta del secolo scorso cominciò a generare una concreta alternativa a una agricoltura di sopravvivenza, e in parte alla secolare emigrazione temporanea che svuotava le valli a seconda della domanda centroeuropea di manodopera a basso costo. Un fenomeno, quello di un turismo tendenzialmente di massa, che aveva a che fare con il cosiddetto miracolo economico, mentre era del tutto indipendente dalle provvidenze governative mirate a una infrastrutturazione manifatturiera. Almeno fino a quel fatidico 9 ottobre 1963, che - alle ore 22.39 di un giorno apparentemente normale - davvero cambiò il corso delle cose; nel male dell'immensa tragedia umana che determinò, ma anche nel bene di un successivo imprevedibile riscatto: che fu collettivo. Ma procediamo con ordine.

2. LA STRUTTURA ECONOMICA ANTECEDENTE LA SCIAGURA

Dato che la legislazione sul Vajont (L. 357/1964) generò effetti diffusivi sull'intera provincia, sia diretti che mediati, un panorama sulla struttura economica antecedente la sciagura deve necessariamente, almeno per alcuni tratti, riferirsi al territorio più vasto. Anche partendo da lontano, ovvero dal 1955, stante che la situazione del 1963 non presenta caratteristiche molto diverse. Ma i dati di quell'anno, riferiti alle aziende iscritte a quella che oggi si chiama Assindustria Belluno, forniscono una rappresentazione emblematica della situazione manifatturiera della provincia. Ho così privilegiato l'uso di dati interni a tale associazione, rispetto a quelli più esaustivi del censimento industriale del 1961, giacché gli iscritti alle associazioni territoriali di Confindustria rappresentano ancor oggi il tessuto vivo (e più significativo) delle imprese di una determinata area6.

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Questi dati testimoniano dell'estrema debolezza del tessuto provinciale, nonostante la presenza del distretto industriale dell'occhiale in Cadore, in lenta ma significativa crescita, ancorché lontano dalle performance poi conosciute. Qualche autore ha definito il Bellunese, sulla base di analoghi dati, l'area più arretrata dell'intero settentrione7. Non sarei così perentorio, se solo penso al Cuneese in Piemonte, alla Valtellina in Lombardia, o - nello stesso Veneto - al Rodigino. Rimane il fatto che il tessuto manifatturiero stentava a consolidarsi: vuoi per gli scarsi o nulli processi di accumulazione in agricoltura, vuoi per l'inadeguatezza delle infrastrutture di comunicazione con la pianura. Ed è proprio su questo versante che maggiormente si andavano spendendo sia l'Associazione fra gli industriali che la Camera di commercio bellunese8. Il tema della mobilità (strade, ponti, collegamenti ferroviari) rivestiva un ruolo strategico, preliminare a qualsiasi politica di sostegno alle attività artigianali e industriali. Non solo per la consapevolezza che un'economia di trasformazione non poteva svilupparsi in assenza di rapidi collegamenti con i mercati, ma anche perché già emergeva la tendenza delle imprese più vivaci a sfuggire alia strozzatura delle comunicazioni trasferendosi in pianura9, con il rischio di un indebolimento della già fragile struttura produttiva. Una fragilità che risaltava soprattutto dalle scarse interdipendenze settoriali presenti in loco, che impedivano quei processi virtuosi che si stavano invece realizzando nella fascia centrale veneta e che consentivano alle imprese là allocate di agganciarsi, se pur con qualche ritardo, alla crescita che andava maturando a cavallo degli anni cinquanta e sessanta del Novecento.
Come dire che le imprese bellunesi lavoravano (a parte il distretto dell'occhiale10) in un vuoto pneumatico che esasperava l'individualismo imprenditoriale, impedendo l'emergere di sinergie le quali, sole, avrebbero potuto spingerne la crescita. Può essere utile una rapida descrizione dei problemi che investivano la provincia nella metà degli anni Cinquanta, a partire dai settori dell'industria più esposti alla concorrenza internazionale, come i comparti dell'occhialeria, della prima lavorazione del legno e della produzione di carta, questi ultimi due localizzati in parte anche nell'area di Longarone. Soffermiamoci allora un momento sulla situazione di questo comprensorio, dove in particolare sofferenza risultava la Faesite, sita in frazione Faè, un'azienda a suo modo «storica», e all'epoca la principale di Longarone: avviata nel 1936 (ma da tempo di proprietà del gruppo padovano Montesi11), essa - inizialmente attiva nei pannelli truciolari in legno - si era dal 1951 allargata alla produzione di pannelli in PVC (polivinilcloruro) a uso edilizio12, e aveva contribuito a un primo processo industrializzante dell'area. A metà degli anni cinquanta cominciò a incontrare crescenti difficoltà sul mercato nazionale dopo che alcuni produttori austriaci13 erano riusciti, sia grazie a una diversa struttura dei costi che ai rapidi collegamenti consentiti dalla linea ferroviaria del Brennero, a intercettare parte significativa della domanda italiana. La crisi aveva comportato la riduzione dell'occupazione di 80 unità rispetto ai 270 addetti in organico nel 1954, causando l'immediata reazione delle maestranze (davvero insolita per un'area tradizionalmente «moderata»), che per giorni bloccarono - con uno sciopero, e la parziale occupazione dello stabilimento - la produzione.

Anche l'industria di cartoni vegetali, da poco là insediatasi con un impianto della Cartiera di Verona (poi Gruppo Fedrigoni), ma presente anche in altre località della provincia14, risentiva ormai della concorrenza d'oltralpe; mentre i fabbricanti austriaci riuscivano a rifornirsi di legname a basso costo sul loro mercato interno, le aziende provinciali erano costrette ad approvvigionarsi, a costi più elevati, nei Paesi scandinavi. Alla vigilia della catastrofe, Longarone - pur nella arretratezza complessiva del territorio circostante e nella prevalente struttura agricola della sua economia - disponeva di un certo numero di attività manifatturiere coerente con le dimensioni della sua popolazione (4.688 residenti al censimento 1961, di cui 4.120 presenti15 e 1.884 «attivi», intendendo come tali le persone occupate od in cerca di occupazione). Gli addetti nel secondario erano circa 750 (quasi il 40% della forza lavoro stimata), e lavoravano nelle imprese sotto elencate: Tabella 2.

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Di queste aziende, solo la Faesite, situata in frazione Faè, non fu travolta dall'onda d'urto che si abbatté in vallata la sera del 9 ottobre. Tutte le altre attività andarono invece totalmente cancellate, e con esse oltre 600 posti di lavoro faticosamente creati nel tempo. Scomparve anche buona parte delle aziende commerciali, in genere di piccola dimensione ma comunque vitali nel tessuto connettivo di una comunità16. Come fu a suo tempo annotato, il disastro «colpì Longarone in una fase di accelerazione delle trasformazioni economiche e di miglioramento dei livelli di vita»17. Anche l'agricoltura subì duri contraccolpi, e solo dopo considerevoli sforzi poté ritornare a una qualche efficienza. Vediamo comunque la sua situazione prima della catastrofe. In un territorio con una escursione altimetrica da 403 metri (Longarone: 473 metri) a 2.451 metri, la silvicoltura e l'allevamento furono a lungo una risorsa di eccezionale importanza, che permetteva la sopravvivenza dei borghi di alta collina. Variegata invece la situazione a fondovalle, con seminativi e coltivazioni arboree in coabitazione non conflittuale con gli antichi e recenti insediamenti industriali.

Non si trattava di una agricoltura florida, ma tuttavia essa era in grado di alimentare transazioni che si riflettevano positivamente nell'economia complessiva, determinando anche una vivace rete di piccole attività commerciali. Ma ritorniamo alla visione d'insieme. Il distretto cadorino dell'occhiale, pur nella sua relativa fragilità, costituiva una realtà produttiva in contraddittoria crescita, anche perché frammentata in impianti di piccola dimensione non tutti in grado di arrivare al mercato finale18. Della crisi delle cartiere si è accennato, cd essa si aggravò sul finire del decennio con la Cartiera di Castellavazzo costretta a licenziare il 60% delle sue maestranze. Le storiche attività minerarie erano in via di progressiva dismissione, come fu esemplificato dalla decisione della Montecatini di chiudere la secolare miniera di valle Imperina, sia perché esausta che per l'ormai sopraggiunta antieconomicità del suo sfruttamento. Due rimanevano le produzioni «forti»: da un lato quella tradizionale del legname, e dall'altro la produzione idroelettrica.

Della prima: con 150 segherie e una produzione annua di 150.000 metri cubi, la provincia risultava terza nella graduatoria nazionale del settore, ma aveva come punto di debolezza la scarsa presenza della seconda lavorazione del legno (mobili, infissi, conglomerati)19. Per cui il legname seguiva in gran parte la via della pianura. La produzione di energia elettrica, dominata quasi monopolisticamente dalla veneziana SADE - società adriatica di elettricità -, attirava un continuo flusso di investimenti (si pensi all'ultima grande - e tragica - opera realizzata, quella del Vajont20), nonché un buon indotto sia in termini di manodopera impegnata nelle costruzioni che nel coinvolgimento di una vasta rete di artigiani e di piccole imprese, soprattutto nel campo edile. Ma il settore era eterodiretto, con la «testa pensante» radicata a Venezia, e perciò con scarse ricadute positive in provincia: mi vengono ad esempio alla mente le ripetute rivendicazioni da parte degli enti territoriali bellunesi, inutilmente avanzate fin dal dopoguerra, di tariffe elettriche agevolate21 a compensazione della presenza invasiva, e dei danni ambientali, di bacini e centrali spesso realizzati senza tener conto delle specificità locali e degli interessi legittimi che venivano così irrimediabilmente compromessi.
La società adriatica non ne volle sapere.

Eppure molti osservatori giustamente ritenevano che, deficit di infrastrutture a parte, una energia a basso costo (come quella che si rose disponibile nella pianura padana grazie alla rete metanifera della SNAM) avrebbe innescato positivi processi di crescita e di riscatto economico e sociale, con probabile ritorno a favore anche di alcune presenze manifatturiere che la stessa Società Adriatica Di Elettricità aveva nel bellunese, ad esempio la Metallurgica feltrina Spa, senza dubbio maggiormente inserita nella comunità locale dei pur importanti siti idroelettrici gestiti dalla società veneziana, i quali - dopo il rilevante impiego di manodopera per la loro realizzazione - a regime funzionarono (e a maggior ragione oggi funzionano, grazie agli automatismi introdotti a partire dagli anni cinquanta) con un numero limitato di addetti.
L'azienda feltrina, poi tristemente nota per le molti morti d'amianto, era stata costituita nel 1942, giungendo a occupare all'indomani del conflitto mondiale circa 500 addetti (1946). Impianto importante nella complessa attività elettrica, meccano-impiantistica e ottica22 della società veneziana, con uno stabilimento anche nel Porto industriale di Venezia23, la Metallurgica fu alla fine degli anni cinquanta ceduta alla Montecatini, per confluire poi nella Montedison, la conglomerata che riassunse - fino al suo definitivo tramonto - le svariate attività di Montecatini ed Edison.

Se guardiamo alla distribuzione percentuale della popolazione attiva per settori possiamo, comunque, renderci conto che un qualche dinamismo si era verificato all'interno della provincia, pur nella permanenza della sua marginalità regionale.

Tabella 3.
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Appare infatti significative il quasi dimezzamento in un decennio degli occupati in agricoltura, a fronte di un incremento di 9 punti percentuali nelle attività manifatturiere e di 7 nel terziario: dato quest'ultimo, che aveva a che fare soprattutto con la crescita delle attività turistiche. Questo trend positivo troverà ancor maggiore riscontro nel censimento 1971, dove le percentuali diverranno 9 per il primario24, 49 per il secondario e 42 per il terziario. La lieve flessione percentuale del dato relativo al secondario era conseguenza del nuovo incremento del terziario, che non solo aveva assorbito il dimezzamento degli occupati in agricoltura, ma aveva anche eroso due punti percentuali al comparto manifatturiero. Ed era segno che l'avanzare del turismo di massa, con un consistente incremento della ricettività alberghiera, soprattutto nelle dimensioni di impresa familiare, aveva significativamente mutato la struttura complessiva dell'economia provinciale: un risultato che non solo frenava i tradizionali flussi migratorii, ma che al tempo stesso contribuiva anche a richiamare crescenti fasce di emigrazione «storica».
Diamo ora uno sguardo alla tabella sottostante riportante gli iscritti all'Assindustria bellunese alla fine del 1970, e che va utilmente raffrontata con la tabella 1 del 1955:
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Da essa emergono alcuni cambiamenti significativi intercorsi nei quindici anni di intervallo temporale. A parte l'incremento nella base associativa (+532%) e nel numero dei dipendenti delle imprese associate (+264%), ciò che risalta e l'emergere di imprese di taglia maggiore (quelle da 101 a oltre 500 addetti) aventi una media di 261 addetti/unità (187 addetti/unità nel 1955) contro una media nelle imprese entro i 100 di 5 addetti/unità (9,4 nel 1955). Il che stava a rappresentare due tendenze apparentemente divergenti; da una lato l'emergere di organismi produttivi relativamente più complessi e articolati del passato, e dall'altro l'avvicinarsi sempre più accelerato del Bellunese alla struttura tipica del tessuto di piccola-micro impresa già da tempo evidenziatosi nell'area centrale della pianura veneta. Come dire che il Bellunese aveva, nel quindicennio, rapidamente irrobustito, e articolato, il suo tessuto manifatturiero, ben al di fuori della specificità del distretto dell'occhialeria. Quale il motivo di un sostanziale mutamento di segno dell'economia provinciale? È opinione ormai consolidata in letteratura che questo iniziale esito, poi rafforzato da meccanismi spontanei che si innestarono nel nuovo tessuto economico che si andava delineando, fu merito della legislazione straordinaria sul Vajont richiamata all'inizio del paragrafo. Sulla quale, e sulle sue (anomale) caratteristiche innovative, ora ci soffermeremo.

Il caso di Longarone è esemplare di come ha storicamente agito lo Stato nei confronti delle aree marginali del paese. «Esemplare» per due motivi: uno negativo, e cioè che solo la tragedia lo fece muovere, mentre quelle terre necessitavano comunque di una precedente attenzione, e invece ci vollero migliaia di morti perché essa scattasse; positivo perché un insieme di fattori (certo, uniti agli interventi straordinari, ai risarcimenti eec.) determinarono un percorso di crescita che trasformò un'area marginale in un'area a economia diffusa e vivace. E colpiscono le mille risorse che da un contesto povero, e grazie a una situazione d'emergenza, scaturirono.
Le quali hanno a che fare con un territorio provinciale già investito da una qualche modernizzazione, che tuttavia nel caso di Longarone e dei comuni circostanti si accelerò, con una spinta endogena assai rara da ritrovare negli interventi straordinari dello Stato centrale. La vicenda di Longarone è per certi versi assimilabile (e pur nella sua eccezionalità) alla ricostruzione seguita al terremoto del 1976 in Friuli. In entrambi i casi fu l'energia dei sopravvissuti a fare la differenza, e a sfruttare al meglio le provvidenze statali. Giocò in ciò, e non poco, un ceto politico insolitamente attento alla specificità locale e capace di innescare meccanismi virtuosi, tenendo tuttavia presente che essi erano legati al territorio, e quindi non astrattamente applicabili altrove.

3. LA LEGISLAZIONE SPECIALE E GLI INCENTIVI

Si diceva che la legislazione speciale a favore della ricostruzione delle aree distrutte dalla devastante ondata provocata dallo smottamento del monte Toc nell'invaso del Vajont, fu celere. Il provvedimento decisivo (L. 357/1964) fu infatti varato il 31 maggio dell'anno successivo alla tragedia, vale a dire poco più di sette mesi dall'evento25. In realtà tale legge fu preceduta, e seguita, da altri atti d'urgenza. Ricordiamo i più rilevanti tra quanti ne costituirono l'antefatto, e che nell'ordine furono:

a) le tre contemporanee proposte per l'istituzione di una Commissione bicamerale d'inchiesta sull'evento (16 ottobre 1963 )26;
b) il decreto legge 18 ottobre 1963, n. 1358, concernente la sospensione dei termini nei comuni delle province di Belluno e Udine colpiti dal disastro27;
c) il decreto legge 31 ottobre 1963, n. 1408, recante «Norme per assicurare gli interventi indispensabili per la sicurezza delle zone colpite dalla sciagura della diga del Vajont del 9 ottobre 1963»28;
d) la legge 4 novembre 1963, n. 1457, recante «Provvidenze a favore delle zone devastate dalla catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963».
Quelli che poi seguirono, statuirono ripetute proroghe alla sospensione dei termini, nonché la riapertura delle scadenze per le richieste di indennizzo o di contributi straordinari in capo ai singoli. Ciò che colpisce chi ripercorre quella legislazione non è tanto la tempestività dell'azione governativa e parlamentare, quanto ciò che ne derivò. Altre legislazioni d'emergenza, e analogamente tempestive, a partire dai catastrofici eventi di Messina e di Napoli d'inizio Novecento, ebbero risultati effimeri, tanto che le «baraccopoli» in quelle città temporaneamente allestite sono pervenute fino a noi; per non dire di quelle, molto più recenti, del Belice e dell'Irpinia che ancora rimangono a testimonianza di un Governo nazionale il più delle volte incapace di dare efficace consequenzialità a quanto da esso stesso normato. Perché l'esito della tragedia che colpì Longarone, e il suo circondario, tanto sul versante bellunese che su quello allora udinese29, fu così (positivamente) diverso?

La risposta sta tutta nei meccanismi della L. 357/1964, che «tecnicamente» altro non era che un provvedimento di modifica e integrazione alla L. 1457/1963 30. Vediamone i tratti essenziali, a partire dal nuovo art. 1 della L. 4 novembre 1963 che, ampliando l'estensione delle provvidenze a un'ulteriore frazione di Belluno (Lanta), e a parte del comune udinese di Cimolais, precedentemente escluse, riaffermava gli stanziamenti di 10 miliardi di lire31 già previsti (1 miliardo per gli interventi di pronto soccorso; 2 per il ripristino di opere in capo a enti pubblici; 3 per la sistemazione urbanistica del territorio anche relativamente al trasferimento degli abitati e relative spese di progettazione; 4 per contributi alla riparazione e/o ricostruzione di fabbricati di proprietà privata).
Ma veniamo al merito.

La L. 357/1964 introdusse un meccanismo innovativo nella fruizione delle agevolazioni e dei contributi per la ricostruzione, vale a dire la possibilità che anche imprese esterne alle aree colpite, e quindi anche imprese al di fuori della provincia di Belluno32, potessero usufruirne qualora avessero rilevato dai beneficiari delle provvidenze (ad esempio imprese colpite dal disastro) i loro diritti a ricostruire, resi cedibili a terzi con il nuovo art. 14ter della L. 1457/1963.
Si trattò di un meccanismo mirato a incrementare le potenzialità di crescita dell'economia locale; il legislatore riteneva infatti che non tutti i soggetti titolari dei diritti (alcuni in anziana età, o i figli di quanti erano deceduti nella tragedia) se la sarebbero poi sentità di ricostruire le attività distrutte o pesantemente danneggiate. Per cui si ricorse a un sistema sostitutivo, in grado di attrarre imprenditorialità esterna grazie all'acquisita disponibilità degli incentivi previsti dalla legislazione post-disastro. Mi soffermo sulla particolarità di tale norma, dato che essa mirava non solo all'aspetto risarcitorio, ma si poneva - seppure non esplicitamente - l'obiettivo della rinascita economica dell'intero territorio provinciale.

Certo, le imprese maggiori, a meno che non trovassero più conveniente scendere in pianura, non avrebbero facilmente ceduto i diritti ai contributi ricostruttivi, ma indubbiamente esisteva un tessuto minore (micro-imprese, attività commerciali eec.) poco propenso a nuovamente intraprendere. L'art. 12 della riscritta L. 1457/1963 prevedeva:

a) un contributo a carico dello Stato del 50% della spesa per la ricostruzione o ripristino delle imprese industriali e commerciali, e dei locali utilizzati da quanti svolgevano attività professionale, distrutti o danneggiati dal disastro (quota elevata al 70% per tutte le attività insediate nei Comuni di Longarone e Castellavazzo, in quanto località maggiormente colpite), e del 70% per le imprese artigiane e per le attività commerciali minori individuate ex art. 1 della L. 1397/1960 33;

b) un finanziamento quindicennale sotto forma di mutuo per la parte residua della spesa, da erogarsi a un tasso massimo del 3 % da parte di istituti di credito, accollandosi lo Stato sia la differenza tra tale tasso e quello che lo Stato andava a concordare con gli istituti stessi, nonché la garanzia sul prestito sino a un massimo del 90% dell'eventuale inadempienza dei beneficiari;

c) un contributo del 100% per la ricostituzione delle scorte danneggiate o distrutte.

Accanto a queste provvidenze, venivano poi stabilite una serie di esenzioni e agevolazioni tributarie34, la più importante delle quali fu l'automatica estensione alle imprese ricostruite (o riattate) della esenzione decennale dall'imposta di ricchezza mobile prevista dalla L. 29 luglio 1957, n. 635, relativa alle già ricordate aree depresse. E ciò indipendentemente dalla loro dimensione e dal fatto che non si trattasse di nuove imprese35; e, se di tale esenzione esse già godevano, gli Uffici distrettuali delle imposte erano autorizzati a vagliare, in virtù del danno da queste patito, una nuova decorrenza decennale. A questo, il nuovo art. 13 della L. 1457/1963 aggiungeva due (importanti) innovazioni rispetto alla consolidata prassi legislativa in materia di contributi per la ricostruzione di attività economiche danneggiate, o perdute, in seguito a eventi calamitosi. Il secondo comma, infatti, recitava che «La ricostruzione e l'installazione di attrezzature delle aziende commerciali o artigiane può avvenire anche in località diversa da quella originaria, purché nel territorio delle province di Belluno, di Udine e limitrofe»; il tutto rafforzato dal terzo comma indirizzato alle aziende più propriamente industriali, così formulato: «La ricostruzione e l'installazione di un nuovo impianto industriale può anche avvenire in località diversa da quella originaria». In questo caso, tuttavia, le attività dovevano obbligatoriamente stare all'interno dei comprensori che il Ministero dei lavori pubblici, di concerto con il Ministero del tesoro, avrebbe, ai sensi dell'art. 3, individuato nelle due province36.

La riscrittura ex-L. 357/1964 aggiungeva, infine, un art. 19bis, riguardante la determinazione - all'interno dei piani urbanistici della ricostruzione - delle aree dei «nuclei di industrializzazione»37, per la realizzazione e gestione delle quali veniva prevista in ognuna delle due province di Belluno e Udine la costituzione di un apposito consorzio. Costituito il 18 febbraio 1965, del Consorzio per il nucleo di industrializzazione delle provincia di Belluno (CONIB)38 entrarono a far parte i Comuni di Longarone e di Castellavazzo, la Provincia, la Camera di commercio, il Consorzio dei Comuni del Bacino imbrifero montano del Piave appartenenti alla Provincia di Belluno (BIM piave)39, l'Associazione fra gli industriali, e successivamente i comuni via via investiti dall'attività di infrastrutturazione industrializzante40.
Il punto di forza (e parte significativa) della L. 375/1964 fu, tuttavia, il ricordato nuovo art. 14ter della L. 1457/1963, la dove stabiliva che le provvidenze per la ricostruzione potevano essere «cedute» a imprenditori terzi; certo, la norma implicava che la cessione venisse autorizzata dalle commissioni provinciali preposte all'accertamento dei danni subìti dai vari soggetti economici, ma si trattava poco più che di una formalità 41.
È da qui, a mia opinione, che si diparte - e per certi versi in modo non prevedibile - l'esito «virtuoso» della legislazione speciale sul Vajont. Ha recentemente scritto Stefano Magagnoli nel suo profilo storico delle aree industriali attrezzate in Italia che essa, osservata in «controluce», dimostra che prima ancora che porsi l'obiettivo di incentivare l'agglomerazione delle imprese con la realizzazione di un vasto distretto di aree attrezzate42, rappresenta[va] uno strumento di erogazione di agevolazioni e contributi finalizzati a sostenere lo sforzo della ricostruzione da parte delle imprese già operanti nell'area prima del disastro, offrendo analoghi incentivi (economici e finanziari) a soggetti imprenditoriali esterni per rendere loro profittevole la scelta di localizzarsi nel comprensorio provinciale bellunese43.
Sostiene perciò Magagnoli che la L. 357/1964 fu

una legislazione di esenzioni e contributi [...] piuttosto che uno strumento in grado di sostenere la crescita industriale attraverso un'azione programmata di intervento istituzionale nel campo delle aree attrezzate, le quali, in definitiva, risultano avere una funzione subordinata agli interventi per promuovere la ricostruzione44.
Si tratta di un'affermazione tranchante.
Io andrei più cauto; la L. 357/1964, in riforma alla L. 1457/1963, era pur sempre un provvedimento d'emergenza, anche se stabiliva un quadro di riferimento che solo nel tempo esplicò la sua efficacia. La quale scaturì da uomini e istituzioni, che seppero dare corpo e anima a un'intuizione, nelle norme solo abbozzata. Verrebbe da dire che furono dette norme, con continui rinvii a successive decisioni (anche discrezionali) dei vari comitati in esse previsti, a consentire l'esito virtuoso che dianzi richiamavo. In sostanza si trattò di una legislazione «aperta», che fu poi modulata - grazie agli spiragli normativi in essa contenuti - nell'obiettivo di conseguire un risultato che, nel momento legislativo, non poteva essere previsto.

A me appare questa legislazione, sia nella sua prima redazione ex L. 1457/1963 (Governo Leone) che nella sua riscrittura ex L. 357/1994 (Governo Moro), una formulazione d'intenti ricostruttivi utile poi a essere (pur nelle norme cogenti in quanto a massa di finanziamenti peraltro nel tempo integrati) duttilmente applicata sul terreno. Lobiettivo era comunque fin dall'inizio chiaro: la ricostruzione «dinamica» di un territorio distrutto, e non il semplice ristabilimento delle situazioni d'origine. Se penso ad altre e a noi più vicine legislazioni ricostruttive (per l'Irpinia, 1980, e Umbria, 1997), il divario d'impianto appare subito evidente.

4. LA RICOSTRUZIONE

Certo, la ripresa economica che si realizzò sul finire degli anni sessanta non fu esclusivamente dovuta alle provvidenze legislative, giocandovi un ruolo sia il miglioramento della congiuntura sia quella che è stata la (tardiva) partecipazione del Veneto al cosiddetto «miracolo economico»45; e tuttavia esse vi concorsero significativamente, soprattutto attraverso l'azione del CONIB, e in parte anche mediante i finanziamenti erogati dal BIM-Piave. L'attività del Consorzio non fu semplice, dato il ritardo nella redazione dei piani urbanistici, ma alla fine del decennio i lavori di realizzazione e infrastrutturazione delle aree di Longarone (74 ettari suddivisi tra Villanova-Faè e San Martino di Fortogna46) e di Castellavazzo (Codissago, 10 ettari) erano già a buon punto47, e di lì a poco si sarebbe messa mano anche alle area industriale attrezzata (AIA) di Villapaiera di Feltre (63 ettari), Sedico (20 ettari) e di Pieve d'Alpago (30 ettari)48. Era la concretizzazione di un progetto industrializzante che mirava alla complessiva rinascita economica della provincia. Si pensi, ad esempio, all'area industriale attrezzata feltrina, che interveniva in un territorio ancora pesantemente colpito dall'emigrazione, o al nodo logistico di Sedico, dotato anche di un'area doganale essenziale in un'economia che nei traffici internazionall doveva trovare una sua positiva collocazione. Anche se con risultati importanti, l'attività del Consorzio subì ripetuti rallentamenti, dovuti alla lievitazione dei costi delle opere. 148 .

L'inflazione crescente comportò infatti l'esaurirsi degli stanziamenti, da cui la necessità di tre successivi rifinanziamenti, il primo dei quali avvenne nel 1983 49. In quell'anno, comunque, le AIA programmate erano già compiutamente delineate, anche se (a parte Castellavazzo e Longarone) con opere ancora incomplete. All'inizio degli anni Novanta, esse risultavano comunque tutte pienamente operative. Può essere utile osservare gli effetti insediativi a fine 1997 riportati in Tab. 5:

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Se i dati non appaiono in assoluto rilevanti, a parte quelli di Longarone (ma, per altri versi, anche quelli riferiti all'AIA di Villapaiera di Feltre)50, va considerato che i meccanismi della legislazione sul Vajont avevano consentito un insediamento diffuso (e quindi ben oltre le aree dei nuclei di industrializzazione) della manifattura leggera.
Per cui, se con Magagnoli possiamo convenire del modesto risultato di quanto innescato dal CONIB 51, gli effetti più generali furono indubbiamente più consistenti52. Dicevo di Longarone: le AIA che il CONIB realizzò furono senz'altro le più rilevanti, e le maggiormente dotate di servizi. Sia per il vincolo legislativo di organizzare là e a Castellavazzo almeno il 30% dei nuclei industrializzanti, sia perché il fondovalle - una volta reso libero dai detriti - ben si prestò agli insediamenti produttivi. Un'ulteriore annotazione va, comunque, aggiunta. E riguarda l'occhialeria: è infatti da rilevare come, tra le aziende sorte durante le prime fasi della ricostruzione delle zone colpite, non ci fosse un ruolo significativo dell'occhialeria. Probabilmente, nonostante uno dei corollari della legislazione straordinaria fosse indubbiamente la creazione di nuovi posti di lavoro53, giocò la considerazione che non fosse utile - in un programma di vasto respiro - accentuare quella che all'epoca appariva una sorta di specializzazione mono-industriale della provincia, ancorché quasi tutta concentrata in Cadore54.

Acconsentire alle richieste di un insediamento più a valle delle maggiori imprese del settore rischiava, a opinione di chi operava alla ricostruzione, di incentivare uno spopolamento relativo di quell'area.

E, tuttavia, anni dopo il CONIB mutò atteggiamento, data l'oggettiva necessità dei grandi produttori di accedere più rapidamente alle principali vie di comunicazione. Essi cominciarono perciò a localizzare stabilimenti strategici nel Longaronese, in parte usufruendo delle facilitazioni previste dalla legislazione sul Vajont. Sul mutato atteggiamento del Consorzio influì anche il timore che l'espansione dell'occhialeria potesse orientarsi verso la pianura.

5. ANCORA DELL'INDUSTRIA DELL'OCCHIALE

Conviene soffermarci ancora su tale comparto manifatturiero. Non solo perché esso trovo una conveniente sistemazione logistica nel suo diramarsi a valle, ma perché l'impianto di nuovi settori merceologici non scalfì un primato provinciale che invece andò intensificandosi, portando il Bellunese, già ne abbiamo accennato, a divenire il principale polo mondiale in tale tipologia di prodotto. Durante gli anni Sessanta, l'occhialeria bellunese crebbe sensibilmente grazie alla strisciante svalutazione della lira che favorì le esportazioni55: ancorché ancora non si trattasse di quella «svalutazione competitiva», che si affermò solo dopo l'entrata della nostra moneta nel sistema monetario europeo. Il forte aumento della produzione e del numero di unità locali (+35%), tuttavia, non si tradusse in un corrispondente incremento nel numero di addetti (+7%), stante che fu l'evoluzione tecnologica a determinare gli incrementi della produttività per addetto, e quindi dei volumi lavorati. Proseguiva quindi negli anni sessanta la tendenza degli ultimi anni del decennio precedente, unità alla sempre maggiore specializzazione nella produzione degli occhiali da sole. Anche la produzione di occhiali da vista fece però registrare un incremento nel decennio considerato, peraltro senza neppure avvicinarsi al +65% fatto segnare da quelli da sole.

La moda esercitò una crescente influenza sulle trasformazioni che investirono l'occhialeria bellunese nel decennio 1961-1971. In questo periodo si verificò una forte proliferazione di piccoli laboratori artigianali, fenomeno non nuovo se si considera quanto accaduto negli anni venti, negli anni quaranta e nei primi anni cinquanta. La novità stava nelle mutate caratteristiche di una crescente tipologia di piccoli artigiani che si andarono indirizzando a quella «produzione per fasi», già precedentemente richiamata, con ciò situandosi all'inizio o alla fine della filiera produttiva. Non era quindi più una produzione in concorrenza con quella della grande impresa, ma in «cooperazione». Se vi era una qualche forma di concorrenza, questa si verificava tra le imprese di taglia minore per l'accaparramento delle commesse. Oltre ai produttori su commessa, vi erano anche coloro che continuavano a produrre in modo autonomo, ponevano sul mercato interno al distretto i propri semilavorati. Anche in questo caso finirono per prevalere le imprese più strutturate, a scapito di quelle con pochi, pochissimi addetti.

Il «terzismo» riportava le barriere all'entrata a livelli molto bassi, dato che l'investimento di capitale necessario a «produzioni di fase» era di fatto contenuto. La produzione su commessa annullava, del resto, sia gli oneri di magazzino che quelli distributivi e, se l'azienda committente era localizzata in area contigua ai laboratori come accadeva in Cadore, anche i costi di trasporto. Queste condizioni favorevoli alle piccole imprese riaprirono nelle imprese medio-grandi un'emorragia di tecnici e di operai che, desiderosi di mettersi in proprio, andarono via via abbandonando il lavoro dipendente. Questo processo fu alimentato dal crescente ricorso al decentramento produttivo da parte delle imprese maggiori. Il fenomeno trasse impulso soprattutto dal fattore moda, che andò costringendo i produttori maggiori a un rinnovo sempre più rapido della modellistica; ciò riduceva tanto i tempi per il disegno e la progettazione delle montature, quanto i tempi di adattamento tecnico della produzione e i tempi della commercializzazione. Se per il primo e l'ultimo passaggio la soluzione consisteva in una più razionale gestione dell'azienda e delle sue risorse, altrettanto non poteva dirsi per la produzione in sè, che non era ancora sufficientemente flessibile se gestita all'interno. Gli investimenti fatti alla fine degli anni cinquanta non erano stati dettati da quest'esigenza di flessibilità. All'epoca non esisteva ancora la tecnologia adatta a creare macchine in cui il cambio del modello si potesse fare in un tempo ristretto.

La soluzione più semplice e veloce parve quindi quella di decentrare alcune fasi della lavorazione ad altre imprese le quali, visto che si dovevano occupare di una sola o due operazioni elementari, erano in grado di essere sufficientemente flessibili e veloci. Inoltre, l'elevato grado di specializzazione consentiva loro di fornire un prodotto buono e al giusto prezzo, perché i loro impianti erano sempre sfruttati al massimo della capacità produttiva. Avviato il processo, l'abbassamento dei costi dei prodotti di fase divenne il fattore determinante nella sua alimentazione. Il minore costo derivava dalle minori imposte che gravavano sulle imprese artigiane rispetto a quelle industriali, ma anche dal fatto che nelle piccole unità produttive il lavoro era spesso svolto dal titolare o dai suoi familiari e le ore lavorative giornaliere non si contavano. Altro importante fattore di spinta al decentramento verso piccole unità fu, come noto, la conflittualità operaia che assunse rilevanza soprattutto negli anni successivi.
Occorre tuttavia rimarcare che, per quanto fosse avvertita anche nel Bellunese la conflittualità operaia che caratterizzava la temperie nazionale, era molto meno pronunciata in un Cadore lontano dalle «zone calde», e praticamente privo di una forte organizzazione sindacale anche nelle fabbriche maggiori. Vi è invece un altro fattore collegato alle rivendicazioni sindacali del tempo che probabilmente indusse alla limitazione delle dimensioni aziendali: le fluttuazioni del mercato. La produzione cadorina si era andata infatti spostando, già lo abbiamo ricordato, verso l'occhiale da sole che, non èssendo un oggetto «medicale» come l'occhiale da vista, era naturalmente soggetto alle variazioni della moda e del reddito dei consumatori, che - nei periodi di congiuntura negativa - potevano benissimo rinviarne l'acquisto o la sostituzione. La quota delle esportazioni era molto alta, e quindi la produzione veniva fortemente condizionata dalle politiche economiche degli stati esteri. Ciò portava a inevitabili variazioni nell'entità della domanda e, quindi, a altrettanti mutamenti delle quantità prodotte. E qui entrava in gioco il problema della rigidità del mercato del lavoro. Il ricorso al «terzista» fu un modo per risolvere anche questo problema, perché quando c'era lavoro si aumentavano le commesse elevando il grado di decentramento, mentre nei momenti di stagnazione della domanda si riducevano le commesse ai «terzisti», magari riportando all'interno delle aziende maggiori le fasi in precedenza esternalizzate, così scaricando sui piccoli, piccolissimi produttori le fluttuazioni negative del mercato.

Il «terzismo» fu, dunque, negli anni sessanta-settanta la formula vincente dell'occhialeria cadorina. Essa diede un forte apporto anche alla sua affermazione sulla concorrenza tedesca e francese56. Il proliferare delle imprese «terziste» emerse con i dati provinciali del censimento del 1971, nel quale il numero delle unità locali con meno di dieci addetti registrò un forte incremento (+121,6%), mentre quelle appartenenti alla classe 11-50 rimanevano sostanzialmente stabili. Le imprese minori videro diminuire la loro dimensione media, passando da 4,2 a 3,5 addetti e contribuendo in modo determinante ad abbassare ulteriormente la media degli addetti del comparto, che passò dai 27,2/impresa del 1961 ai 19,2 del 1971. Guardando gli intervalli censuari, il numero medio di addetti per unità produttiva fu costantemente in calo dal dopoguerra fino al 1971, se si eccettua il piccolo incremento registrato nel decennio 1961-1971. Bisogna inoltre notare come il dato ISTAT sulle dimensioni medie aziendali risulti sicuramente sovrastimato perché, se non rileva ovviamente i lavoratori non regolarizzati presso le varie industrie, non rileva neppure come unità campionaria i componenti del gruppo dei cosiddetti 'lavoratori a domicilio' che in un'industria come l'occhialeria erano molto numerosi57.

In questi anni di profondo cambiamento della struttura dell'industria dell'occhialeria il ruolo di leader rimase comunque sempre all'area centrale del Cadore, vantando questa quasi l'82,6% delle unità locali e il 75,6% degli addetti58. Un tale andamento era perfettamente prevedibile in un periodo in cui quasi tutte le nuove u.l. erano, per così dire, di supporto alle grandi fabbriche che decentravano parte della loro produzione: infatti sarebbe stato ora tanto più utile operare in un'area relativamente ristretta, in cui essere sempre in contatto con i possibili committenti o con i possibili fornitori, ma anche con i concorrenti, per poterli «controllare» e annullarne l'eventuale vantaggio di costo o di tecnologia che potevano conseguire. Inoltre, in un siffatto mercato del lavoro, si poteva passare con facilità da dipendente a imprenditore e viceversa, perché come l'impresa madre portava fuori o dentro la produzione, così era anche per molti dipendenti, che veicolavano in tal modo informazioni sul processo produttivo, sui clienti, sul prezzo e sulle innovazioni adottate.

Più semplicemente, tutte queste informazioni potevano circolare anche per la contiguità fisica dei vari impianti, per l'uso degli stessi subfornitori di fase e degli stessi «terzisti». Il sistema produttivo dell'occhialeria cadorina assunse così in questi anni il profilo di un vero e proprio distretto industriale marshalliano59.
Con il crescente articolarsi delle relazioni tra imprese in rapporto all'organizzazione produttiva e alla parcellizzazione del cicio caratteristica del «sistema occhiale», venne progressivamente strutturandosi un distretto industriale contraddistinto da quell'equilibrata coesistenza di aziende appartenenti a tutte le classi dimensionali, e a tutte le specializzazioni settoriali che, pur con le attuali difficoltà, rimane tuttora lo specifico tratto del medio Cadore. La zona dei primitivi insediamenti mantenne nel tempo la massima concentrazione di aziende e addetti, nonostante l'espansione delle unità produttive a valle e in alcune aree della pianura veneta. Secondo dati ANFAO, nel 1986 il settore contava circa 7.000 addetti e 650 aziende di cui l'84% localizzate nel Veneto. Nella provincia di Belluno, a quella data si concentrava l'80% delle imprese e il 70% degli addetti a livello nazionale60. Nel 1995, delle 1.510 aziende artigianali e industriali presenti in Italia nel mercato dell'ottica, 1.280 erano le aziende venete e 930 quelle bellunesi. Così come dei 17.850 addetti, 15.400 erano gli occupati nel Veneto e 11.200 quelli della provincia di Belluno. Rimaneva dunque preponderante il ruolo dell'area storica di insediamento dell'occhialeria con una significativa compresenza di imprese appartenenti alle classi dimensionali - forte, in particolare, quella fra i 20 e I letti - e con una completa articolazione delle lavorazioni dell'intero processo produttivo. Come dire che la «mutazione genetica» indotta dalle provvidenze ex-Vajont nel secondario provinciale non ridimensionarono il comparto «storico» della trasformazione manifatturiera provinciale, che anzi conobbe, nel pur ritardato approdo all'area longaronese, nuove opportunità, soprattutto di un più immediato collegamento alle grandi arterie di comunicazione. E ciò in parte blocco il trasferimento in pianura di parti vitali del cicio produttivo; per cui se, ad esempio, il polo strategico della Safilo, secondo player mondiale in tale tipologia merceologica, e ora a Padova, il suo presidio di Villanova-Faè consente al bellunese di conservare un segmento importante di una produzione d'eccellenza; il che ha significato non solo in termini di posti di lavoro, ma anche di un radicamento diffusivo di saperi e di intelligenze, che è ora parte essenziale del polo industriale là ormai consolidatosi.

6. LA RINASCITA DEL LONGARONESE E IL RUOLO DI SERVIZIO DEL SUO ENTE FIERISTICO

Le attività che nel tempo si insediarono nel Longaronese hanno reso quel comprensorio un importante riferimento economico per l'intera provincia, grazie anche allo sviluppo di quelle vitali interdipendenze settoriali un tempo quasi assenti nel secondario bellunese. Le tre aree industriali attrezzate di Villanova-Faè, San Martino di Fortogna e Codissago a partire dalla fine degli anni settanta sono andate consolidando significative specializzazioni. In particolare ciò e accaduto a Villanova-Faè, con la presenza di aziende di rilievo, tra le quali - nel campo dell'occhialeria, e accanto al già citato impianto della Safilo - vanno menzionate la De Rigo e una impresa emergente e innovativa come la Marcolin61.
Variegate si presentavano alla fine degli anni ottanta anche le tipologie merceologiche delle aziende stabilitesi a San Martino62 e a Codissago, una località, quest'ultima, ormai decisamente vocata alla lavorazione del legno. Oggi sono circa 300 le imprese che insistono sia all'interno delle tre AIA «storiche», sia in ulteriori nuove urbanizzazioni a uso produttive o di intermediazione grossista. La manodopera da queste occupata non è solo locale, ma proviene anche dai comuni limitrofi o dallo stesso capoluogo provinciale, in ciò confermando le capacità attrattive dell'area. Quasi una metà di queste aziende erano sorte acquistando, giusto il dispositivo ex art. 14ter della riformata L. 1457/1963, i diritti di ricostruzione da quanti avevano avuto i loro beni distrutti nel disastro. In gran parte si trattò di percorsi imprenditoriali coerenti con il più generale tessuto ricostruttivo, anche se non mancarono episodi speculativi, come quando una impresa così nata, e ottenuti i contributi di legge, trasferiva poi la propria attività altrove, conservando tuttavia la proprietà dell'immobile riedificato, magari affittandolo63.

Nel già citato studio di Magagnoli sulle aree industriali attrezzate italiane, l'autore enfatizza tale componente speculativa64: che indubbiamente si manifestò, ma non così generalizzata come gli pare di poter sostenere, e che fu indubbiamente più sistematica nelle AIA attivate dalla Cassa del Mezzogiorno nel Meridione. Egli, a margine, dà un giudizio - a mio parere eccessivamente drastico - sull'attività di infrastrutturazione del CONIB, sostenendo come

la politica delle aree attrezzate praticata nella provincia di Belluno sia [stata] tutto sommato di entità modesta, inserita sì all'interno di una politica di intervento più articolata [...], ma complessivamente componente subordinata e modesta di essa. Una politica dal respiro programmatico limitato, e certamente improntato più al soddisfacimento di bisogni emergenti e conclamati da parte del tessuto produttivo, che non all'intenzionalità di assumere un ruolo trainante e di indirizzo dei processi di sviluppo65.
Si tratta di un'argomentazione che ben si rapporta a quanto sviluppato anche da altro autore, il quale - analizzando i servizi predisposti nelle due AIA di Longarone - li ha ritenuti esigui perché quasi esclusivamente concentrati su viabilità, opere idriche, fognature e rete di distribuzione dell'energia elettrica66.
Quest'ultimo giudizio in teoria condivisibile, non tiene tuttavia conto di due fattori convergenti: da un lato l'urgenza di dare un primo impianto alle aree da attrezzare, e dall'altro la limitatezza dei finanziamenti dello Stato, che tale rimase nonostante successivi (e tardivi) nuovi stanziamenti. Ma se lo stock iniziale fu oggettivamente basso, poi andò implementandosi grazie alle interazioni collaborative che si instaurarono tra le imprese che nel frattempo lì andarono insediandosi e i Comuni di Longarone e di Castellavazzo, soci di peso del consorzio. Per quanto riguarda la mancanza di un ruolo trainante del CONIB nel processo industrializzante, va detto che non era questo il suo compito istituzionale data la natura di mero ente strumentale67.

Il consorzio doveva solo attrezzare le aree insediative messe a disposizione dai piani urbanistici comprensoriali, nonché agire da «agenzia» per l'istruzione delle pratiche inerenti i contributi erogati dallo Stato e per l'erogazione degli stessi una volta approvati dagli organismi competenti. Erano la Provincia, la Camera di commercio, il consorzio BIM-Piave e se vogliamo gli stessi Comuni68 e (a partire dalla istituzione delle Regioni a statuto ordinario, 1970) la Regione del Veneto, i titolari di una azione programmatoria tesa a stimolare lo sviluppo; azione che in non poca parte si manifestò, di concerto anche con le associazioni di categoria, Assindustria e le organizzazioni degli artigiani in particolare. E anche il menzionato consorzio BIM-Piave, a ciò abilitato sia dallo statuto che dalla L. 1953/959 da cui la sua costituzione discendeva, gioco un ruolo significative attraverso l'erogazione di contributi mirati nonché con la partecipazione a società di servizio69.

L'impianto merceologico che da tutto ciò derivò al Longaronese, anche attualizzandolo a oggi, è di rilievo. A parte la rilevante presenza dell'occhialeria, l'elettronica, la meccanica, il tessile e la lavorazione del legno segnano, con indotti significativi il panorama produttivo della zona: un mix sconosciuto in età pre-disastro; peraltro, le imprese in tali comparti impegnati hanno una naturale vocazione all'export, segnando anche per tale via il definitivo superamento della marginalità territoriale; ma ciò vale anche per le altre AIA di iniziativa CONIB, e complessivamente per la provincia che vede gravitare proprio nel Longaronese il baricentro della sua rinascita. La robustezza dell'impianto manifatturiero del comprensorio è dimostrato anche dalla consistenza percentuale delle società di capitali, di almeno 13 punti superiore alla media provinciale. E anche il peso delle aziende con più di 50 addetti, e della relativa occupazione, si distanzia nettamente dal dato medio: più di quattro volte per quanto riguarda le imprese, e più del doppio per quanto riguarda la percentuale di quanti sono in esse impiegati, tenendo anche presente che le tre imprese provinciali con più di 500 addetti sono tutte lì concentrate.
Il ruolo attrattivo dal punto di vista economico del comprensorio longaronese non si esaurì/esaurisce, tuttavia, nelle pur centrali attività di trasformazione manifatturiera, ma deriva anche dal rapido emergere al suo interno di alcune tipologie di terziario, anche avanzato, a servizio delle imprese. E tra queste spicca Longarone Fiere, che dagli inizi degli anni novanta sviluppa iniziative espositive a sostegno delle piccole e medie imprese della provincia, ma anche eventi che hanno un forte richiamo turistico, e che pertanto si traducono in un indotto prezioso per l'intera vallata.
In realtà l'ente fieristico è l'evoluzione, o se vogliamo l'istituzionalizzazione, di una serie di manifestazioni avviate fin dal 1959 dalla Pro loco di Longarone con la MIG - Mostra internazionale del gelato artigianale - (oggi giunta alla sua 49a edizione); a essa si aggiunsero nel 1977 Arredamont, Mostra dell'arredare in montagna, e nel 1979 Agrimont, Mostra dell'agricoltura di montagna e delle attività forestali70. L'ente fieristico, di cui la Pro loco è uno dei quattordici soci fondatori71, è parso lo strumento più idoneo per gestire al meglio realtà espositive ormai complesse, a partire proprio dalla Mostra del gelato artigianale. Nata per celebrare una attività storica degli emigranti bellunesi, da essi «esportata» soprattutto nel Centro Europa, essa è divenuta presto rassegna europea di prestigio di un prodotto alimentare tipicamente italiano, cui partecipano annualmente non solo i migliori artigiani del settore, ma tutto ciò che ruota attorno al comparto, dai fornitori di materie prime di qualità ai produttori di macchinari e attrezzature per gelateria.
L'idea-forza di Longarone Fiere è stata quella di implementare manifestazioni ormai consolidate, aggiungendovi altri momenti, forse non del tutto omogenei, ma comunque in grado di stimolare l'interesse per la vallata. Anche attraverso il proporsi come «Il Polo fieristico della montagna»: una specificazione marketing-oriented che ben qualifica il suo principale ambito operativo, arricchito nel 1994 da Expodolomiti outdoor, Mostra dello sport e del turismo in montagna. Il «portafoglio» espositivo è ora completato, nell'ordine dell'avvio delle singole manifestazioni, da: Sapori Italiani (2001), Salone dei prodotti alimentari tipici e della gastronomia; Caccia pesca e natura (2001), Mostra nazionale di prodotti, attrezzature e servizi per la caccia, la pesca sportiva e outdoor; Reptiles Day (2001), Mostra scambio di rettili, anfibi, insetti e piante tropicali72; eXpoque (2003), Salone del collezionismo; Orient@ (2003), Manifestazione provinciale sull'orientamento scolastico e professionale73; Arte in fierA (2005), Rassegna d'arte contemporanea74; Costruire (2006), Proposte per l'edilizia e l'ambiente; Expo Line (2006), Fiera dell'elettronica75.
Si tratta, complessivamente, di dodici momenti espositivi, che si sviluppano nell'arco di otto mesi per quasi 50 giorni di apertura76; un esito davvero significativo per un ente fieristico giovane che - insediato in un contesto economico indubbiamente vivace, ma territorialmente circoscritto - appare tuttavia in grado di confrontarsi positivamente con le più mature realtà fieristiche di pianura. La rinascita del Longaronese è merito anche di una Pro loco che seppe pensare «in grande», e che tuttavia ebbe il merito - nel momento di una classica «crisi di crescita» - di «passare la mano» a una struttura in grado di valorizzare il patrimonio costruito nel tempo, peraltro contribuendo a costituiria ed essendone ancor oggi parte. E fu una scelta vincente per una comunità che, con fatica, usciva, ancora serbandone il segno, dalla tragedia di una distruzione immane.

7. NOTA A MARGINE

Conviene ricordare come sia la L. 1457/1963, sia la sua riscrittura ex L. 357/1964, non si limitò a finanziare la ricostruzione delle sole imprese industriali, artigiane, professionali e commerciali, ma intervenne anche a favore delle aziende agricole, anche se non con la consistenza economica riservata alla prime. E, tuttavia, con una significativa differenza nella riscrittura rispetto al testo originario.
La L. 1457/1963 si era infatti limitata a prendere in considerazione (art. 21) le aziende agricole propriamente intese, mentre la L. 357/1964 opportunamente vi ricomprese quelle pastorali e silvane, anche se costituite da piccoli appezzamenti, concedendo un contributo del 100% per la ricostituzione delle scorte, compresi i frutti pendenti andati perduti, nonché le agevolazioni per l'accensione di mutui per il ripristino. Di più, essa stabilì che l'Azienda per le foreste demaniali poteva acquistare - su richiesta degli interessati, e al valore pieno pre-disastro - i terreni coinvolti nell'evento. Pochi se ne avvalsero; e, tuttavia, le provvidenze erogate servirono a far rivivere parte dell'antico tessuto pastorale e silvano, contribuendo alla convivenza dell'economia di alta collina con quelle più moderne (industriali e terziarie) del fondovalle. Anche questo, in un qualche modo, esito dell'adattamento del territorio alle trasformazioni indotte dall'evento del 9 ottobre 1963.

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1 La L. 647/1950 ( «Esecuzione di opere straordinarie di pubblico interesse nell'Italia settentrionale e centrale»), fu approvata nello stesso giorno (10 agosto) della L. 646/1950 («Istituzione della Cassa per opere straordinarie di pubblico interesse nell'Italia meridionale Ñ Cassa per il Mezzogiorno»), e voleva essere una sorta di compensazione al Centro-Nord - e particolarmente alle sue aree più depresse, vale a dire quelle montane - per le ingenti risorse che sarebbero state riversate al Sud dalla Cassa del Mezziogiorno.

2 L'imposta di R.M. era l'equivalente dell'attuale imposta sul reddito d'impresa.

3 Sulle contraddizioni della L. 635/1957 (e del suo rifinanziamento con L. 614/1966) rimando a due miei lavori: Giorgio Roverato, L'industria nel Veneto: storia economica di un «caso» regionale, Esedra, Padova 1996, pp. 225-254; Gavino Sabadin teorico della rinascita economica del Veneto in «La depressione economica del Veneto», in Gavino Sabadin (1890-1980) nel Veneto del Novecento tra società, politico ed amministrazione, a cura di Lino Scalco, Cleup, Padova 2001, pp.119-135.

4 Si trattava di Leonardo Del Vecchio, che proprio ad Agordo iniziò una fortunata avventura imprenditoriale.

5 Sotto l'attuale logo di «Assindustria Belluno» compare la denominazione originaria («Associazione fra gli industriali della provincia di Belluno»), a testimonianza - pur nella mutata strutturazione di competenze e servizi associativi - di un antico retroterra di organizzazione degli interessi imprenditoriali.

6 Un'annotazione: le imprese che non si iscrivevano all'Associazione industriali, di questa o di altre province, erano microimprese, o comunque imprese minori, che reputavano la quota associativa (parametrata al monte-salari erogato) incongrua rispetto ai servizi forniti dall'Associazione. È una storia antica, che risale (nel Bellunese, come altrove in Veneto e nel Paese) ai primi anni di vita della Confindustria post-bellica e delle sue articolazioni territoriali, con conflitti anche aspri tra periferia e centro proprio sul tema dei costi associativi, ininfluenti per le imprese maggiori, ma «pesanti» per quelle di piccola e piccolissima dimensione. Per qualche spunto in proposito cfr. Giorgio Roverato, Di alcune opzioni degli ambienti industriali negli anni della «Ricostruzione», in La democrazia cristiana dal fascismo al 18 aprile, a cura di M. Isnenghi e S. Lanaro, Marsilio, Venezia 1978, passim.

7 Stefano Magagnoli, Arcipelaghi industriali. Le aree industriali attrezzate in Italia, Rosenberg & Sellier, Torino, 2007, p. 201. Concetto analogo («la provincia più arretrata dell'Italia settentrionale») compare in IRSEV, Le province venete nell'ultimo cinquantennio: profilo economico e sociale, Istituto regionale per lo sviluppo economico e sociale del Veneto, Venezia I960 2 voll. (cfr. il capitolo dedicate al Bellunese). Si veda anche Camera di commercio di Belluno La provincia di Belluno, zona depressa, Camera di commercio, industria e agricoltura di Belluno, Belluno 1950.

8 L'attività dell'istituzione camerale in tale campo è ben documentata nel volume La Camera di Commercio di Belluno. Due secoli di storia, di Agostino Amantia, ISBREC, Belluno 2006.

9 Non furono poche le imprese che si trasferirono. Tra le prime, nel 1955, fu la Camillo Bianchi (poi Silca SPA), che da Cibiana in Cadore, dove fabbricava serrature e chiavi, approdò a Conegliano specializzandosi nella sola produzione di fusti per chiavi «industriali» (da quelle «tipo Yale» alle chiavi per automobili) e di apparecchiature atte a riprodurle, divenendo presto uno dei player mondiali in tale tipologia merceologica. Anni dopo (1969), a dimostrazione che il nodo dei trasporti faticava a trovare soluzioni soddisfacenti, «emigrò» anche la sede operativa di una azienda di peso nel settore dell'occhialeria, la Safilo: dapprima a Santa Maria di Sala, nel Veneziano e definitivamente spostandosi nella zona industriale di Padova.

10 Nel distretto cadorino dell'occhiale, infatti, era già in qualche modo emersa (come meglio descriveremo più avanti) la «produzione per fasi», vale a dire la segmentazione del ciclo con la specializzazione di alcune aziende nella sola produzione di componentistica (minuterie metalliche) e di astucci per il prodotto finale: da ciò generando sinergie e collaborazione tra le imprese, tipiche delle economie distrettuali quali poi prepotentemente emersero negli ultimi decenni del secolo passato. L'annotazione ha un qualche significato, dato che all'epoca in Veneto i distretti industriali - come poi codificati dal suo principale studioso (si veda l'ormai classico lavoro Mercato e forze locali: il distretto industriale, a cura di Giacomo Beccattini, il Mulino, Bologna 1987) - erano ancora rarissimi, e con solo limitati esempi di economie di scala derivanti dalla segmentazione produttiva.

11 gruppo saccarifero Montesi, che aveva - attraverso la Finanziaria industriale veneta diversificazioni in altri comparti (ad esempio a Bolzano con la società italiana per il magnesio e leghe di magnesio), era presente nel Bellunese anche con la Cadorite SPA. un'azienda attiva in lavorazioni parallele (supporti in sughero, e poi in pvc) a quelle della Faesite, con la quale si trovò a condividere le medesime difficoltà da concorrenza straniera.

12 L'azienda cesserà nel 1984, venendo poi rilevata (e riaperta) nel 1989 da altra proprietà (Polimex) che si dedicherà solo alla produzione di pannelli (e di galleggianti per la pesca) in resina sintetica, procurando peraltro rilevanti danni ambientali, che perdurano tuttoggi nonostante l'attività sia cessata da tempo.

13 In particolare la Funder AG, che poi negli anni ottanta divenne una piccola «multinazionale» aprendo, mediante una consociata, un sito produttivo di pannelli in resina negli Stati Uniti.

14 Oltre la Cartiera di Verona, va ricordata la Pastalegno sorta a Taibon agordino nel 1926 come s.a., poi SPA, cessata alla fine degli anni settanta.

15 La maggior parte delle 568 persone non presenti alla data della rilevazione censuaria erano, ovviamente, emigranti temporanei, a testimonianza che la presenza di attività manifatturiere e le attività agricole della vallata non consentivano opportunità di lavoro per tutti i residenti.

16 Furono 98 le aziende commerciali distrutte nel comprensorio (92 a Longarone, 6 a Castellavazzo).

17 Ivo Mattozzi, Per una storia di Longarone nel Novecento, in Comune di Longarone, Il Grande Vajont, a cura di Maurizio Reberschak, Comune di Longarone, Longarone 1983, p. 31 (riedito in Maurizio Reberschak, Il Grande Vajont, Cierre, Verona 2003; n.e. Verona 2008).

18 Da un lato perché la produzione di componenti si risolveva nell'interscambio all'intero del distretto, e dall'altro perché i piccoli laboratori lavoravano in genere come «terzisti» per le imprese maggiori, in particolare per la Safilo. I pochi che producevano in proprio erano, in realtà, dipendenti dalle reti grossiste che imponevano loro prezzi d'acquisto poco remunerativi

19 Oltre alle già menzionate Faesite e Agordite nel comparto dei pannelli e dei conglomerati esistevano pochi altri produttori: la Metalmeccanica e legno S.p.a. a Ponte delle Alpi, la Apollonio e C. SRL a Cortina, la IBSA a Bribano di Sedico e la F.lli Monti ad Auronzo.

20 Opera «tragica» per le conseguenze di morte e devastazione che essa provocò, e per lo stesso rilevantissimo danno economico che derivò all'ENEL, dal 1962 titolare della sua proprietà giuridica in virtù della nazionalizzazione degli impianti di produzione di energia elettrica. E, quindi, fa una certa (negativa) impressione - almeno a chi scrive - leggere in un sito web tutt'ora attivo (www.enel.it/PaesaggiElettriciHtml/PaesaggiElettricihtml/veneto/elettrificazione.asp) come l'attuale società di diritto privato, ma ancora a controllo pubblico nonostante una parziale privatizzazione, definisca quell'impianto come «l'ultima grande sfortunata impresa della SADE».
Il divario tra i due aggettivi («tragica» e «sfortunata») è ovviamente irrilevante ai fini di questo saggio, ma non lo è rispetto al principio di responsabilità e dell'etica di una grande compagnia, usa ad annualmente redigere - accanto al suo bilancio economico - un peraltro accurato bilancio «sociale».
Poiché mi occupo professionalmente di storia d'impresa, l'utilizzo dell'aggettivo «sfortunata» in riferimento alla temeraria operazione che l'Adriatica di elettricità realizzò sul Vajont mi appare, ed è un eufemismo quanto meno inopportuno; se non altro da parte della società erede di quell'ente di Stato (l'ENEL, appunto) che cercò, in mille modi, di giocare al ribasso nei risarcimenti alle vittime: vittime di quella che non fu frutto di una «sfortunata impresa della SADE», ma esito drammatico (e colpevole) di un mix di approssimazione imprenditoriale, sottovalutazione del più che probabile rischio ben descritto nella documentazione tecnica societaria e disinvolta speculazione di un capitalismo d'accatto.
Nota (di Dal Farra Tiziano): dopo la stampa di questo libro, in ENEL qualcuno si è preoccupato di far sparire il capitolo in questione.

21 In realtà le richieste iniziali erano di fornitura gratuita, o semigratuita, dell'energia. E vennero avanzate durante il «Convegno regionale veneto per il miglioramento dell'economia montana (Belluno 7-8 settembre 1946)». Cfr. Atti del Convegno regionale veneto per il miglioramento dell'economia montana. Tip. Benetta, Belluno 1946. Si veda anche Giorgio Roverato, L'economia montana tra influssi riformatori e la realtà dell'emarginazione, in Montagna e veneti nel secondo dopoguerra, a cura di Ferruccio Vendramini, Bertani, Verona 1988, pp. 241-269. Una qualche compensazione a tali rivendicazioni, tuttavia, alla fine arrivò con la L. 27 dicembre 1953; n. 959, che riordinò il Testo unico del 1933 in materia di leggi «sulle acque e sugli impianti elettrici»; si veda, a questo proposito, la nota 39.

22 Il riferimento all'ottica è dovuto alla proprietà SADE delle Officine Galileo di Firenze, e alle sue varie diramazioni impiantistiche, tra cui una (a lungo strategica per i sistemi di puntamento ottico a uso militare) a Battaglia Terme, nel Padovano. Per un beve profilo di quella storia aziendale, cfr. Mirko Romanato, La Memoria del Lavoro. Le carte del Consiglio di Fabbrica della Galileo industrie Ottiche (1947-2000), Centro Studi Ettore Luccini, Padova 2003.

25 Questa la denominazione originaria (e filologicamente corretta) del grande insediamento portuale a destinazione industriale - e anzi la più rilevante delle aree attrezzate a fini industriali d'Italia, e una delle maggiori d'Europa - collocate in località Marghera, a fronte laguna, e perciò più comunemente noto come Porto Marghera. Una denominazione, quest'ultima, che agevola indubbiamente l'immediata identificazione della sua collocazione, ma che, semanticamente, depotenzia il significato dell'operazione che lì allocò, in un Veneto di manifattura leggera, un nucleo strategico di imprese ad alta intensità di capitale vocate a strutturalmente interagire con il cosiddetto triangolo industriale del Nord Ovest.

24 Un dato, comunque, che era più che doppio - al momento di quella rilevazione censuaria - della media regionale, che si attestava invece al 4%.

25 Il provvedimento era di origine governativa (Governo Moro, 4.12.1963-22.07.1964).

26 La prima era a firma di Francesco Cocco Ortu (PLI) e altri, registrata come DdL 595; la seconda aveva invece come primo firmatario Mario Alicata (PCI), e rubricata al n. 596; la terza, d'iniziativa Giuseppe Saragat (PSDI) e altri al n. 601. Tutti e tre i primi proponenti non appartenevano alla maggioranza monocolore del Governo democratico cristiano dell'epoca, guidato da Giovanni Leone (21.06.1963-4.12.1963); e anche per questo le loro proposte, che coinvolsero un po' tutti i gruppi, furono alla fine facilmente riunificate consentendo una quasi unanime approvazione della Commissione d'inchiesta sia alla Camera che al Senato. La Commissione, presieduta dal senatore Leopoldo Rubinacci (Dc), fu attiva dal 24 giugno 1964 al 4 giugno 1968, con risultanze in parte utili ai fini processuali. Molti dei documenti dei vari gradi del processo sulle responsabilità del disastro, raccolti nel fondo archivistico dell'avvocato Giorgio Tosi del foro padovano (all'epoca uno dei legali delle parti civili), sono ora conservati - e accessibili nei limiti dell'attuale legislazione archivistica - presso gli Archivi del Centro studi Ettore Luccini in Padova (www.centrostudiluccini.it).

27 Poi convertito in L. 6 novembre 1963, n. 1.523.

28 Convertito in L. 27 dicembre 1963, n. 1868.

29 Come è noto, i comuni udinesi colpiti dalla tragedia sono ora ricompresi nella provincia di Pordenone, formatasi per scorporo da quella di Udine nel 1968.

30 Il provvedimento del 31 maggio 1964 era infatti intitolato «Modifiche ed integrazioni della Legge 4 novembre 1963, n. 1457, recante Provvidenze a favore delle zone devastate dalla catastrofe del Vajont del 9 ottobre 1963».

31 Attualizzando con una qualche approssimazione, si trattava di uno stanziamento complessivo equivalente all'incirca a 9-5 milioni di euro odierni (per un raffronto più puntuale, tabelle di conversione aggiornate sono reperibili sul sito web dell'ISTAT).

32 O al di fuori di quella di Udine per le ristrette aree di competenza (oggi in provincia di Pordenone, come già ricordato) ex L. 1457/1963.

33 Il che stava a significare che doveva trattarsi di ditte organizzate prevalentemente con il lavoro del titolare e dei componenti della famiglia, ivi compresi parenti e affini entro il terzo grado.

34 Si trattò, generalmente, dell'esenzione fino al 31 dicembre 1965 dai tributi erariali, provinciali e comunali per le aziende dei comuni bellunesi di Longarone e Castellavazzo, e per quelle site nel Comune udinese di Erto e Casso; l'esenzione poteva essere estesa (e in molti casi lo fu) anche su richiesta di imprese che avessero subìto danni anche in altri comuni, e in rapporto all'entità dei danni patiti. A ciò si aggiunse la dilazione su quattro anni delle imposte pregresse, e ancora non corrisposte.

35 La L. 635/1957 fissava un limite massimo di 100 addetti per azienda, e riservava le agevolazioni alle sole imprese di nuova formazione.

36 La norma, in realtà, prendeva spunto dalla ricostruzione e/o trasferimento degli abitati devastati dalla catastrofe; il che implicava la complessa redazione dei relativi piani urbanistici, all'interno dei quali sarebbero state individuate le aree destinante alle attività produttive. Quest'ultima era una fase centrale del provvedimento, dato che da lì discendeva la realizzazione di quelle Aree industriali attrezzate (AIA) di cui parleremo fra poco.

37 I comuni privilegiati nella determinazione delle aree di industrializzazione erano, significativamente, quelli di Longarone e di Castellavazzo, dove doveva essere concentrato il 30% della superficie complessiva.

38 Esso divenne operativo dopo l'approvazione del suo statuto, avvenuta con D.M. 24 settembre 1965, da parte del ministro per l'Industria e il commercio, di concerto con quelli per l'Interno, per il Tesoro e per i Lavori pubblici.

39 Il BIM-Piave è un consorzio obbligatorio, costituito il 30 dicembre 1955 a norma dell'art. 1 della L. 27 dicembre 1953, n. 959. Tale legge demandava a tali enti la riscossione di un sovracanone in capo ai concessionari «di grandi derivazioni [d'acqua] per produzione di forza motrice». Il fondo nel quale tale sovracanone sarebbe confluito, doveva (e deve ancora) essere in via esclusiva impiegato «a favore del progresso economico e sociale delle popolazioni, nonche' di sistemazione montana [...qualora non] di competenza dello Stato». Il sovracanone poteva essere anche trasformato in equivalente erogazione, a prezzi di mercato, di energia elettrica. Ma fu un'opzione quasi mai praticata. Al BIM, e quindi anche al BIM-Piave, competeva (compete) la predisposizione di un programma annuale di investimenti, da sottoporre all'approvazione del Ministero per i lavori pubblici previo parere del Provveditorato regionale per le opere pubbliche. In particolare, il BIM-Piave ha nel suo statuto come scopo prioritario il perseguimento dello «sviluppo equilibrato dei comuni consorziati», e in particolare del «riequilibrio socio-economico» della provincia. A tal fine, il consorzio è abilitato ad intraprendere tutte le iniziative conseguenti, anche attraverso l'elaborazione di studi e la formulazione di proposte, nonché eventuali accordi di programma e/o partecipazioni a enti a capitale pubblico o misto, tra le quali rientra la citata partecipazione al CONIB.

40 Si trattava, come meglio specificheremo più avanti, dei comuni di Feltre, Pieve d'Alpago e Sedico.

41 Tali commissioni, previste nel nuovo art. 14 della 1457/1963, erano presiedute per ognuna delle due province dal suo presidente, e composte dai rappresentanti dei comuni maggiormente danneggiati (Longarone e Castellavazzo per il Bellunese), dall'intendente di Finanza, dal direttore provinciale dell'Ufficio del tesoro, dal capo dell'Ufficio tecnico erariale, dal direttore dell'Ufficio provinciale del lavoro, dal presidente della locale Camera di commercio e da tre rappresentanti rispettivamente dei datori di lavoro e dei lavoratori designati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative. Che l'approvazione delle cessione fosse solo atto formale derivava dal comune interesse di, comunque, attivare attraverso la ricostruzione nuovi posti di lavoro.

42 Le quali, infatti, nasceranno successivamente...

43 Magagnoli, Arcipelaghi industriali, cit., p. 206. Non cambia molto nel ragionamento dell'autore, ma in realtà non si tratto di incentivi del tutto «analoghi»; le imprese che rilevavano i diritti da chi non intendeva ricostruire, subirono una decurtazione dei contributi a fondo perduto (dal 50 al 20%), anche se godettero in pieno delle rinnovate esenzioni fiscali ex L. 635/1957. Conviene citare, perché emblematico, il titolo del capitolo dedicate da Magagnoli al Bellunese: «Belluno: i vantaggi competitivi di una catastrofe».

44 Ibidem, pp. 206-207.

45 Roverato, L'industria nel Veneto, cit.

46 61 ettari a Faè, 13 ettari a San Martino.

47 Le opere di urbanizzazione per l'AIA di Faè iniziarono nel 1967; per quelle di San Martino e Codissago-Castellavazzo nel 1969. Nel 1971, gli addetti all'industria nei due comuni risultavano in numero di 139 ogni mille abitanti, con un incremento del 76% rispetto ai 79 del 1961.

48 La realizzazione di una Area industriale attrezzata era prevista anche nella valle agordina, ma essa venne poi abbandonata perché considerata a eccessivo impatto ambientale.

49 Gli altri furono a carico delle leggi finanziarie del 1987 e del 1988. Quello del 1983 (L. 190/1983) comporto' un'erogazione a carico dello Stato di 9 miliardi di lire in conto capitale, e di altri 8 in conto interessi.

50 Va, comunque, notato come la dimensione media delle imprese presenti a fine di quell'anno nelle due AIA longaronesi appaiano significativi, con una media di circa 100 addetti per impresa; come non va sottovalutata la dimensione di 39 addetti per impresa nell'area feltrina. Se andiamo a guardare gli addetti medi delle imprese della pianura centrale veneta, le AIA qui considerate testimoniano di un assetto imprenditoriale di tutto rispetto, soprattutto considerando la situazione pre disastro.

51 Egli sostiene che il «numero di addetti occupati all'interno delle AIA [...], tolto il contingente di quella di Longarone, appare quanto mai modesto» (Magagnoli, Arcipelaghi industriali, cit., p. 208). Va, tuttavia, rilevato che il numero di addetti che si prevedeva sarebbe stato impiegato a regime in tali aree (2.800) fu ampiamente superato, attestandosi a quasi 5.000 unità a fine 1997. Certo, si erano sommate situazioni congiunturali espansive, non prevedibili al momento in cui il CONIB iniziò a operare. Con un effetto moltiplicatore generato dai contributi a fondo perduto, a fronte di 35 miliardi di lire erogati, l'investimento complessivo della settantina di imprese insediatesi nelle AIA ammontò alla fine a circa 360.

52 Furono infatti molte le imprese, o ricostruite o nate ex novo mediante la cessione delle provvidenze legislative, che - grazie alle deroghe localizzative - si impiantarono al di fuori dei nuclei di industrializzazione, ma comunque in aree che i piani urbanistici riservarono a insediamenti produttivi.

53 Riprendo questa osservazione da Giovanni Luigi Fontana, Giorgio Roverato, Processi di settorializzazione e distrettualizzazione nei sistemi economici locali. Il Veneto, in Comunità di 163 GIORGIO ROVERATO imprese. Sistemi locali in Italia tra Otto e Novecento, a cura di Franco Amatori e Andrea Colli il Mulino, Bologna 2001, pp. 527-617.

54 La Luxottica di Agordo essendo ancora agli inizi di quella che poi divenne un eccezionale successo imprenditoriale. Per qualche approfondimento sulle performance internazionali dell'impresa agordina, cfr. Giorgio Brunetti, Arnaldo Camuffo, Del Vecchio e Luxottica, come si diventa leader mondiali, Isedi, Torino 2001.

55 Pier Angelo Pioggia, L'evolutione industriale nel Bellunese, Associazione fra gli industriali della provincia di Belluno, Belluno 1988.

56 I produttori tedeschi non riuscirono ad adeguarsi al veloce cambiamento della modellistica richiesta da un mercato in evoluzione, continuando piuttosto a puntare sulla robustezza (e quindi maggior durata) delle montature. La rapidita' del mutamento di forma degli occhiali italiani, che riuscivano a seguire se non ad anticipare le tendenze della moda, determinò la crisi della loro industria. In Francia, invece, la struttura industriale era organizzata in modo molto simile a quella italiana. Era concentrata in zone molto ristrette e sensibili ai mutamenti della moda. In questo caso, il vantaggio competitivo dell'industria italiana e cadorina venne dato dalla convenienza di costo che il massiccio ricorso a piccoli/piccolissimi subcommittenti consentiva.

57 Basti pensare alla lavorazione degli astucci, che si avvaleva di molte donne le quali, presso il proprio domicilio, provvedevano a unire con cucitura le due parti componenti l'astuccio morbido, oppure anche solo a eliminare i fili al termine della fase di cucitura. 58 Erano rispettivamente 80,5% e 74,3% nel 1961.

59 Per il concetto di distretto marshalliano, rinvio ancora a Mercato e forze locali, cit.

60 Antonio Angelillo, Fabio Occari, Il distretto industriale dell'occhialeria: struttura ed evoluzione, «Oltre il Ponte», 22, 1988, pp. 87-121.

61 A proposito di interdipendenze settoriali, nell'area longaronese sono presenti anche aziende minori, alcune attive nell'occhiale completo, altre nelle lavorazioni di fase. Arricchiscono le sinergie, in questo caso commerciali, anche alcuni operatori grossisti con reti di vendita nei principali Paesi europei, nonché case di rappresentanza di produttori di componentistica qualificata

62 L'AIA di San Martino è prossima al cimitero monumentale dedicato alla vittime del Vajont.

63 È quanto si rileva in Pro loco di Longarone, 1959-1989. Trent'anni di mostra internazionale del gelato, Pro loco di Longarone, Longarone 1990.

64 Magagnoli, Arcipelaghi industriali, p. 210.

65 Ibidem, p. 210.

66 Cfr. Cristian Costantini, La politica delle aree attrezzate: il caso di Belluno, tesi di laurea, Università degli studi di Parma, Facoltà di economia, a.a. 1999-2000.

67 E, del resto, nemmeno i consorzi che avevano realizzato e gestivano le zone industriali (Z.I.) in pianura avevano tali compiti programmatori e di indirizzo. Così fu, ad esempio, per la Z.I. di Padova, dove nel 1977 approdò la sede operativa della Safilo: e non perché lì attratta da particolari condizioni offerte dal consorzio in un disegno strategico di allargamento delle tipologie merceologiche presenti all'interno della Z.I., bensì solo per convenienze logistiche d'impresa. I consorzi, al piu', si limitavano a privilegiare - nel divario tra le molte richieste di insediamento e la scarsa disponibilità di lotti ancora liberi - questa o quella impresa in una (non istituzionale) ricerca di interdipendenze settoriali all'interno delle aree di competenza. Ma non si trattava di azione strategica; piuttosto questa era svolta dalle amministrazioni locali che anche con varianti mirate ai vari PRG - spingevano gli stabilimenti che ancora insistevano nel tessuto urbano a spostarsi nelle aree attrezzate.

68 Il ruolo dei Comuni fu centrale. Erano questi i primi (e necessari) interlocutori delle imprese interessate alla ricosfruzione di quanto distrutto, e a maggior ragione degli operatori economici che avevano rilevato i diritti ricostruttivi dagli aventi causa, o delle nuove imprese che, in virtù dei vantaggi competitivi che potevano a esse derivare, intendevano situarsi nelle aree attrezzate. I Comuni, in sostanza, furono la naturale (ed efficace) interfaccia tra imprese e CONIB, al quale spettava - dopo la infrastrutturazione dell'area - gestire, a norma di legge, i contributi, se e in quanto erogabili. E l'attenzione dei comuni, a Longarone come a Feltre e nelle altre AIA, era volta a valutare - a parte quelle che di diritto lì potevano «ricostruire» - non solo l'impatto occupazionale delle singole imprese ma anche le positive sinergie espansive che esse potevano innescare.

69 Come ricordato in nota 39, il BIM-Piave poteva assumere partecipazioni in iniziative consortili o societarie mirate allo sviluppo dell'area di competenza. Come è il caso della quota da questo detenuta in Certottica, Istituto italiano di certificazione dei prodotti ottici, abilitato al rilascio della cosiddetta conformità 'CE'. Si tratta di una partecipazione modestissima, poco meno dell'1,7%, ma tuttavia significativa per il peso che l'occhialeria ha nelle AIA longaronesi e testimonia dell'interesse strategico del consorzio alla promozione delle attività economi che dell'area.

70 Nel tempo, la mostra si è estesa al giardinaggio, e più recentemente al riscaldamento

71 Gli altri sono: Comune di Longarone, Provincia di Belluno, Camera di commercio industria artigianato e agricoltura di Belluno, Comunità montana Cadore Longaronese Zoldo, UNITEIS - Unione dei gelatieri artigiani italiani in Germania, Veneto agricoltura, Assindustria Belluno, ASCOM servizi, Unione artigiani e piccola industria di Belluno, Associazione provinciale piccola industria e artigianato di Belluno, Confartigianato del Veneto, Federazione provinciale coltivatori diretti di Belluno, Unione provinciale agricoltori di Belluno. La proprietà del quartiere fieristico, fino al luglio 2008 in capo al Comune di Longarone, è stata recentemente trasferita all'ente gestore; un mutamento giuridico che se non ha significati sostanziali nell'operatività di LongaroneFiere, indubbiamente rafforza l'autonomia patrimoniale di un soggetto che ha nel tempo acquisito autorevolezza all'interno del disomogeneo panorama fieristico regionale.

72 Tale mostra e in collaborazione con www.serpenti.it. In tale sito, la manifestazione viene presentata come «Mostra mercato di rettili, anfibi e attrezzature».

73 In collaborazione con l'Amministrazione provinciale di Belluno.

74 Si tratta di una manifestazione che il sito www.arteinfiera.it, meglio definisce come «Mostra Mercato d'arte moderna e contemporanea».

75 Ultima nata, questa rassegna, anche se per il momento ancora limitata a due giorni espositivi, mira a uno dei core business emergenti della vallata

76 La maggior durata espositiva è, comunque, comprensibilmente riservata alle tre rassegne storiche (MIG, 5 giorni; Arredamont, 8 giorni; Agrimont, 10 giorni): quelle che richiamano il maggior numero di visitatori e di espositori d'oltralpe, il mercato cui esse guardano con maggior attenzione.




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