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Floriano Calvino, Sandro Nosengo, Giovanni Bassi, Vanni Ceola, Paolo Berti, Francesco Borasi, Rita Farinelli, Lorenza Cescatti, Sandro Gamberini, Sandro Canestrini

Un processo alla speculazione industriale

La strage di STAVA

negli interventi della parte civile alternativa
Edizione a cura del Collegio di difesa di parte civile alternativa
© Trento, 1989

Alla memoria di 269 vittime
della speculazione e dello
sfruttamento insensato del territorio
e alla memoria di Floriano Calvino
che - dalla parte delle vittime,
come sempre - si schierò,
con intelligenza e con amore.

PRESENTAZIONE
Ringrazio Francesco Borasi di Milano per avermi cortesemente donato questa copia fuori commercio che ora posso condividere con Voi ...

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INDICE

Presentazione - pag. 5

Premessa - pag. 9

LA PERIZIA DI PARTE CIVILE, di Floriano Calvino 15

CONSIDERAZIONI TECNICHE DOPO IL PROCESSO DI PRIMO GRADO, di Sandro Nosengo e Giovanni Bassi - 29

LE COLPE DEGLI IMPUTATI, di Vanni Ceola - 49

LA MONTEDISON: SUPERFICIALITA' E PROFITTO, di Paolo Berti - 75

IL SONNO DELLA RAGIONE HA DISTRUTTO STAVA, di Francesco Borasi- 89

I ROTA: DAI GELATI ALLE MINIERE, di Rita Farinelli - 113

LE OMISSIONI DI CURRO' DOSSI E PERNA, di Lorenza Cescatti - 129

IL RUOLO DEL DISTRETTO MINERARIO, di Sandro Gamberini - 143

DAL VAJONT A STAVA: LA MONTEDISON NON E' CAMBIATA, di Sandro Canestrini - 161

APPENDICE I

Dalla relazione della Commissione tecnico-amministrativa di inchiesta nominata dal Consiglio dei ministri - 179

APPENDICE II

Dall'articolo: «I bacini di decantazione dei rifiuti degli impianti di trattamento dei minerali» del prof. Giovanni Rossi (Industria Mineraria, nn. 10 e 11, 1973) - 193

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5 Ottobre 2013, Longarone.
DOPO la coraggiosa presentazione pubblica di QUESTO libro, c'è stato il miserabile OLTRAGGIO della 'corsa alle scuse di Stato', spacciate malamente per tardivissimo 'OMAGGIO' e Alti Nobili Sentimenti... ma fatte da figuranti INADEGUATI e IMPACCIATI, e quindi totalmente ALIENI da DIGNITA' e ONORE. Uno più ignorante e INDEGNO dell'altro.
Ma proprio QUESTO, è e significano il "Vajont" e Stava!! *VILIPENDERE le VITTIME* (e tutti gli ITALIANI)

Tiziano dal Farra, Belluno, e curatore di questo sito web.

Valdinucci/Menotti
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Una grande alienazione, una grande rimozione, grandi silenzi. Che altro erano quelle udienze senza fine, scandite da un salmodiare monocorde su inafferrabili calcoli statici, dal fitto parlottìo delle cifre, da fluviali ricerche lungo il percorso delle proprietà, delle responsabilità, delle pratiche? Certo, anche gli algoritmi hanno una loro evidente e vistosa eloquenza, hanno un fragore accusatorio importante, in un processo in cui si discute principalmente in punta di perizie, nel quale si disserta se una certa ingegneria è stata un'ingegneria di precisione o un'ingegneria di avventura, dove il nodo da sciogliere è, in buona sostanza, il seguente: dove si è spezzato, quando si è spezzato, come si è spezzato quell'equilibrio possente e fragile, necessario e vulnerabile, tecnico e morale, in base al quale una qualunque impresa di civiltà industriale è (o non è) a misura della vita umana, è (o non è) a misura delle leggi penali, è (o non è) a misura dell'ambiente naturale.

Anche gli algoritmi dunque entrano - e come entrano! - in un discorso di giustizia. E tuttavia ecco per chi, come me, giurista non è, ecco lo sconcerto, ecco il turbamento, ecco il brivido sottile e gelido di un processo in cui si giudica una delle stragi più orrende di questo secolo, lo sconvolgimento di una vallata d'incanto, lo scempio di una comunità compatta nelle sue attese e nella sua laboriosità, e che si svolge come in una sorta di sterilizzatissimo laboratorio, in una sorta di procedimento 'in vitro', perfetto, sincronizzato, calibrato, disinfettato, però senza un sussulto di adrenaline umane, senza un singulto di passione, senza una scossa non dico di collera (siamo in tribunale, lo so ...) ma almeno d'insopportazione per questo "due più due" ingegneristico, tecnico, manageriale, che quando non fa quattro produce quel che produce. Produce duecentosessantanove morti a Stava fra la gente in vacanza e la gente che lavora, in una tarda mattinata di luglio, quasi all'ora del desinare.

Ci sarà pure stato un calcolo non semplicemente statico dietro quei bacini d'argilla male pensati e peggio costruiti.
Ci sarà pure stata una speculazione non meramente ingegneristica dietro quel raschiare tutto ciò che c'era da raschiare nella montagna di Stava. Ci sarà pure stato un fondo, una fine, che si dovevano prevedere in quel passarsi di mano quella vecchia miniera, in quell'affare partito in grande e finito in piccolo, in quel 'business' che all'inizio faceva gola ai grandi monopòli e alla fine, all'ultima spremitura, arriva nelle mani di quegli strani personaggi dai molti mestieri, di poche parole e di slanci modesti, che abbiamo conosciuto al processo. Ci sarà pure stato un dubbio, un trasalimento, un turbamento qualsiasi in quel mesto passamano di pratiche da una scrivania all'altra, da un ufficio all'altro, da un timbro all'altro di burocrati e controllori, esperti e politici che hanno sprofondato nel rossore la forte ed efficiente autonomìa trentina, tanto perfetta nel rimuovere il fango e nell'organizzare funerali televisivi, quanto imbambolata, incerta, contraddittoria, confusionaria, nell'impedire quel fango e nell'evitare quei funerali. Insomma come sono maturati quei calcoli di morte, come s'è speculato su quella miniera, come non si è previsto che il fondo sarebbe arrivato, come s'è svolta quella sorveglianza dormigliona?

C'è, deve esserci, tutta una storia di dubbi non verificati, di scrollatine di spalle, forse di ammiccamenti colpevoli in questa sciagurata vicenda di Stava, nell'ingordigia che l'ha accompagnata, e nell'infinita serie di trascuratezze che l'hanno determinata. E allora perché quegli imputati così estraniati, simili a sfingi patetiche e senza emozioni? Perché quella colossale rimozione di memoria umana e di memoria politica che, a pochissimi giorni dalla strage, s'è messa in moto per far sì che della tragedia nulla rimanesse al di là della scomoda incombenza processuale? Perché il frettoloso 'maquillage' che, a tempo di record, ha tolto dalla levigatissima immagine di questa bella provincia ogni più piccola traccia dell'immane sfregio? Perché quel processo di "non ricordo" e di linguaggi cifrati, simili a lunghi silenzi della memoria e della coscienza?

Questo volume, oltre che un documento e una testimonianza, è anche - mi sembra - l'espressione più avanzata e aggressiva di un'aspirazione di giustizia che va oltre il dato tecnico e matematico delle pene, delle attenuanti e delle aggravanti, per coinvolgere il dato umano e il dato etico che rendono drammatico il "senso" del processo. Anche il dato politico, certo, ma nel senso meno scontato del termine, posto che l'ispirazione di questi interventi proviene - come si legge nell'arringa di Sandro Canestrini - «da regioni filosofiche, religiose, politiche, culturali diverse».

Regioni diverse, dunque, ma certamente non in contrasto - almeno sul piano umano ed etico - con la "regione" religiosa, culturale, filosofica dell'uomo che il 17 luglio 1988, per cinque interminabili minuti, è rimasto inginocchiato in silenzio fra le tombe dei morti di Stava e, rivolgendosi ai superstiti, ha detto, citando una celebre enciclica: «Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere dal rispetto degli esseri che formano la naturavisibile. Il domìnio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre le cose come meglio aggrada». Parlo dello stesso uomo, il Papa, che un momento prima aveva severamente ammonito che Dio è « drammaticamente coinvolto » nel dolore degli uomini, nel dolore delle ingiustizie.

Piero Agostini

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PREMESSA

Alle 12 e 22 del 19 luglio 1985, in una piccola valle laterale alla valle di Fiemme in Trentino, la valle di Stava, si verificò uno dei più tragici disastri industriali accaduto in Italia: il crollo dei due bacini di decantazione costruiti nei pressi della miniera di fluorite di Prestavel.

I bacini venivano utilizzati per il lavaggio dei materiali scavati nella miniera e per il deposito delle scorie del materiale estratto. Essi vennero edificati l'uno sopra l'altro e dominavano la stretta e ripida val di Stava, abitata nei giorni del disastro, oltre che dai residenti, da numerose centinaia di turisti, i più alloggiati presso gli alberghi della zona.

Il crollo dell'argine del bacino superiore pose in moto l'enorme massa dei limi ivi depositati, che dopo essersi riversati in quello inferiore, mescolati ai materiali contenuti in quest'ultimo, si diressero, in una tragica corsa, giù per la valle fino all'abitato di Tésero ed oltre, spazzando via, lungo il loro percorso, ogni persona ed ogni cosa.
269 persone morirono: una strage. Molte di loro non furono più ritrovate. Vennero completamente distrutti 56 fra case ed alberghi, 6 capannoni artigianali, 8 ponti; altri nove edifici vennero gravemente danneggiati. Tutto travolto dai 170.000 mc di materiale fuorusciti dai bacini.
La memoria non può non tornare ai 2.000 morti del Vajont, altro bacino targato Enel, Sade, Montedison, travolti dall'acqua sollevata dalla frana del monte Tòc. Ma anche al processo che si svolse a Trento per giudicare i responsabili dei morti della funivia del Cermis, caduta proprio di fronte alla val di Stava. Quel processo terminò con la condanna di colui che rappresentava l'ultima ruota del carro: il manovratore della cabina.

Le analogìe fra i processi del Vajont e del Cermis e quello di Stava non sono poche.
L'allora Presidente del Consiglio, Giovanni Leone, che a Longarone, nel 1963, pellegrinando sui luoghi della tragedia aveva promesso giustizia, pochi anni dopo non ebbe alcuna rèmora ad assumere la difesa dell'Enel.

Di fronte ai superstiti di Stava, il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, affermò: «Sarà fatta giustizia, una giustizia non irata, ma serena e severa». Ma tre anni dopo, all'apertura del processo lo Stato, che avrebbe dovuto costituirsi parte civile, non si presentò, rimase assente, in violazione dei propri stessi interessi e di quelli della collettività nazionale.

L'istruttoria del processo dl Stava non iniziò in modo migliore. Anziché operare immediati sequestri dei documenti depositati in Provincia, il Procuratore della Repubblica, Francesco Simeoni si limitò, con atteggiamento incredibilmente ossequioso nei confronti del potere, a pregare cortesemente il Presidente della Giunta provinciale di consegnare la documentazione esistente presso gli uffici provinciali.
Ed alla domanda del giornalisti che paventavano per il processo di Stava la stessa conclusione di quello del Cèrmis, lo stesso Simeoni testualmente esclamò: «Questa volta faremo giustizia!»

La prima fase dell'istruttoria fu contrassegnata dalle polemiche fra alcuni difensori dl parte civile ed il Procuratore della Repubblica. Ai difensori di parte civile che richiesero la formalizzazione dell'inchiesta, nel rispetto del codice di procedura penale, il magistrato, non solo rispose negativamente, ma dichiarò che chi aveva presentato l'istanza 'rappresentava solo una piccola parte dei famillari delle vittime'.
Nel frattempo, ai cinque ordini di cattura, seguirono presto cinque ordini di scarcerazione, ai numerosi ordini di comparizione seguirono le archiviazioni e il proscioglimento degli imputati "politici" e di alcuni fra gli imputati "tecnici". Nel novembre 1986 venne depositata la consulenza tecnica del quattro periti d'ufficio, i professori Colombo, Datei, Fuganti e l'ing. Dolzani.

Il 20 novembre 1986 vennero inviati mandati di comparizione nei confronti dei 16 imputati rimasti dalla precedente scrematura.

Il 25 maggio 1987 il giudice istruttore, Carlo Ancona, depositò la sua sentenza-ordinanza. In essa rinviò a giudizio i dirigenti Montedison e Fluormine Alberto Bonetti, Antonio Ghirardini, Giuseppe Lattuca, Alberto Morandi, Fazio Florini e Sergio Toscana, i dirigenti dell'ultima concessionaria della miniera, Prealpi Mineraria, Vincenzo Campedel e Mario Garavana e i due responsablli del Distretto minerario della Provincia autonoma di Trento, Giuliano Perna ed Aldo Currò Dossi.

In accoglimento delle impugnazioni proposte dalla Procura della Repubblica e dalla Procura Generale della Repubblica, la Sezione istruttoria della Corte d'Appello rinviava a giudizio anche l'amministratore della Prealpi Mineraria, Aldo Rota, ed il responsabile del Servizio Minerario della Provincia autonoma di Trento, Giuliano Murara.

Il processo di primo grado si aprì, davanti al Tribunale di Trento, composto da tre giovani magistrati, Marco La Ganga, Alberto Pallucchini e Dino Erlicher, l'8 aprile 1988.
L'8 luglio il Presidente del Tribunale lesse il dispositivo della sentenza: Alberto Bonetti, Fazio Fiorini e Antonio Ghirardini vennero condannati alla pena di 5 anni di reclusione; Vincenzo Campedel e Aldo Currò Dossi alla pena di 4 anni; Sergio Toscana e Alberto Morandi a quella dl 3 anni e 6 mesi, a 2 anni e 6 mesi Giuseppe Lattuca, Giulio Rota e Giuliano Perna.
Giuliano Murara venne assolto per non aver commesso il fatto e Mario Garavana per insufficienza di prove.

Tre anni per celebrare il primo grado di un processo possono apparire molti. Ma per lo stato della giustizia in Italia, obiettivamente, non lo sono.
Le condanne sono state certamente miti. Il riconoscimento di responsabilità nella causazione della morte di 269 persone non può ridursi, in una società civile, in una condanna a due anni e sei mesi e neppure ad una a cinque anni di reclusione. Ad una pena, per di più, che non sarà mai scontata se - come ormai appare inevitabile - i prossimi giorni ci consegneranno l'ennesima amnistìa.
In tal modo i responsabili di 269 omicìdi, finiranno col non pagare neppure la contravvenzione che paga chi lascia l'automobile in sosta vietata.

Il 9 ottobre 1989 si aprirà il processo d'appello sul quale aleggerà, col suo peso insopportabile, l'imminente provvedimento di clemenza. Se così sarà, se l'amnistìa verrà a coprire anche i resti di Stava, «i colpevoli del disastro», come li definì nella sua perizia Floriano Calvino, l'indimenticabile geologo alla memoria del quale è dedicato questo libro, saranno la testimonianza vivente del baratro in cui è ormai finita la giustizia nel nostro Paese.

Quella «storia di straordinaria superficialità», quella «storia di ordinaria cinicità», come venne definita da un difensore la vicenda che ha sconvolto la vita di migliaia di persone, diverrà un'ulteriore pagina nera nella storia dell'Italia democratica.

Questo libro vuole essere testimonianza dell'impegno civile di molti professionisti, avvocati e geologi, all'interno del processo. Raccoglie alcuni documenti significativi, le perizie dei consulenti e le arringhe degli avvocati, che fin dai primi giorni si impegnarono nella lunga battaglia giudiziaria, assistendo numerosi superstiti e la loro ansia di Giustizia.

Vennero definiti "alternativi" dalla stampa perché, come raramente accade in un processo di questo genere in Italia, non si posero come obiettivo principale la ricerca del risarcimento del danno, bensì quello dello smascheramento del colpevoli, del ristabilimento della giustizia violata. La loro presenza ha rappresentato la coscienza critica del processo.

Il libro contiene inoltre stralci di due documenti particolarmente significativi: lo studio del prof. Rossi, apparso nel 1979 sulla rivista «L'industria Mineraria» e contenente, fra l'altro, un'analisi critica dei metodi di accrescimento dei bacini di Prestavel e la relazione della Commissione ministeriale, che rappresenta una pesante requisitoria a carico dei responsabili del disastro.

Il libro, attraverso le arringhe degli avvocati di parte civile, dà una visione complessiva ed esauriente della tragedia di Stava. Vengono via via analizzati prima i problemi tecnici e poi le responsabilità dei vari imputati e degli Enti da cui dipendevano. Questo libro vuol essere un contributo per aiutarci - parafrasando Brecht citato da Sandro Canestrini - a 'non trovare naturale, quello che succede ogni giorno'.

Alcuni dei testi che formano questo libro sono la fedele trascrizione degli interventi svolti nel
corso del processo: mantengono per questa ragione lo stile discorsivo usato nelle arringhe.
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LA PERIZIA DI PARTE CIVILE

di Floriano Calvino

I colpevoli del disastro

La colpa della catastrofica alluvione di melma che il 19 luglio 1985 irruppe nella val di Stava, devastandola e uccidendo 269 persone, va ascritta principalmente alle dirigenze centrali, amministrative e tecniche, del settore minerario della Società Montecatini, poi Montedison, e della Società Fluormine: per aver promosso senza adeguato supporto tecnicoscientifico - dando così prova di negligenza, imprudenza, imperizia ed inosservanza delle buone regole - la costruzione nel 1961 del primo e nel 1969 del secondo bacino di decantazione sterili della miniera di Prestavel e la loro sopraelevazione ad altezze rispettivamente di circa 30 e di circa 33 metri, altezza quest'ultima stabilita nel 1975 in base a calcoli errati, ma non raggiunta a causa dell'improvviso rilascio di gran parte del sedimento non consolidato.

L'imputazione va estesa alle competenti autorità minerarie: per non aver assolto al compito istituzionale di assicurare che il deposito del materiale sterile fosse realizzato nel rispetto della sicurezza dei lavoratori e dei terzi.

Le buone regole

Ogni catastrofe industriale provoca l'emanazione di norme tendenti a far sì che non si ripeta.
Perciò, con esplicito richiamo al « disastro minerario » della val di Stava, il 19 marzo 1986 il Ministero dell'Industria Commercio e Artigianato ha impartito temporanee disposizioni agli Ingegneri Capi dei Distretti Minerari in merito ai controlli da svolgere sui bacini di decantazione al servizio di attività minerarie.

In attesa di una specifica normativa, vi viene fatto riferimento alle già vigenti ed avanzate «Norme tecniche riguardanti le indagini sui terreni e 2 sulle rocce, la stabilità dei pendii naturali e delle scarpate, i criteri generali e le prescrizioni per la progettazione, l'esecuzione e il collaudo delle opere di sostegno delle terre e delle opere di fondazione», promulgate con Decreto 27/1/81 dal Ministro dei LL.PP. di concerto con il Ministro dell'Interno e pubblicate sul Supplemento Ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 37 del 7/2/81. Dalle disposizioni e dalle norme tecniche anzidette si può trarre un quadro delle buone regole di condotta che si sarebbero dovute osservare da parte delle società concessionarie e degli organi pubblici di controllo. Le disposizioni obbligano alla presentazione, per l'autorizzazione dell'autorità mineraria, di un progetto dei bacini di nuova costruzione, contenente fra l'altro i risultati di studi geologici, geotecnici, idrologici e, in particolare, indicazioni sui seguenti elementi essenziali: - stabilità dell'insieme manufatto - terreno di fondazione, nelle condizioni corrispondenti alle diverse fasi costruttive e al termine della sua costituzione; - abbattimento e controllo della piezometrica (falda freatica) interna al rilevato; - determinazione delle caratteristiche del materiale da depositare, in varie condizioni di saturazione d'acqua; - calcoli statici per la determinazione del coefficiente di sicurezza, che in nessun caso dovrà essere inferiore a 1,2 per i manufatti in aree pianeggianti ed a 1,3 per quelli ubicati su pendii.


(1) Per bacino stabilizzato si deve intendere quello in cui il drenaggio interno da sedimenti fini (limi) ne ha comportato il consolidamento, cioè il rassodamento per graduale espulsione dell'acqua.
Ben diverso è il rischio connesso alla rottura del bacino, a seconda che questo contenga o meno sedimenti fluidi o facilmente fluidificabili.
L'insistenza delle nuove norme in fatto di piezometrìa, saturazione, stabilizzazione, consistenza è dettata dal maggiore rischio insito nelle masse fluide.

Per i bacini di decantazione già esistenti presso concessioni minerarie in vigore viene istituito un apposito archivio, distinguendo fra bacini in esercizio e fuori esercizio, nonche un registro per l'annotazione dei dati di esercizio e dei risultati delle verifiche, da tenere aggiornato finche il bacino non sia definitivamente stabilizzato, eseguendo eventualmente sondaggi per accertare la consistenza dei limi all'interno della massa dei depositi (1). La documentazione tecnica da presentare comprende fra l'altro:

- relazione sulla natura dei terreni, di quelli impiegati per la costruzione degli argini, sulla natura dei fanghi e sul loro stato presunto o accertato di consistenza;

- calcoli idraulici e statici di progetto;

- piano di ricupero territoriale e di stabilizzazione delle aree utilizzate.

L'ingegner Capo potrà disporre a carico del concessionario prove geotecniche, sondaggi, installazioni di piezometri, perizie. Dovrà curare che vengano eseguiti i lavori di consolidamento e recupero finali. Per i bacini abbandonati compilerà lui la scheda per l'archivio e offrirà ai Prefetti, alle Regioni, alle Province ed ai Comuni la propria collaborazione e consulenza per gli accertamenti sulla stabilità e sicurezza dei rilevati.

Il D.M. cui viene fatto riferimento nelle suddette disposizioni riguarda anche la precisa materia dei bacini di decantazione sterili, nella sezione I, dedicata a discariche e, per l'appunto, colmate. Vi sono stabiliti, già nel 1981 i criteri generali e specifici per il loro progetto, la costruzione ed il collaudo. In linea generale, le scelte di progetto devono sempre essere basate sulla caratterizzazione geotecnica del sottosuolo, ottenuta per mezzo di rilievi, indagini e prove. I calcoli di progetto devono comprendere le verifiche di stabilità, tenendo conto della natura dei terreni presenti nel sottosuolo. I risultati delle indagini, degli studi e dei calcoli geotecnici devono essere esposti in una relazione, che farà parte integrante degli atti progettuali, al pari della relazione geologica. Il collaudo dovrà accertare la rispondenza delle opere eseguite alle previsioni progettuali e quella dell'esecuzione alla normativa, tenendo conto di tutti i dati rilevati nel corso della costruzione.
Ulteriori indagini e prove saranno effettuate nel corso del collaudo, in quanto ritenute necessarie al fine di accertare l'idoneità dell'opera all'uso cui è destinata. In linea specifica, la scelta delle aree da destinare a discarica o colmata va eseguita sulla base di uno studio geologico o geotecnico, nel rispetto degli strumenti urbanistici e delle norme vigenti sulla protezione dei corsi d'acqua, sulla salvaguardia del paesaggio e dell'igiene pubblica. Le discariche e le colmate devono essere realizzate sulla base di un progetto, che ne stabilisca le dimensioni e le modalità di posa in opera, indichi i provvedimenti necessari per la conservazione della stabilità nel tempo, tenendo conto anche della futura destinazione dell'area, esamini la stabilità dell'insieme terreno di fondazione-rilevato, con particolare riguardo alla stabilità dei pendii, e consideri l'influenza sulle opere nei dintorni. Lo studio idraulico dell'area da destinare a discarica o colmata deve prevedere tutte le opere di raccolta e canalizzazione delle acque superficiali e profonde, nonché delle eventuali acque drenate nel tempo dal corpo stesso del rilevato.

Gli specialisti ignorati

L'insieme delle norme tecniche e delle disposizioni attualmente vigenti ci fornisce una precisa cognizione di quanto si sarebbe dovuto fare nelle fasi della progettazione, autorizzazione, costruzione, collaudo e progressiva sopraelevazione dei bacini di decantazione di Prestavel. Sappiamo che, invece, poco o nulla è stato abbozzato fra quanto occorreva porre in essere per rispettare le buone regole dell'arte. In particolare è mancato - ed è passato inosservato agli occhi delle autorità minerarie - il ricorso a specialisti di provata competenza nelle discipline afferenti alle condizioni di sicurezza: geologia, geotecnica, idrologia, costruzioni idrauliche. Soprattutto costruzioni idrauliche, perché, se è vero che i bacini di decantazione non sono dighe, è altrettanto inconfutabile che siano egualmente delle opere idrauliche, non di rado impegnative, di grosse proporzioni e gravide di maggiori rischi a confronto di normali manufatti "asciutti".

A riprova di ciò sta il fatto che la Commissione Internazionale delle Grandi Dighe, con sede a Parigi, si è sentita in dovere di redigere nel 1982 un manuale bilingue di 240 pagine, interamente dedicato all'argomento. Gli specialisti delle varie discipline interessate agli aspetti tecnico-scientifici dei bacini minerari di decantazione sterili esistono da gran tempo in Italia e sono spesso chiamati a prestare la propria opera anche all'estero. Esistevano senz'altro al tempo delle decisioni di realizzare i bacini di Prestavel, come liberi professionisti o come universitari, con proprie associazioni e riviste tecnico-scientifiche. Prima di Stava e specialmente dopo Stava so per certo che molti di essi sono stati chiamati a controllare discariche e colmate in tutto il Paese. Le società concessionarie della miniera di Prestavel, tuttavia, si son volute arrangiare, impegnando semplicemente la scarsa competenza specifica di personale dipendente, tanto per il concepimento e l'avvio degli impianti di decantazione, quanto per il loro esercizio routinario. Il risultato si è visto.

La responsabilità di quanto e accaduto in val di Stava ricade pertanto sui vertici della dirigenza tecnica e amministrativa delle società concessionarie e su chi non ha provveduto a far loro osservare l'irregolarità della loro condotta, benché preposto ad uffici pubblici a tal fini istituiti. L'ingegnere minerario o il perito minerario, direttore o capo servizio della miniera o della laverìa, non potevano assolutamente sommare in sè le competenze specialistiche necessarie. E' vero che il tecnico di miniera è un tuttofare, in genere preparato in ottime scuole italiane ad occuparsi di molti settori dello scibile, più di ogni altro tecnico industriale, ma proprio per questo non è in grado di assolvere a compiti propri del professionista che si dedica interamente alla geologia, alla geotecnica, all'idraulica, eec. Le società industriali di una certa importanza, se alle prese con problemi specialistici non consueti, creano propri uffici-studi o servizi tecnici centralizzati, ma non di rado fanno ugualmente ricorso a consulenti esterni, come di regola è giusto pretendere che facciano le imprese minori. Anche i dirigenti degli organi pubblici di controllo, come il Genio Civile del Corpo delle Miniere, sebbene si tengano costantemente aggiornati sotto il patto tecnico-scientifico, si avvalgono spesso di specialisti privati o ne suggeriscono l'impiego alle imprese. Nel caso dei bacini di Prestavel è purtroppo mancato il necessario supporto tecnico-scientifico, sia da parte degli imprenditori, sia da parte dei competenti Uffici minerari.

Il prof. Rossi e la Montecatini

Come si è comportata la Montecatini nel 1961, allorché si trattò di decidere l'ubicazione e le modalità costruttive del primo bacino? Malgrado fosse la maggiore industria chimica italiana, adusa a giovarsi della collaborazione di ogni tipo di consulente, anche straniero, e una delle principali compagnie minerarie del Paese, si rivolse ad un giovane dipendente della miniera.
Precisamente all'ing. Giovanni Rossi, oggi professore ordinario di tecnologia mineraria nell'Università di Cagliari, e allora trentaduenne capo servizio agli impianti di laverìa di Prestavel. Egli già nel 1957 aveva apprestato il bacino di decantazione della miniera della Montecatini di Fenice Capanne presso Massa Marittima, dopo aver conseguito il Master in Trattamento dei minerali alla 'Colorado School of Mines' di Denver. L'ing. Rossi sarà autore nel 1973 - da professore incaricato di tecnica delle miniere a Cagliari - di un articolo di 37 pagine, apparso nei numeri di ottobre e novembre de «L'Industria Mineraria», dal titolo «I bacini di decantazione dei rifiuti degli impianti di trattamento dei minerali. Aspetti ecologici e tecno-economici del problema», che ne dimostra la competenza maturata dodici anni dopo.
A Prestavel l'ing. Rossi - a quanto disse il 31 luglio 1985 al Procuratore della Repubblica - rimase fino al 31 marzo 1962, a bacino appena avviato, e collaborò all'allestimento delle infrastrutture del bacino sotto la supervisione del direttore della miniera, ing. Custer. In particolare si occupò delle prove di resistenza dei terreni e della preparazione della struttura filtrante di base, in terra e fascine. Le fascine, impiegate anche a Fenice Capanne, vennero ad un certo punto a mancare, per veto della Forestale, e così furono usati anche blocchi di roccia. Partecipò alla stesura del progetto esecutivo, datato aprile 1961, poi consegnato alla ditta Piombo per l'esecuzione dei lavori. La previsione di utilizzo del bacino era di 400.000 metri cubi d'invaso, corrispondente a circa 20 anni di attività della miniera.

Il luogo prescelto era una radura in parte acquitrinosa, donde il nome di Pozzole della località. Secondo l'ing. Rossi, la presenza di pozze d'acqua nell'area del bacino offriva la garanzia dell'impervietà del sottosuolo e quindi dell'impossibilità d'inquinamento della falda freatica sottostante. Il rilevato di materiale filtrante avrebbe drenato l'acqua del deposito, prima che potesse eroderne la scarpata. Nel suo articolo del 1973 il prof. Rossi ammonisce che per la scelta dell'ubicazione di un bacino di decantazione «non sara mai sufficientemente auspicata la collaborazione tra l'ingegnere minerario, l'ingegnere geotecnico ed il geologo». Peccato che, essendogli mancata a Prestavel tale collaborazione - certo non per colpa sua - abbia scelto la località Pozzole, dal sottosuolo ghiaioso, permeabile, con falda freatica saltuariamente affiorante in polle sorgive, cioè tutto il contrario di come lui se l'era immaginata! Con buona pace, comunque, per l'inquinamento paventato, dato che l'effluente veniva scaricato tal quale nel vicino Rio di Stava, donde avrebbe avuto modo di passare egualmente nelle falde idriche sotterranee.

Nel suo articolo il prof. Rossi aggiunge che l'ingegnere geotecnico provvederà ad accertare le condizioni di stabilità delle sponde e delle fondazioni del bacino e che per eseguire i calcoli di stabilita «occorre conoscere la posizione della falda freatica all'interno dell'argine». Peccato che i calcoli statici a Prestavel siano stati affidati - come il prof. Rossi asserisce davanti al Procuratore - all'impresa costruttrice delle infrastrutture, cioè alla ditta dell'ing. Piombo di Bolzano, la cui competenza geotecnica è tutta da dimostrare e la cui presenza in cantiere per sorvegliare la futura falda freatica all'interno dell'argine era comunque inverosimile in partenza.

Nell'articolo su «L'Industria Mineraria» il prof. Rossi riferisce che le prove di resistenza sui terreni consistettero in prove di carico 'in situ' e ne dimostrarono la scarsa resistenza, per cui fu provveduto a realizzare la conduttura delle acque chiarificate con particolari accorgimenti. Va notato che nel giugno 1985 la conduttura si ruppe irrimediabilmente; e dire che erano stati collocati nei bacini solo i 3/4 del materiale preventivato nel 1961!
La stravagante idea di costruire il nucleo filtrante del bacino, che dovrà sopportare le spinte dovute alle successive sopraelevazioni arginali, usando un materiale di effimera saldezza come le putrescibili fascine - metodi di cui il prof. Rossi sostiene la bontà anche nel suo articolo del 1973 - fa dubitare che tra gli aspetti tecnici del problema gli sia mai venuta in mente anche la stabilità a medio termine dell'intero impianto di decantazione!

Il sito di Pozzole

Da quanto finora detto si evince che nel 1961 fu prescelto un sito per il primo bacino - condizionando cosi anche l'ubicazione del secondo - di caratteristiche assolutamente inadeguate, senza far nulla per correggere almeno in parte tali caratteristiche. Il terreno di fondazione era permeabile ed acquifero fino a livello della superficie, quindi in grado di contenere acqua, che il rilevato, addossandosi i suoi fanghi al pendio naturale, avrebbe contribuito a mettere in pressione. Il terreno di fondazione era molle in alcuni punti e causa di cedimenti differenziali, anche lungo l'appoggio della pericolosa condotta delle acque chiarificate, sepolta sotto il rilevato. Il terreno era in pendenza, e quindi tale da richiedere un margine di sicurezza più ampio rispetto al terreno in piano, in quanto più rischioso.
Il terreno dominava un corso d'acqua, delle strade, numerose abitazioni ed i primi insediamenti turistici. Questi, in caso di collasso delle arginature del bacino, sarebbero stati investiti da un'alluvione di melma. Il prof. Rossi conosceva questo rischio - e con lui altri della Montecatini - avendo constatato a Fenice Capanne che «nel 1962, vale a dire cinque anni dall'inizio dell'invaso, a sei metri di profondità il sedimento aveva ancora la consistenza di una sabbia mobile». Aveva quell'inconsistenza - occorre aggiungere - perché i bacini targati Rossi erano viziati da insufficiente capacità di consolidamento per trascurato abbattimento della falda interna!

La Montedison

A dispetto di tanto infelici premesse, nel 1969, con la miniera affidata alia direzione dell'ing. Fiorini, la Montedison - nata nel 1967 dalla nota fusione - decise la costruzione del secondo bacino, fondandolo in parte sulla "sabbia mobile" (eufemismo per melma) del primo bacino. Non è da credere che si facesse assegnamento sul consolidamento di tale melma per graduale, seppur tardivo prosciugamento per drenaggio. Infatti, il primo bacino fu conservato attivo, come luogo di ulteriore decantazione delle acque sfiorate dal secondo, cioè fu mantenuto costantemente coperto da uno specchio d'acqua e pertanto fu sede di continua infiltrazione Per questa ragione nel 1985 proruppero anche dal primo bacino melme ivi depositate da almeno 16 anni (!) in condizioni di consolidamento impedito.

La progettazione del secondo bacino fu anch'essa «fatta in casa»; si direbbe che sia stato creato a immagine e somiglianza del primo, per imitazione artigiana, seguendo istruzioni puramente orali, visto che non è stato reperito alcun documento scritto o grafico che avesse la parvenza di un''espressione di intenti costruttivi.

L'ing. Ghirardini e la Fluormine

Bisogna arrivare al 1975, cioè 6 anni dopo l'entrata in esercizio del secondo bacino, con la concessione già passata alla Fluormine e la direzione della miniera affidata all'ing. Morandi, per ottenere una relazione tecnica di carattere progettuale.

La relazione d'altra parte non era una manifestazione di improvviso scrupolo tecnico-scientifico espressa 'motu proprio' dalla nuova concessionaria. Per vero si era resa necessaria in quanto, alla domanda avanzata il 12 giugno 1974 dalla Fluormine di occupare ulteriore terreno boschivo con il bacino, il Comune di Tésero, preoccupato aveva chiesto in data 1 agosto 1974 un parere all'Assessorato Industria della Provincia autonoma di Trento, provocando così la richiesta del 13 agosto 1974 da parte del Distretto Minerario, afferente allo stesso Assessorato, di uno studio sulle condizioni di stabilità presenti e future del bacino.

Oltre un anno dopo, il 27 ottobre 1975 la Fluormine mandava al Distretto Minerario lo studio dal titolo «Ampliamento bacini di decantazione. Relazione tecnica».

Per la raccolta degli elementi progettuali e per i calcoli di stabilità la Fluormine non ha fatto ricorso a professionisti di provata competenza e specializzazione, bensì ancora una volta, al pari della Montecatini nel 1961 e della Montedison nel 1969, al personale impiegato presso la miniera, questa volta con la collaborazione - che non sarebbe affatto esatto chiamare esterna - dell'ing. Antonio Ghirardini.

L'ing. Ghirardini - interrogato dal Procuratore della Repubblica il 4 settembre 1985 - era stato per 33 anni alla sede di Milano della Montecatini, dove seguiva la progettazione di impianti idroelettrici che, com'è noto, la società affidava a studi professionali esterni. Da poco più di un anno era alle dipendenze della società 'Solmine' del gruppo EGAM, dove si occupava della progettazione di "infrastrutture" non meglio specificate.

Fu incaricato nel giugno 1975 dall'amministratore delegate della 'Solmine e della Fluormine, cariche riunite nella persona dell'ing. Bonetti, di redigere insieme ai tecnici della miniera ed al direttore generale della Fluormine, ing. Toscana, uno studio di fattibilità del sovralzo del secondo bacino.

L'ing. Ghirardini si è dichiarato estraneo a quel particolare campo, ma competente in fatto di stabilità dei rilevati in terra. La cosa pare tuttavia discutibile, almeno dal punto di vista tecnico-scientifico, ciò non toglie che effettivamente avesse una certa pratica empirica in materia di rilevati non idraulici, per esempio stradali. Fatto sta che, recatosi a Prestavel, redige una nota in cui dice che la scarpata del bacino presenta inclinazioni veramente eccezionali e che la sua stabilità è al limite. Suggerisce campionature, prove, ricerca della falda, esame analitico e comparative delle risorgive esterne (lui le aveva viste). Ritiene indispensabile un addolcimento della scarpata, dai 40 gradi attuali a non più di 32-35 gradi.

Delle indagini richieste viene fatto ben poco. In particolare, non viene eseguita alcuna attendibile verifica della consistenza dei sedimenti di fondazione del secondo bacino, appartenenti al primo, né alcuna prova geotecnica per accertare le caratteristiche dei materiali fini interessati dal più profondo dei due cerchi di scorrimento analizzati, cui viene attribuito arbitrariamente un angolo d'attrito di 30 gradi; quanto alla falda interna al rilevato, si finisce per assumere che addirittura non esista!

I calcoli di stabilità, con tali premesse, danno risultati apparentemente positivi, anche se i coefficienti di sicurezza dichiarati (1,14 e 1,26) oggi non sarebbero considerati accettabili e, come presto vedremo, non lo erano neppure all'epoca.

Va intanto osservato che lo "specialista" Ghirardini, che si riconosce autore di quei calcoli, era così competente in geotecnica da non aver considerato cerchi di scorrimento veramente critici, cioè dotati dei minimi coefficienti di sicurezza, come prescritto dal più elementare dei trattati o manuali.

I suoi calcoli, che avrebbero dovuto costituire la base per il placet geotecnico ad un'elevazione del bacino fino a quota 1491 (fittizia), cioè ad altri 14 metri di sopraelevazione, rifatti ora dai periti di parte Prealpi Mineraria in una memoria del novembre 1985, rivelano un coefficiente di sicurezza inferiore all'unità, e precisamente di 0,95! Il rilevato denunciava pertanto un'assoluta insicurezza.

Va inoltre tenuto presente che è falsa l'affermazione contenuta a pag. 8 della citata relazione tecnica, secondo la quale il valore del coefficiente di sicurezza da adottare «può oscillare tra 1,1 e 1,2», come appare dalla fotocopia della tabella annessa allo studio di I. D. Vincent, Direttore del settore ricerche e sviluppo della società del Molibdeno del Colorado, (The tailing structure and its characteristics from the metallugist's view points), pubblicato recentemente negli atti del Congresso di Tucson - Arizona».

Infatti la tabella è tratta invece dallo studio di C. O. Brawner & D. B. Campbell della "Golder, Brawner & Associates Ltd." di Vancouver, Canada (The tailing structure and its characteristics. A soils engineer's viewpoint), pubblicato negli atti del medesimo congresso. Ma, a parte l'incredibile scambio tra metallurgista e geotecnico, che dimostra scarsa attenzione, la tabella dice chiaramente, anche isolata dal suo contesto, cose ben diverse da quelle che vi hanno letto i distratti estensori della relazione tecnica. Per vero, la tabella stabilisce che il valore minimo del coefficiente di sicurezza da adottare nel caso di Prestavel è di 1,5, perché il calcolo è stato basato (casomai) sui parametri di picco della resistenza al taglio (angolo d'attrito) e perché la situazione locale lascia prevedere che persone e beni sarebbero danneggiati dalla rottura del bacino.

L'ingegner Dossi

Col senno di poi - qualcuno direbbe - è stato purtroppo dimostrato che già nel 1975 i bacini di Prestavel erano in condizioni di insicurezza. Nessuna meraviglia, dunque, che dopo aver dato segni premonitori di cedimento (rottura di tubazioni), il rilevato sia giunto a completo collasso nel corso dell'ultima sopraelevazione di un metro e mezzo.

La pericolosità dei bacini tuttavia non emerse in tutta la sua minacciosa realtà, perche il direttore generale e l'amministratore delegato della Fluormine avevano affidato il richiesto studio a persona incompetente tratta dai propri uffici, anziché rivolgersi a specialisti, per esempio in geotecnica od in costruzioni idrauliche.

La colpa va attribuita anche a chi approvò acriticamente quella relazione tecnica non firmata, senza aver avuto modo di conoscerne e valutarne gli autori e senza aver esperito un minimo di riscontri sulla rispondenza dei dati di laboratorio allegati ai parametri assunti nei calcoli, cosa che gli avrebbe permesso di rilevare l'arbitrarietà dei 30 gradi di angolo d'attrito. Quanto meno, una lettura attenta della relazione avrebbe svelato la mancata ricerca del cerchio critico e l'assunzione di limiti di sicurezza in netto disaccordo con l'esibita citazione bibliografica.

Tale fu la condotta del Reggente il Distretto Minerario di Trento, ing. Aldo Currò Dossi, che 10 giorni dopo l'invio della relazione tecnica Fluormine, il 7 novembre 1975 diede al Comune di Tesero parere favorevole all'ampliamento dei bacini.

Ancora le buone regole

Il discorso sul senno di poi è fuori luogo. Gli errori e le omissioni contenuti nella relazione tecnica della Fluormine vanno riferiti a cognizioni ben diffuse anche a quel tempo nell'ambiente minerario, almeno in senso qualitativo e metodologico (si veda l'articolo del prof. Rossi del 1973 sulla rivista della categoria) e certamente note anche alla data di inizio della formazione di quei bacini di decantazione.

Ma se vogliamo fissare la nostra accusa ad un testo tecnico ben preciso, che sicuramente era passato per le mani o dell'ing. Ghirardini, o dell'ing. Toscana, o dell'ing. Morandi, coautori della relazione, ci possiamo limitare al citato articolo di Brawner & Campbell, che si deve supporre che uno almeno di loro abbia letto, visto che ne ha estratto e utilizzato - seppure a sproposito - la famosa tabella dei coefficienti di sicurezza.

Se non ne avessero fatto uso, dimostrando così di conoscerlo, li si potrebbe accusare di insipienza; ma, dato che hanno conosciuto quell'articolo e potuto così confrontare le prescrizioni di specialisti con la realtà progettuale e gestionale dei bacini di Prestavel, allora il nostro giudizio deve essere ben più severo.

In allegato è accluso il testo completo della pubblicazione di Brawner & Campbell. Bastano poche citazioni da essa tratte per legittimare la domanda: possibile che alla Fluormine non si fossero mai chiesti, leggendola, cosa stessero preparando a Prestavel?

«I bacini di decantazione devono esser progettati per rimanere stabili durante la costruzione e per molte generazioni avvenire».

«In considerazione della rottura di molti bacini nel passato e della crescente altezza da raggiungere, il progetto delle nuove strutture deve basarsi su sani principi d'ingegneria e non su regole empiriche obsolete».

«Col metodo 'a monte', come l'altezza del bacino aumenta, la superficie potenziale di scorrimento si porta a sempre maggiore distanza dalla scarpata esterna e all'interno delle melme. Come risultato si ha che l'argine esterno contribuisce sempre di meno alla stabilità, al crescere dell'altezza. Il coefficiente di sicurezza, allora, si riduce all'unità e a quel punto il bacino si rompe».

«La massima pendenza accettabile della scarpata dipende dalla resistenza al taglio del materiale sterile e/o della fondazione, dalla densità del materiale, dall'altezza del rilevato e dalla distribuzione delle pressioni dell'acqua».

«Noti la sezione del bacino, il metodo di costruzione, le proprieta dei sedimenti e delle fondazioni, si fa l'analisi per stabilirne quantitativamente la stabilità. Numerose superfici di rottura vengono analizzate. Quella che dà il coefficiente di sicurezza più basso rappresenta il coefficiente di sicurezza delle scarpate o di scarpata e fondazione insieme».

«Una delle decisioni più importanti è la scelta del coefficiente di sicurezza da adottare. I seguenti valori sono stati consigliati in una Guida preliminare al progetto di discariche minerarie in Canada (1972). Si assume che l'analisi di stabilità abbia individuato la superficie di rottura critica e che i parametri usati nell'analisi siano noti con ragionevole certezza di essere rappresentativi delle effettive condizioni esistenti nel rilevato».

Segue la nota tabella, allegata alla relazione tecnica della Fluormine:


Minimi coefficienti di sicurezza di progetto consigliati
Caso 1 (*)Caso 2 (**)
- Progetto basato su parametri della resistenza al taglio di picco1,51,3
- Progetto basato su parametri della resistenza al taglio residua1,31,2
- Se le analisi contengono le accelerazioni sismiche previste per un dato periodo di ritorno, applicate alla potenziale massa di distacco1,21,1
- Per scorrimento orizzontale sulla base del rilevato in zona sismica, assunta la resistenza al taglio dei sedimenti ridotti a zero1,31,3
(*) Caso 1 - Località dove è prevedibile che persone o beni sarebbero danneggiati in caso di rottura del bacino.

(**) Caso 2 - Località dove è prevedibile che persone o beni non sarebbero danneggiati in caso di rottura del bacino.


Conclusioni

Da quanto esposto si traggono precise conclusioni di ordine giudiziario.

Nel 1961 la Montecatini stabilì incancellabili premesse alia catastrofe della val di Stava, iniziando la costruzione del primo bacino di decantazione sterili in luogo inadatto e rischioso e proseguendola con modalità pericolose e fissate empiricamente e successivamente replicate nella costruzione da parte della Montedison e della Fluormine del secondo bacino, sovrapposto al primo.

   Nel 1975 la Fluormine, pur avendo avuto occasione e motivo di sottoporre finalmente ad un serio controllo la stabilità dell'intero impianto di decantazione - grazie all'unico doveroso intervento compiuto in 24 anni dall'autorità mineraria, perché attivata dal Comune di Tesero - ha continuato peraltro ad eludere le regole dell'arte, frattanto consolidatesi nella letteratura tecnico-scientifica e nella pratica degli specialisti, ed a perseguire un indirizzo progettuale errato, che non poteva concludersi altrimenti se non con la rottura dei bacini e la fuoruscita di un'enorme massa melmosa il cui consolidamento nel corso del tempo era stato impedito da erronee modalità gestionali, in assenza degli indispensabili dispositivi di controllo e nell'indifferenza degli organi pubblici.

   Dalla Società Prealpi Mineraria, subentrata nel 1982 nella conduzione dei bacini dopo tre anni di sosta, non ci si poteva attendere altro che un comportamento imitativo di quello tenuto dalle maggiori società che l'avevano preceduta, considerati anche il limitato livello professionale della sua dirigenza e l'assenza di stimoli da parte degli organi di controllo pubblico a migliorare, con l'interessamento di consulenti esterni, le condizioni di sicurezza dei bacini.

   Il concorso della Prealpi Mineraria nella colpa della catastrofe di Stava appare pertanto più sfumato dal punto di vista tecnico-scientifico, ancorché la società abbia detenuto la responsabilità dei bacini negli ultimi quattro anni di esercizio, decisivi ma predeterminati.


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Oggi questo farlocco e osceno «Monumento/sacrario» in località S. Martino di Fortogna riproduce fedelmente in pianta e in miniatura, come un parco "Italia" di Viserbella di Rimini, il campo "B" del lager nazista di Auschwitz/Birkenau. Fantastico, no? ed e' la verita' verificabile ma se solo ti azzardi a dirlo o far notare le coincidenze, sono guai. $eri. Perché... qui in Italia, e soprattutto in luoghi di metàstasi sociale e interessi inconfessabili come la Longarone 'babba' ... «la Verità si può anche dire. Ma però che non ci sia nessuno che l'ascolti (o legga!)»

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Ma tutto deve andare come da copione, in Longar-Corleone. Dal dicembre del 1964 qui è così: lo mise nero su bianco gente colle spalle ben più larghe delle mie, e in tempi non sospetti:

«E' quasi come in Sicilia, mi creda; a Longarone si configurano gli elementi tipici della mafia. Non è questione di partito 'A', o 'B'; c'è un determinato giro fatto di poche persone all'interno del quale non entra nessuno. Il potere è in mano a costoro, cinque o sei persone a Longarone, e poi qualche diramazione fuori, cioè altre persone nei posti giusti, perché un sistema del genere non può sopravvivere se non c'è corruzione».
Fonte: Giampaolo Pansa, sul Corriere della Sera del 9 ottobre 1973; sta riportato sul libro della Lucia Vastano. LIBRO CONSIGLIATISSIMO.

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