Ho studiato, ed espongo in questo scritto,(*) le vicende di due episodi particolarmente tragici della recente storia italiana (i disastri del
Vajont e di Stava), e l'evoluzione di un istituto (l'«immunità» del Governo e dei suoi fornitori) che negli Stati Uniti d'America rappresenta una eccezione al regime normale della responsabilità extracontrattuale. Gli elementi comuni che collegano i casi esaminati sono l'irresponsabile superficialità e l'imprudenza con cui si permette l'avvio e la continuazione di attività che, con «ragionevole certezza», avranno tragiche conseguenze,(**) e la negata, ridotta o gravemente ritardata tutela delle persone danneggiate, senza alcuna loro colpa, da eventi causati da azioni od omissioni altrui.
Nel caso americano si ha addirittura il totale disconoscimento della responsabilità, mentre negli episodi italiani al risarcimento dei danneggiati si è giunti (come nel nostro Paese è ormai regola) attraverso un procedimento lunghissimo e pieno di distorsioni e di difficoltà, in cui la ricerca del vero responsabile è influenzata dal desiderio di attribuire la colpa a chi è meglio in grado di risarcire il danno, e la responsabilità viene circoscritta a pochissime fra le persone che hanno avuto parte nel causare l'evento o non ne hanno evitato o attenuato le conseguenze, di modo che il sistema non fornisce un efficace monito e un serio deterrente rispetto ad analoghi comportamenti futuri.
Confido che queste pagine possano suscitare l'interesse dei lettori
anche al di fuori dello stretto ambito dei giuristi, e che esse possano
stimolare riflessioni per un'evoluzione della legislazione e della giurisprudenza verso un sistema che sia di incentivo a un maggiore senso
di responsabilità sociale e che rispetti meglio le aspettative di risarcimento dei danneggiati. Il mio lavoro fa larga parte alla storia, perché sono convinto che è illusorio credere di poter capire il diritto al di fuor della storia.(***) Spero che la spiegazione storica aiuti i lettori a intendere più chiaramente le condizioni che hanno condotto agli eventi descritti, e li induca a orientarsi verso l'obiettivo - che tutti dovrebbero porsi - di assicurare e di incoraggiare le politiche e gli strumenti per una efficace prevenzione e per un adeguato e pronto risarcimento dei
danni causati dagli eventi che non sia possibile evitare.
Desidero ringraziare gli amici Carmine Punzi per l'incoraggiamento a scrivere questo studio e per i numerosi e preziosi suggerimenti, Alberto Mario Ferrari per l'aiuto nella messa a punto di alcuni aspetti critici e per la paziente lettura del testo, Eugenio Bruti Liberati per le incisive osservazioni, Thomas E. Grossmann e Guido Santi per la collaborazione nella raccolta del materiale.
(*) Nella citazione di opere (e in particolar modo di quelle che hanno avuto più edizioni), nonché nei riferimenti di giurisprudenza, ho ritenuto opportuno richiamare le edizioni delle opere e gli orientamenti giurisprudenziali del tempo in cui i fatti esaminati si sono svolti e le sentenze sono state pronunciate.
(**) Nel caso del Vajont, la scelta del sito inidoneo e la realizzazione dell'opera senza protezioni a valle, l'invaso del bacino nonostante la consapevolezza della imminente caduta di una enorme frana, il mancato sgombero delle persone a valle della diga quando non vi sono più dubbi che la loro vita è in pericolo; nel caso di Stava, l'omessa eliminazione dei bacini a operazioni di sfruttamento ultimate, la ripresa della flottazione nei bacini senza i prescritti controlli, l'utilizzo dei bacini per la flottazione di materiale importato da altre miniere; nel caso dell'«Agent Orange» e nei numerosi altri casi citati nel corso di questo saggio, l'uso del defoliante da parte delle Forze Armate statunitensi - nonostante la presenza dei propri soldati nella giungla del Vietnam - e, in generale, l'imposizione da parte del governo di specifiche di progetto che, se scorrette, possono causare il cattivo funzionamento di intere serie di forniture, e lesioni o morte di chi usa i prodotti, senza che il Governo o i suoi fornitori siano obbligati a rispondere.
(***) «The life of the law... [is] experience», OLIVER WENDELL HOLMES, The Common
Law, Cambridge, Mass. 1963 (1st ed., 1881), p. 11.
LA RESPONSABILITÀ NELL'ESERCIZIO
DI ATTIVITÀ PERICOLOSE
(LA FRANA DEL VAJONT)
INTRODUZIONE
Il libro del Vajont è stato scritto dagli ingegneri, dai geologi, dai
politici, dai giuristi, e dai tribunali. Ormai, a oltre trentatre anni dall'evento, dovrebbe essere un libro chiuso. La ragione che mi induce a
scrivere questo saggio è che l'insegnamento che si sarebbe dovuto trarre dalla catastrofe non è stato recepito allora, e non lo è a tutt'oggi. La cultura della prevenzione e della preparazione per le situazioni di emergenza non è penetrata nella mentalità italiana. Quando si verifica una catastrofe, la nostra maggiore preoccupazione è quella di cercare e punire un colpevole, dopo di che si ritorna alla consueta rilassatezza, finché si verifica il prossimo disastro.
Negli ultimi giorni precedenti il disastro del Vajont, l'ENEL (concessionario e gestore del bacino), il Prefetto di Udine (nel cui territorio
si trovano i paesi di Erto e Casso) e il Prefetto di Belluno (nel cui
territorio si trova Longarone), i sindaci dei Comuni della zona, gli
Uffici del Genio civile, il Consiglio superiore e il Servizio dighe del
Ministero dei lavori pubblici, tutti sapevano, con abbondanza di dettagli, anche recenti e dell'ultima ora, che una frana di grandi dimensioni sarebbe caduta nel bacino, capace anche di provocare la distruzione della diga di sbarramento, con tutte le conseguenze facilmente prevedibili, tenuto conto che il lago conteneva 115 milioni di mc di acqua e che, a meno di 2 km di distanza, nella direzione obbligata di
un'alluvione da esondazione verso occidente del bacino, vi erano i
numerosi insediamenti urbani della valle del Piave. In quei giorni,
nessuno chiese, ordinò, o eseguì lo sgombero delle popolazioni che
erano esposte al grave pericolo delle conseguenze di una frana di così
grandi dimensioni; conseguenze sicuramente ipotizzabili da tutti, anzi
«sicuramente prevedibili» come risultò dai processi.
Nessuno dette l'allarme. La frana si verificò. Essa non distrusse la diga, ma fece esondare 23 milioni di mc d'acqua. Un paese a valle fu spazzato via, altri subirono ingenti danni. Perirono duemila persone che avrebbero potuto
essere salvate con una tempestiva evacuazione, e che avrebbero potuto
salvare se stesse se coloro che sapevano avessero dato l'allarme, almeno
qualche ora prima del disastro.2
La caduta di quasi 300 milioni di mc di massa rocciosa è un evento talmente enorme che non vi è immaginazione umana che possa escludere le conseguenze più catastrofiche. Si sarebbe dovuto pensare al peggio, correre a dirlo ai sagrestani - non a quelli di Erto e Casso, paesi già evacuati, anche se prevedibilmente
meno a rischio (il primo, a una certa distanza dalla zona di frana, il
secondo a una altitudine relativamente sicura al di sopra dello specchio
del bacino) - ma a quelli di Longarone, Faè, Pirago, Rivalta, Castellavazzo, affinché suonassero le campane a martello. Lo si è fatto per secoli, in tutto il mondo, quando c'era pericolo. Se non si fosse perso il ricordo della prassi secolare, quella sera d'ottobre del 1963 molti
sarebbero fuggiti, e si sarebbero salvati.
La memoria di questa tragedia si sta perdendo. Pendono ancora isolate cause, che i giudici decidono come se si trattasse di incidenti stradali da poco avvenuti. Dal modo come sono scritte le sentenze si può intuire che i giudici non hanno letto le 2.000 pagine delle sentenze di rinvio a giudizio, del Tribunale dell'Aquila, delle Corti d'appello dell'Aquila e di Firenze, e della Corte di cassazione.3
Sono rimaste, a disposizione di tutti, le massime di giurisprudenza,
e alcune generalizzazioni di poco significato e incapaci di costituire una
lezione di storia, scaturite da fatti in parte veri, in parte travisati, che
si prestavano - come in effetti fu - a strumentalizzazioni. Scrivo perciò
queste pagine per fermare e conservare nel ricordo gli aspetti salienti
di quel tragico evento, e per farne la base su cui sviluppare l'analisi
degli errori, se tali furono; desideroso di apprendere e comunicare la
lezione, e aiutare a tradurla in guida e prudenza futura.
La diga del Valont è sopravvissuta quasi intatta, «gloria della tecnica
italiana: non vinta, ma superata dalla natura» scrisse la Commissione
ministeriale di inchiesta.4 Il Vajont non è rimasto solo il simbolo dell'ingegneria italiana. Esso è diventato un capitolo di storia italiana, scritto da grandi scienziati e giuristi; un capitolo alla redazione del quale hanno contribuito i giudici, che si sono concentrati, sopraffatti
dagli idola tribus, su pochi aspetti estranei al tema - enormemente più ampio - che la tragedia aveva posto, quello cioè della protezione e dell'incolumità delle persone, finendo col giudicare con la leggerezza di chi non sa.5 Come sempre nelle tragedie, non è mancata la comparsa di politici, politicanti, pubblici ministeri, giudici, difensori, esperti improvvisati, e saputelli generici, che si sono schierati fra coloro che
valutano gli eventi con il senno del fatto compiuto.
In questa sede descriverò la costruzione della diga del Vajont attraverso le sue fasi di concepimento e attuazione fino al giorno della frana.
Seguirà un capitolo sul comportamento superficiale e irresponsabile di
coloro che avrebbero dovuto provvedere alle misure di sicurezza per
le popolazioni a valle della diga, e che tralasciarono di reagire agli avvertimenti prodromici, lontani e vicini - sul significato dei quali non
s poteva sbagliare - della catastrofe in arrivo. Passerò quindi a una
breve analisi dei processi relativi al Vajont, L'ultimo capitolo affronterà la questione di un rapido, giusto e dignitoso risarcimento ai danneggiati.
Ventidue anni dopo la tragedia del Vaiont, il 19 luglio 1985, si verificò la frana di Stava.
Anche se Stava fu molto più simile a un'esplosione che a una frana, fu
anch'essa preceduta da numerosi segni premonitori (vedi infra [Stava] cap. IV).
Nessuno gestì i prodromi della probabile, imminente catastrofe. Nessuno dette l'allarme. Perirono 269 persone.
Cito Stava, come esempio, fra i numerosi disastri che si sono
avuti in Italia dal 9 ottobre 1963, giorno in cui si verificò la frana del Vajont, e che avrebbero potuto essere evitati, o le cui conseguenze avrebbero potuto essere mitigate, se fosse stata appresa la lezione del Vajont, e se fossero state messe in opera misure idonee alla gestione dei prodromi delle emergenze.
2 Come è previsto dal Regolamento per la progettazione, costruzione ed esercizio degli sbarramenti di ritenuta, d.p.r. 1 novembre 1959, n. 1363, art. 2 ult. cpv: «La relazione stessa specificherà altresì come sia previsto di provvedere durante l'esercizio alla vigilanza dell'opera e ad avvertire, in tempo utile e con ogni sicurezza, gli abitanti della vallata sottostante in caso di pericolo o qualora si presenti la necessità di svaso immediato del serbatoio». (Si deve precisare che la diga non era «in esercizio» quando
si verificò l'evento; lo svaso era iniziato - troppo tardi - verso la fine di settembre 1963;
erano gli ultimi giorni utili per avvertire del pericolo gli abitanti di Longarone e dei
paesi vicini).
3 Vedi, per esempio, Tribunale Belluno, 4 febbraio 1997, dove si legge (p. 27-28)
che l'ing. Biadene fosse un «proprio dipendente» della Montedison nel periodo intermedio ricompreso tra il 16 marzo e il 27 luglio 1963, mentre nell'«epoca precedente
e susseguente all'assunzione da parte della SADE (nella cui posizione è subentrata la
Montedison) della custodia del bacino del Vajont» sarebbe stato «dipendente dell'ENEL»; e ancora (p. 29) «la condotta tenuta dall'ing. Biadene nel periodo in cui fu
alle dipendenze della SADE» (il tribunale si riferisce al periodo dal 16 marzo al 27
luglio 1963). Vedi legge di nazionalizzazione, 6 dicembre 1962, n. 1643, art 13, comma
3, «il personale in servizio delle imprese da trasferire... è mantenuto in servizio» dopo
l'emanazione del decreto presidenziale di trasferimento (per quanto riguarda la SADE,
pubblicato appunto il 16 marzo 1963). Vedi osservazioni critiche in Cass., sezioni
unite, 8 novembre 1977, 38-39, infra testo con nt. 461; Cass., 17 dicembre 1986, 3536, infra testo con nt. 253.
4 Relazione al Ministro dei lavori pubblici, COMMISSIONE DI INCHIESTA SULLA SCIAGURA DEL VAJONT, gennaio 1964, ii. Vedi Allegati 1 e 2. Relazione dei periti nominati dal
giudice istruttore del Tribunale di Belluno in merito alla catastrofe del Vaiont del 9
ottobre 1963 (in seguito «Relazione 2° collegio»), del 23 giugno 1967, VI-1 («la diga
resistette magnificamente a spinte ben superiori a quelle ch'era tenuta a dover sopportare»). La diga, esposta a sollecitazioni fortissime, rimase pressoché intatta. La frana
non la colpì direttamente e la violenza dell'acqua non la compromise. La diga sarebbe
probabilmente crollata se la frana fosse piombata su di essa.
5 Deviando, con grande copia di minuziose informazioni, dal tema, cioè dalla responsabilità dei realizzatori del bacino e degli enti pubblici di controllo relativamente
all'imprudente scelta del sito, in mancanza di protezioni a valle per il caso di crollo
della diga o di grande esondazione e alla violazione dell'obbligo di ordinare lo sgombero e di dare l'allarme, i giudici si concentrarono sulla causa dell'evento, e sulla
velocità di caduta e la quantità analitica di altri dettagli fisici di prevedibilità, analisi
che condusse a conclusioni non attendibili. Non è stata accertata, durante i processi
- e non si conosce tuttora - la causa delle modalità di caduta della frana. Rinomati
scienziati si cimentarono con questo tema, senza giungere a spiegazioni definitive. A
tutti gli effetti pratici, si poteva condudere che la frana cadde istantaneamente. Ma i
giudici ritennero che si dovesse, nonostante l'impossibilità fisica di determinarlo, stabilire se il tempo di caduta era stato di 20-25 secondi o 40 secondi (escludendo un
tempo di caduta di 60 secondi perché, nella logica delle sentenze, non avrebbe permesso di condannare gli imputati in quanto, come aveva detto il prof. Ghetti, un
tempo di caduta di 60 secondi su un bacino a livello di 700 m avrebbe provocato
un'onda di sovralzo di 25 m e non avrebbe causato la disastrosa inondazione. Vedi la
critica sulle affermazioni di Ghetti in Relazione 2° collegio, II-58).
Scrisse CLAUDIO DATEI, Su alcune questioni di carattere dinamico relative ad un eccezionale scoscendimento
di un ammasso roccioso, in Memorie della Accademia Patavina, Padova, 1969, 89-108, a p. 106: «L'esame precedente mette in evidenza... la fragilità delle ipotesi assunte a giustificazione dei fatti avvenuti: cioè la limitatissima conoscenza delle circostanze
fisiche che hanno reso possibile lo scoscendimento del versante sinistro del Vajont con una velocità massima, quasi certamente, superiore a 27 m/s. Questa osservazione concorre... ad attribuire al tragico evento un carattere assolutamente eccezionale».
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