IL VAJONT E LE RESPONSABILITA' DEI MANAGER
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Armando Gervasoni

IL VAJONT E LE RESPONSABILITÀ DEI MANAGER

Prefazione del Dr. Mario Fabbri,
giudice istruttore presso il Tribunale di Belluno



Vajont che vai, cricca Paniz che trovi
Dalla quarta di copertina: 9 ottobre 1963: una valanga di 50 milioni di metri cubi d'acqua si riversa dalla diga del Vajont sulla vallata di Longarone, causando la morte di 1.899 persone - 25 novembre 1968: dopo una fase istruttoria durata quattro anni, si apre a L'Aquila il processo contro i responsabili della strage: anche se a sedere sul banco degli imputati sono soltanto pochi tecnici, è un'intera classe dirigente a venir posta sotto accusa.

Gervasoni sapeva molte cose del Vajont. Nel 1963, prima del disastro, aveva quasi condotto a termine un romanzo ambientato in quei luoghi e in cui l'oppressiva presenza della diga, i tentennamenti degli elettrici della Sade e il senso di un'imminente catastrofe rivestivano i ruoli fondamentali. Poi la tragedia. Il romanzo rimane nel cassetto.
Gervasoni scrive, con rabbia indicibile, in un gioco impietoso di incastri e di denunce, raccogliendo testimonianze e facendosi testimone egli stesso, anzi inquisitore, un nuovo libro che appare soltanto nel '67 e che resta un documento unico nel suo crudo realismo, nella sua amara fierezza, nella sua sofferta autenticità.

Il libro - pubblicato con il titolo "Le ombre di Erto e Casso" - viene qui riproposto come seconda parte del presente volume. Ma nel frattempo si è aperta l'inchiesta, l'opinione pubblica vuol sapere di più, inizia la fase istruttoria del processo ai responsabili. E sulle «responsabilità dei manager» Gervasoni - con acume giornalistico che trascende persino l'evidenza dei fatti e diventa formidabile intuito - può dire la sua. Nasce così la prima parte del volume: un serrato, incalzante, documentato atto d'accusa contro una certa classe dirigente, i suoi metodi, la sua «spregiudicatezza».

Il libro che, nella sua composita unità, ne risulta, è un libro da leggere e meditare, se non vogliamo che in avvenire - in nome del progresso tecnico, dell'esigenza produttiva, del profitto di pochi o di molti - i nostri stessi figli siano testimoni e vittime di analoghe tragedie: se non vogliamo, soprattutto, che essi si trovino improvvisamente soffocati dal fango senza sapere questi e molti altri «perché».

ARMANDO GERVASONI, nato a Vicenza nel 1933 e tragicamente scomparso il 17 novembre 1968, giornalista professionista, iniziò a collaborare, giovanissimo, a «Il Mondo». Dal '63 era redattore de «Il Gazzettino» di Venezia.

Lire milleduecento



La parte del volume qui intitolata Le responsabilità del manager ci è stata consegnata dall'Autore pochi giorni prima della sua tragica scomparsa. Viene pertanto pubblicata integralmente, senza modifiche o correzioni, nella sua prima stesura.

L'EDITORE



1.

A distanza di un anno e mezzo dalla pubblicazione di "Le ombre di Erto e Casso", esaurita la prima edizione, mi sono chiesto se il libro meritasse o meno una ristampa. Gli amici mi sollecitavano. Esisteva ed esiste una certa richiesta, per cui il fatto si giustificava sul piano editoriale.

Ma il discorso, per me, era un altro. E cioè: quel libro, con la sentenza di Fabbri e la requisitoria di Mandarino, con la celebrazione del processo del Vajont, non aveva, in effetti, raggiunto il suo scopo? Alcune conclusioni che in esso appaiono, non potrebbero risultare in contraddizione con i fatti successivi? E quella descrizione d'ambiente, quel rifuggire dal saggio e dal romanzo a un tempo stesso per entrare, più che nei fatti, nelle situazioni di ordine psicologico e morale dovute al disastro, situazioni fatalmente in movimento per la loro stessa natura; tutto questo non finiva con il limitare la funzione del libro a quel momento - il dicembre del 1965: due anni e due mesi dopo il disastro - esaurita e assorbita, se vogliamo, poi, dal fatto che talune ipotesi di responsabilità, formulate a quel tempo con senso di impotenza e di intima disperazione, sono state invece recepite e fatte proprie dal procuratore della Repubblica dott. Mandarino e dal giudice istruttore dott. Fabbri nelle sentenze ormai storiche che hanno portato al processo, quando oramai nessuno ci contava più?

E allora? Quale significato poteva avere il riproporre un lavoro che sta a mezzo tra la saggistica e la narrativa, quando i fini per i quali esso era stato scritto s'erano per via autonoma autoimposti in misura superiore ad ogni speranza?

Bisogna tornare per un momento al dicembre del 1965 per rendersi conto di alcuni perché. Era passato appena un mese dal discorso angoscioso del sindaco di Longarone Protti, in occasione del secondo anniversario. Lotteremo contro tutti, egli disse in sostanza. «Potentissime forze si muovono contro di noi, Abbiamo cercato per tutti gli Atenei e non abbiamo trovato un docente, uno solo, disposto a redigere la perizia di parte per conto del Comune. Eppure lotteremo fino in fondo, con tutte le nostre forze.»

Questo diceva Protti nell'ottobre del 1965, in un'atmosfera di generale sconforto e rassegnazione. La perizia della commissione di geologi presieduta da Michele Gortani e comprendente Ardito Desio, Joos Cadisch, Bruno Gentilini, Giulio De Marchi, Carlo Morelli, Francesco Ramponi, Duilio Citrini, si era da poco espressa in senso sostanzialmente negativo nei riguardi delle maggiori ipotesi di responsabilità formulate in quell'arco di tempo, e togliendo armi alla Magistratura e in particolar modo a Mario Fabbri, giudice istruttore. A quel punto, dunque, sperare ancora nella giustizia umana sembrava una autentica follìa.

"Le ombre di Erto e Casso", il libro oggi riproposto all'attenzione del lettore, è nato in questo clima psicologico e morale. Il disfacimento degli animi, oramai dimessi, della più gran parte dei superstiti e dei parenti beneficiari, il grande giro di interessi determinatosi intorno alla tragedia del Vajont, lasciavano intendere che tutto era ormai perduto e che ogni possibilità di affrontare le 'forze coalizzate' di cui parlava così esplicitamente il sindaco Protti era affidata esclusivamente all'impegno di pochi tra i non rassegnati per i quali il problema della giustizia veniva ormai a coincidere non più con la possibilità o meno di portare davanti a un'aula giudiziaria alcune persone fisiche, bensì con la ferma determinazione di trasferire al tribunale della Storia una classe politica che aveva permesso la formulazione della relazione della commissione parlamentare d'inchiesta Rubinacci, sia pure con il solo voto di maggioranza, e una classe economica che ha giuocato fino all'ultimo la carta della sopraffazione.

2.

In tutto questo i tecnici hanno giuocato un ruolo non da protagonisti, come sarebbe stato logico attendersi, ma da comprimari. A mano a mano che mutavano gli orientamenti, che talune impostazioni di fondo prevalevano sulle altre, i loro pareri sono sempre andati mutando, prima e dopo la catastrofe. Coincidenze, senz'altro: ma che hanno il loro peso. Contrariamente a quanto oramai si temeva, Mandarino e Fabbri ce l'hanno fatta, a prezzo di sacrifici e difficoltà inenarrabili, a rinviare a giudizio nove persone. Il processo del Vajont, pertanto, si farà. Sarà uno dei più grandi processi del dopoguerra, ed è un grandissimo risultato. Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta, Luigi Greco, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin, Augusto Ghetti. Penta e Greco sono morti.1

Chi sono costoro? Biadene e Pancini sono stati i massimi responsabili tecnici della Sade prima, e dell'Enel subito dopo la nazionalizzazione. Frosini il presidente della Quarta sezione del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, che avrebbe dovuto vigilare, è membro della commissione di collaudo, come del resto Sensidoni, ispettore generale del Genio Civile presso il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici. Batini fu invece presidente della Quarta sezione del Consiglio superiore dei Lavori Pubblici dopo Frosini. Penta e Greco: il primo, esperto e membro della commissione di collaudo; il secondo, presidente della commissione stessa. Violin, capo del Genio Civile di Belluno al tempo della catastrofe. Tonini consulente della Sade e dirigente dell'ufficio studi della medesima. Marin direttore generale della Sade, prima, dell'Enel, dopo. Ghetti direttore della facolta di ingegneria della Università di Padova e consulente della Sade.

Sono tutti tecnici, dunque. Il processo del Vajont avra come protagonisti i tecnici, sul banco degli imputati. Per essi si paria di imperizia, imprudenza, negligenza, di previsione dell'evento. Non si paria di servilismo. Eppure per fare del processo del Vajont qualcosa in grado di illuminare permanentemente alcuni dolorosi aspetti della nostra storia contemporanea, sarà necessario usare molto più spesso questa parola. (1) Il 24 novembre 1968, alla vigilia del processo, l'ing. Pancini si toglierà la vita. Gli imputati restano in otto. (N.d.R.)


3.

Ricordo dieci anni fa la polemica sul bradisismo nel Delta Padano per avere effettuato, a quel tempo, una serie di articoli per «Il Mondo». Ernesto Rossi, che mi è stato maestro di giornalismo, mi raccomandava: «Guardati dai tecnici che lavorano su commissione. Non perdere mai di vista per chi essi lavorano. Sono prestatori d'opera come tutti gli altri: possono dimostrare tutto e il contrario di tutto».

Aveva, naturalmente, ragione, e infatti nelle sue polemiche entrate oramai nella leggenda del giornalismo italiano degli anni Cinquanta, egli ha sempre alzato il tiro al di sopra delle loro teste, spingendo sempre la sua indagine alla costante ricerca dei mandatari, dei beneficiari. Il suo bersaglio è sempre stato soprattutto il monopolio, in tutte le sue espressioni. Così i saccarieri, così gli elettrici. Da buon einaudiano egli ha sempre sostenuto che non la proprietà, ma il monopolio è un furto. La definizione dei «controllori controllati» è sua. Ricordo perfettamente una sua frase:

«Gira e rigira, gli Azzeccagarbugli te li ritroverai sempre alla mensa di don Rodrigo».
M'è venuta a mente quella frase quando il sindaco Protti ha messo in crisi un poco tutti con il suo discorso il 9 di ottobre del 1965: "Abbiamo girato per tutti gli Atenei e ci siamo visti chiudere le porte in faccia". No, in queste condizioni chiedere non si dice giustizia, ma almeno chiarezza sui fatti del Vajont sembrava pretesa davvero assurda.

Il ricordo, infatti, era chiaro in me. Quando il Delta Padano, per i fatti alluvionali del 1960, era al centro delle attenzioni, si sono costituite subito due categorie, in fierissimo contrasto tra di loro: gli agricoltori e lavoratori della terra in genere, e i metanieri.

E' necessario spendere qualche parola per spiegare la questione. Una ventina di anni fa, in tutta la fascia del Delta, ma anche nel medio e perfino nell'alto Polesine, si scopre il metano, fonte di ricchezza, naturalmente. Alcuni agricoltori diventano metanieri, altri privati costruiscono centrali con estrazione del metano in emulsione, misto ad acqua vale a dire. In un volgere breve di anni, piccole centrali di metano si moltiplicano al punto di alterare lo stesso panorama del Delta Padano. Ed il terreno comincia a sprofondare.

Sembrerebbe lapalissiano. Se da quando si estrae metano si hanno alluvioni; se vi sono sprofondamenti che in talune zone raggiungono perfino quote di trentacinque centimetri all'anno, è possibile negare una correlazione tra l'estrazione del metano (e dell'acqua, soprattutto) e il costipamento del suolo? È possibile contestare che tutto questo è dovuto al prosciugamento sistematico delle falde freatiche?

A posteriori, sicuramente no. Ed era infatti la tesi degli agricoltori (almeno quelli non direttamente interessati nell'estrazione del metano) i quali, nelle persone di tali Siviero e Dolfìn, sostenevano che il metano rappresentava la morte per il Delta, condannato sempre più ad essere soggetto alle alluvioni e alle mareggiate, come la storia recente dal 1951 in poi andava dimostrando. Una tesi empirica finché si vuole, ma di inequivocabile efficacia.

Eppure non c'è stato un cane disposto a sostenerla. Gli agricoltori avevano ragione: ma, come direbbe il Manzoni, non sapevano il latino. I metanieri invece si sono prontamente organizzati. Il loro presidente, l'avvocato padovano Bruno Saccomani, uomo dotato di straordinarie qualità, ha creato un consorzio che era, in sè, un piccolo monopolio. Con fondi notevoli a disposizione, ha contrapposto alle teorie, giuste finché si vuole, ma approssimative, dei vari Siviero e Dolfìn (i leader del movimento antimetano), una azione coordinata ai vari livelli, che per alcuni anni ha tenuto in scacco gli agrari polesani e i loro alleati locali, per niente all'altezza della situazione nonostante che tutti gli elementi giuocassero a loro favore.

Saccomani, con grande tempestività, con un piano di studio e di lavoro ha bloccato le categorie contrapposte da un lato, e gli organismi burocratici dall'altro. Protagonisti, una volta di più, di tutto ciò sono stati i tecnici: geologi, geofisici, geodeti, idraulici di profondità, idraulici di superficie. Alle parole degli agrari essi hanno, in breve, contrapposto, attraverso picchetti, sonde, rilievi piezometrici, tutta una serie di dati secondo i quali non esisteva correlazione alcuna tra il fenomeno bradisismico (che essi definivano di costipamento naturale del suolo) e l'estrazione del metano in emulsione. E non essendoci correlazione, perché mai si sarebbe dovuti intervenire contro una attività economica che dava lavoro a quel tempo a circa cinquemila addetti in tutto il territorio polesano, notoriamente considerato tra i più depressi d'ltalia? Per rendere più convincente la loro tesi hanno perfino chiamato in causa il delta del Mississippi. I vari Ponzio Pilato della situazione, vale a dire il Magistrato del Po nella persona dell'ingegner Pavanello presidente, e il Consiglio superiore dei Lavori Pubblici, con il suo presidente ingegner Padoan, non potendo disporre di propri mezzi tecnici e finanziari onde effettuare rilievi tali da controdedurre, per le questioni ormai arcinote e che nel caso del Vajont hanno avuto la più clamorosa delle conferme, non hanno potuto non convalidare studi effettuati da tecnici ed esperti di fama internazionale quali, tanto per non fare nomi, lo stesso professore Giorgio Dal Piaz.

4.

A questo punto consentitemi di inserire brevemente nella complessa storia la mia vicenda personale, che non è brillante. Non ho ascoltato i consigli di Ernesto Rossi. Nella mia indagine ho dato credito a quella che mi sembrava la versione più qualificata, e che si fregiava dei nomi di Giarratana, Agostino Puppo, Raimondo Selli, se la memoria non mi tradisce, per non dire della lettera aulica di Giorgio Dal Piaz con la quale era bollato d'imbecillità, o giu di lì, chiunque avesse osato pensare che «togliendo una goccia d'acqua dall'oceano, questi si sarebbe abbassato», come a dire che il costipamento del Delta poteva avere mille cause, tranne quella dell'estrazione dell'acqua dalle falde freatiche.

Diciamolo pure fuori di metafora: ci sono caduto come un merlo. Dimenticata per un attimo la figura mistica di Ernesto Rossi, mi sono trovato davanti, al primo piano del numero uno di Corso del Popolo, quella asciutta e tesa di Agostino Puppo, titolare - se non vado errato - di una cattedra di oceanografìa. Di fronte a molte carte con molti segni, dopo avermi fornito alcune notizie e fatto taluni raffronti, mi ha guardato intensamente e ha detto una frase che poi, proprio in occasione dei fatti del Vajont, mi è tornata alla mente una infinità di volte: «Ma lei può davvero credere che noi si voglia essere la causa dello sprofondamento di una regione?».

Non l'ho creduto. Non lo credo, per la verità, nemmeno adesso. Ma l'ira di Mario Pannunzio, direttore del «Mondo», è un'altra delle cose che non dimenticherò mai. Ti sei fatto prendere per il naso, aveva tutta l'aria di dire quell'uomo alto e massiccio cui tanto deve la cultura italiana. Ernesto Rossi, poi, non mi ha nemmeno degnato di uno sguardo. Una vera doccia scozzese, poiché l'articolo (fatto davvero strabiliante per un neofita quale in effetti ero) me l'avevano pubblicato in prima pagina.

Quanta ragione avevano, accidenti! E quanto mi sono dato dell'imbecille, dopo! Nell'autunno del 1960 è venuta la grande rotta di Scardovari e quella di Cà Riva, sul Po di Goro. Tutta la penisola di Cà Lattis e parte dell'Isola di Ariano, da Taglio di Po ad Ariano Polesine, sono rimaste allagate. Dopo se ne sono viste perfino di peggio, purtroppo, leggi 'novembre 1966': ma a quel tempo una simile desolazione trovava riscontro soltanto nella grande alluvione del 1951.

Si è subito determinato un movimento di opinione che ha, come si suol dire, tagliato la testa al toro. Colpa o non colpa, studi o non studi, ministeri o non ministeri, le centrali di metano hanno da scomparire. Qualcuna è stata fatta saltare dalla popolazione inferocita. Poi il ministro dei Lavori Pubblici di quell'epoca, Benigno Zaccagnini, per effetto di varie pressioni, ha deciso prima in via sperimentale la chiusura di alcune di coteste centrali, quindi, in via definitiva, l'eliminazione di questa attività dal Delta Padano.

La soluzione draconiana ha evitato, probabilmente, guai peggiori. Da allora il movimento bradisismico si e sostanzialmente arrestato. Il piccolo monopolio dei metanieri si è dissolto. Saccomani si è dato ad altre attività. Dei tecnici che si sono occupati della materia, almeno nella fattispecie, non si e più sentito parlare.

5.

Saltiamo dieci anni e arriviamo a qualche mese fa. Ci si trova a Villa Condulmèr una sera d'estate con Carlo Lissandrano in un testa a testa piuttosto impegnativo. Lissandrano è il capo della divisione 'Contratti e Lavoro' della Montecatini Edison e consociate varie: il numero tre di quell'enorme complesso dopo Valerio e Macerata.
E' un uomo minuto, sui trentacinque anni, apparentemente svagato, ma nella realtà attento a tutte le sfumature del discorso. Io mi occupo, in campo giornalistico, di problemi del mondo del lavoro. A Porto Marghera le industrie sono per il novanta per cento 'Montedison', problemi ce ne sono tanti che la metà basterebbe; incontri come questo, pertanto, finiscono con il rientrare in un normale programma di lavoro, per uno scambio reciproco di informazioni e di opinioni.

Ma ecco che il discorso a mano a mano si sposta, fino a diventare politico. Lissandrano, a quanto mi consta, se non viene dalla gavetta poco ci manca. Il monopolio diventa l'oggetto della nostra conversazione, e poiché non ho mai tralasciato d'essere un radicale convinto, non ho avuto esitazioni nel sottolineare la pericolosità che, a mio modo di vedere, è rappresentata dalle grandi concentrazioni capitalistiche 'tipo Montedison'.

Lissandrano ha seguito con molto interesse, lasciandomi parlare molto e parlando poco lui, l'evolversi della discussione. Poi mi ha preso d'incontro con una domanda abbastanza insolita, e piuttosto sconcertante. Lei, ha detto testualmente, Valerio l'ha mai conosciuto? Ho dovuto rispondere: no. Lo conosco, in effetti, soltanto per quello che si legge sui giornali.
E allora (è sempre Lissandrano che parla) sono certo che se lo figura con le mani ingioiellate, grasso e con molte amanti, ville al mare e ai monti e via dicendo. Le assicuro che non è così. Valerio all'età in cui qualunque altro lavoratore è in pensione, lavora dalle dodici alle quattordici ore al giorno. E del resto, ricorda Enrico Mattei il fondatore dell'Eni, l'uomo più amato e odiato d'ltalia? Era così anche lui. Aveva una sola passione: la pesca. E non ci andava quasi mai, per mancanza di tempo. Si odiavano a morte, Valerio e Mattei: ma erano sostanzialmente uguali.

Non è che mi sia sfuggita la pericolosità del ragionamento sottilissimo di Carlo Lissandrano, il quale per essere un manager e non un funzionario, è quindi abituato a impostare il ragionamento anziché seguirlo pedissequamente, a determinare l'azione anziché subirla, s'è ben guardato dall'interpretare il ruolo dell'Azzeccagarbugli cercando la difesa del monopolio; ma s'è sforzato, piuttosto, di allontanare, anziché magnificare, l'immagine di don Rodrigo.
Dal terreno economico ha spostato il discorso sul terreno psicologico, per fare poi ritorno all'economia affermando che perfino in Russia e in Cina, sotto altra veste, "i Valerio e i Mattei sono indispensabili". Dieci anni fa, un discorso simile uno come Lissandrano l'avrebbe pagato con la testa.

6.

Ancora qualche episodio, se mi consentite. Sempre nell'estate del 1968 è scoppiata una violentissima crisi alla Marzotto a seguito di alcuni licenziamenti e della ristrutturazione dei cottimi. A Valdagno, antico feudo della famiglia, hanno abbattuto la statua di Vittorio Emanuele. E' crollato un mito, si è andato gridando ai quattro venti. Finalmente i valdagnesi sono liberi dalla schiavitù psicologica, oltre che economica, dei Marzotto.

A quel tempo ebbi modo di scrivere un articolo che fece molto scandalo. A Valdagno, sostenevo, è caduta soltanto una statua. Il mito dei Marzotto se n'era già andato da almeno dieci anni, da quando, cioè, un sindacalista democristiano trentatreenne, Onorio Cengarle, ex operaio metallurgico, ponendo la propria candidatura in chiave anti Marzotto, aveva strappato al candidato liberale locale nella vallata dell'Agno ben diciassettemila voti di preferenza, un record in assoluto. E il candidato liberale si chiamava appunto Vittorio Emanuele Marzotto, il primo dei cinque figli del vecchio Gaetano.

Niente mito, dunque, ma una vertenza sindacale come tutte le altre, con protagonista principale, prima ancora che i Marzotto nelle loro persone fisiche, l'ingegner Giorgio Piantini, direttore generale, già direttore dei servizi tecnici della Lanerossi. Costui (anche se la definizione non gli piace) più ancora che un manager, è un tecnocrate. Trovatosi davanti ad una situazione di paternalismo aziendale per cui il sistema di cottimo Bedeaux (uno dei tanti figli spurii di Frederick Winslow Taylor, l'inventore di una forma di incentivazione assai diffusa tra le Industrie tessili) era applicato in modo talmente approssimativo su di un cicio produttivo in fase di avanzata obsolescenza, da rendere perfino impossibile il calcolo del costo del lavoro; ha rivoluzionato tutto, facendo nascere, naturalmente, il pandemonio. Il discorso dunque, così concludeva il mio articolo, riguarda fino a un certo punto i Marzotto, e, semmai, uno dei Marzotto: il Giannino, che è presidente e consigliere delegato.
Ma il protagonista è ancora una volta il manager, colui che - bene o male lui faccia - cambia le cose. Le sovverte se occorre, e non le lascia andare come vanno, trovando per ogni cervellotica iniziativa del padrone una valida giustificazione.

Non molto tempo dopo il giornale mi manda ad un party nella stupenda villa palladiana di Trìssino, proprietà di Giannino Marzotto, alta su di un colle che domina la valle, e circondata da due chilometri di prato all'inglese. Dapprima ero scocciato, ma poi lo spettacolo ha cominciato a farsi interessante. Da una parte la vecchia guardia dirigenziale dei lanifìci, fatta di funzionari che hanno sempre detto soltanto sì; ed eccoli sempre così pacati, sorridenti e affabili; dall'altra Piantini (e qualche suo diretto collaboratore), anche lui minuto, fisicamente poco significante, ma dallo sguardo vivacissimo sotto le spesse lenti e dotato di grande vivacità. Me ne stavo in disparte, da solo, per questo mio singolare tipo di analisi psicologica, seguendo battute e schermaglie, quand'ecco Giannino Marzotto porgermi un Negroni e invitarmi a bere con lui.

Qualche battuta di circostanza sulla bellezza del paesaggio prima di arrivare al dunque. All'articolo, vale a dire, e all'interpretazione da me data a suo tempo alla vertenza, già conclusa al momento in cui la conversazione si svolgeva.

Giannino Marzotto sembrava soddisfatto a metà di quanto avevo avuto occasione di scrivere. Convinto assertore della produttività come elemento determinante di promozione socio-economica, egli ha ben capito che con i Piantini, simpatici o antipatici che siano, si va avanti, e che con gli altri si resta fermi, il che, in ultima analisi, significa andare indietro. Tuttavia, se posso usare l'espressione, m'è parso un po' geloso del suo direttore generale, e mascherando elegantemente questa forma di riprovazione, m'ha confidato che Piantini s'era un po' risentito della definizione datagli (non gli piace essere chiamato 'tecnocrate'...) e m'ha chiesto cosa mai intendevo usando l'espressione «manager». La risposta è stata molto semplice ed era lì, sotto i nostri occhi. Il manager, in senso imprenditoriale, è colui che promuove e determina l'azione prescindendo dal fatto che l'impresa gli appartenga o meno. Gli altri sono funzionari, o burocrati, servitori, espressioni passive di una volontà che si impone al di fuori delle loro personali competenze e convinzioni. Laddove vi sono dei manager, l'industria avanza: laddove vi sono padroni e servitori, l'industria (e non solo l'industria) regredisce e muore.

C'è stata evidentemente coincidenza di opinioni. Il suo sguardo s'è improvvisamente acceso ed ha più volte annuito. "Se è vero quello che lei intende - ha aggiunto subito dopo - guardi che, sotto questo aspetto, lei non sta parlando con un 'padrone'. Sta parlando con un manager".

7.

Un ultimo caso: la morte, piuttosto recente, di Lino Zanussi, tragica morte nel bimotore privato schiantatosi contro una montagna a San Sebastiano, in Catalogna.

Quella morte è stata uno choc di incalcolabili dimensioni per la più grande industria di elettrodomestici d'Europa. Sarebbe stato logico quanto mai attendersi l'eloquio funebre, l'esaltazione delle virtù. Gli Zanussi, tutto sommato, sono la più alta espressione della nuova generazione di pionieri dell'industria veneta e nazionale e Lino Zanussi era il leader riconosciuto dell'azienda e, dunque, di questa nuova classe imprenditoriale. S'è fatto e detto molto, dunque. Ma con un tono strano. Come a dire: grande uomo, Lino Zanussi, industriale di qualità eccezionali, però attenzione. La continuità aziendale rimane, il consiglio di amministrazione si è già riunito, la perdita è stata grande ma non incolmabile, perché alla Zanussi si è sempre lavorato in equìpe e pertanto quando una funzione, sia pure la più importante, viene meno, tutte le altre suppliscono. E due giorni dopo, a funerali avvenuti, tutto è ripreso con assoluta normalità.

8.

E allora? perché questa aneddotica, questi discorsi? Perché adesso rileggiamo attentamente i nomi degli imputati del processo del Vajont.
Alberico Biadene, Mario Pancini, Pietro Frosini, Francesco Sensidoni, Curzio Batini, Francesco Penta e Luigi Greco - pace all'anima loro -, Almo Violin, Dino Tonini, Roberto Marin, Augusto Ghetti. Qualsiasi don Abbondio ha il diritto di chiedersi: chi sono costoro? Cosa fanno sul banco degli imputati? Soprattutto, cosa rappresentano? A quale categoria di individui appartengono?
Sono i Tecnici, è la risposta. Ma questo non significa proprio niente.
Tecnici e scienziati sono anche Müller, Caloi, Giudici, Raimondo Selli, Edoardo Semenza. Tecnico al massimo dei valori mondiali era Carlo Semenza e scienziato di fama internazionale era Giorgio Dal Piaz. Tecnico è l'ingegner Torno che ha costruito la diga realizzando una delle opere più grandi dell'ingegneria idraulica. Eppure nessuno di questi è sul banco degli imputati, e finché Carlo Semenza e Giorgio Dal Piaz (in particolare il primo) sono rimasti in vita, la catastrofe non si è verificata. Perché tutti questi ultimi che abbiamo citato sono stati, al tempo in cui la tragedia andava maturando, sostanzialmente dei manager. Si esprimevano autonomamente, il loro giudizio non subiva condizionamenti. Ed oggi sono i principali accusatori, morti o vivi che siano. Gli altri erano, e sono, funzionari, burocrati. Quelli che possono dire soltanto sì. Non importa se taluni di essi sono titolari di cattedre universitarie. Per questo, adesso, portano tutta intiera la responsabilità del disastro del Vajont.

Fermare a questo livello il nostro giudizio, tuttavia, potrebbe essere molto pericoloso. Sappiamo tutti senza possibilità di equivoco che il processo è destinato ad esaurirsi, come massimo, al secondo grado di giudizio. Alla Cassazione non si arriverà quasi certamente, per la prescrizione. E il 1971 non è lontano. Bisogna, dunque, arrivare più in là. Se ci si dovesse fermare alla condanna platonica di otto ingegneri di serie B - ammesso che condanna ci sia - sarebbe veramente costringere il processo del Vajont entro limiti così ristretti da renderlo addirittura superfluo. Esso sarà valido e importante soltanto se il tribunale morale sarà la Storia e gli imputati un certo tipo di monopolio, di gruppo di pressione e una certa parte della classe dirigente.

Per dare un minimo di efficacia a queste poche pagine, bisogna che il discorso sia svelenito, liberato da ogni incrostazione polemica, affrontato con la massima serenità d'animo. Quando l'amico Mario Fabbri ha reso pubblica la sua sentenza istruttoria, sono corso a Belluno per congratularmi con lui data l'imponenza del lavoro svolto, l'acutezza dell'indagine e, soprattutto, il coraggio dimostrato quando tutto sembrava oramai compromesso dagli esiti dell'indagine svolta dalla commissione parlamentare Rubinacci e dalla perizia effettuata dalla commissione di esperti Gortani-Desio. Non gli ho, però, confidato una mia perplessità. Che lui non potesse fare altrimenti, come magistrato, appare chiaro. Ma dal punto di vista della valutazione psicologica, ed anche politica, se vogliamo, m'era sembrato eccessivo il mandato di cattura a carico di Alberico Biadene e di Dino Tonini.

Intendiamoci: non si vuole qui dire che non meritassero questo ed altro. Ma è proprio in quell'occasione che è emersa la personalità di coloro i quali sono considerati da Fabbri i massimi responsabili del disastro del Vajont. Colpiti da mandato di cattura, anziché affrontare con dignità la prigione in attesa di avere giustizia (qualora ritengano che questo possa e debba avvenire) hanno preferito svicolare. Ritenuti responsabili di uno dei più grandi massacri consumati in tempo di pace, si sono comportati come ladri di polli imboscandosi in casa di amici, dandosi alla latitanza e impedendo, così, all'ufficiale di polizia giudiziaria di notificar loro l'ordine di arresto del magistrato. Può essere il disastro del Vajont ridotto alla stregua di tali personaggi?
No, assolutamente. Il disastro del Vajont è qualcosa di diverso e di ben più importante. Il disastro del Vajont è al livello di Vittorio Cini. E allora bisogna rifare tutto il discorso, rimeditare pagina per pagina, e riga per riga, gli scritti di Fabbri e di Mandarino, riandare con la memoria ai fatti prima e dopo il 9 ottobre 1963.

9.

Si è detto e ripetuto all'indomani della tragedia che Vittorio Cini, presidente e padre spirituale della Sade dopo la morte di Volpi di Misurata, avrebbe tentato il suicidio. La notizia è stata smentita ripetutamente, non fosse altro perché Vittorio Cini è un cattolico militante e per il cattolico il suicidio è cosa da non pensarsi nemmeno. Allora (sono sempre voci corse a Venezia all'indomani del 9 di ottobre 1963) avrebbe deciso di dare un miliardo ai superstiti. Amici lo avrebbero sconsigliato: così facendo significava ammettere implicitamente la propria corresponsabilità. Cini si è pertanto limitato al versamento di dieci milioni e ad altri contributi analoghi tramite le società da lui controllate.

In tutto questo è il nocciolo della tragedia del Vajont, che è poi quella di una stirpe di magnati, di autocrati, di signori nel senso rinascimentale prima ancora che medioevale del termine, i quali della proprietà hanno sempre fatto un culto astratto. C'è una tale differenza di stile nelle situazioni ricorrenti a paragone di quelli che figurano imputati nel processo del Vajont, che verrebbe quasi voglia di dare ragione a Cini, che del disastro è, invece, tra i più alti responsabili. Di comprenderne, quanto meno, il modo di agire.

Per timore della sua ira, che è quella di un uomo che ha altissima la vocazione al comando, per paura perfino del suo sguardo, più lucido e penetrante di ogni ragionamento, hanno detto sì a tutto, e hanno fatto carte false per arrivare al collaudo entro i tempi tecnici previsti dalla nazionalizzazione. Non è da escludere che gli abbiano perfino nascosto fino all'ultimo la reale situazione di pericolosità per i motivi citati. Di chi la colpa di tutto ciò?
Di Vittorio Cini, naturalmente; e prima di lui di Giuseppe Volpi di Misurata, che hanno sempre fatto della Sade un autentico impero, con i funzionari trasformati in cortigiani: Volpi con marcata vocazione napoleonica, Cini con racchiuso in sè il culto e il 'mito del Re Sole'. Ma allora, come si spiega Carlo Semenza? Quale il suo ruolo nella tragedia?

Lissandrano, evidentemente, sapeva quel che diceva quando parlava della personalità dei grandi capitani d'industria contemporanei. Gli dèi di un'epoca che volge al crepuscolo, e che tuttavia sopravvive a se stessa nel fasto di talune manifestazioni quali i convegni di alta cultura della fondazione dell'isola di San Giorgio o del premio letterario 'Campiello'. Vittorio Cini è il classico Gattopardo dei tempi moderni. La sua personalità avrebbe sicuramente affascinato Tomasi di Lampedusa. La sua vita appare perfettamente divisa tra il culto della mondanità e quello dell'alta finanza. Il suo mecenatismo può avere perfino un carattere snobistico, ma è di una classe superiore. Parimenti, tuttavia, la determinazione con cui ha sempre condotto le operazioni finanziarie che lo hanno avuto come protagonista è sempre stata tale da lasciare pochissimo spazio a quelli che abbiamo definito 'manager', preferendo a questi ultimi i funzionari, quelli che dicono sempre sì. Se non fosse stato così, quasi sicuramente non si sarebbe avuta la tragedia del Vajont. Ecco perché il vero, grande responsabile è proprio lui.

Sicuramente, Vittorio Cini non ha mai pensato ad ammazzare duemila e passa persone. Tuttavia, il distacco tra potere decisionale e potere esecutivo in fatto di personalità dei protagonisti, era proprio quello sottolineato in precedenza: una differenza di stile, di intelligenza, di partecipazione ai rispettivi livelli di responsabilità, tale da escludere che i Biadene e i Pancini fossero in grado di interferire minimamente sulle decisioni di massima adottate dai Cini. Solo personaggi della statura di Carlo Semenza e di Giorgio Dal Piaz avrebbero - forse - potuto. Ma quelli erano morti, e i successori non erano preparati né tecnicamente né psicologicamente a una così pesante eredità.

10.

Analizziamo fino in fondo questo aspetto della vicenda se vogliamo davvero avere le idee chiare in proposito. La diga del Vajont ha avuto una genesi tra le più contrastate che si possano immaginare. Carlo Semenza e Giorgio Dal Piaz sono personaggi che potrebbero ben figurare in una tragedia greca. Nel 1937 erano già alle prese con i non indifferenti problemi che l'impervia natura del bacino del Vajont proponeva a varie riprese, e già nel 1930 s'erano avuti dubbi sulla reale consistenza dei fianchi della montagna. Scrive Semenza a Dal Piaz il 5 agosto 1937:

Come Le ho detto, nella relazione occorrerebbe che Ella trattasse anche la questione della insidia solida. In proposito Ella ci ha già dato una sua preziosa relazione in data giugno 1930, di cui, a buon fine, Le allego copia e che, se Ella volesse semplificare, basterebbe oggi riprodurre in bollo. Veda Lei se Le pare il caso di lasciarla così, in forma separata, o di riprodurre la parte sostanziale della nuova. Per me la cosa è indifferente. Soltanto, per il caso che Ella riproducesse in bollo la relazione del 1930, La prego di tenere presente che a pagina cinque occorrerebbe modificare la località dello sbarramento.
Questa lettera, dal vago sapore intimidatorio, è apparsa «inelegante» al giudice istruttore Fabbri, e ben a ragione. Era il tempo in cui Volpi di Misurata aveva fatto della Sade un impero personale, e il Semenza di allora, pure essendo già un tecnico di levatura internazionale, non aveva sicuramente nei confronti di Volpi, la cui personalità e ben nota in senso autocratico, e non aveva soprattutto nei confronti del sistema, il fascista, possibilità di ampia autonomia. Eppure al fondo del discorso rimangono la grande fiducia che quest'uomo ha sempre riposto nelle sue opere, l'ambizione che lo ha portato a realizzazioni sensazionali nel campo dell'ingegneria idraulica, il continuo innamorarsi della tesi per cui ciascuna delle sue creature ha sempre costituito un vero matrimonio d'amore, e la diga del Vajont forse più di tutte. Non ha mai voluto in effetti davvero credere che il bacino fosse incolmabile per difficoltà di ordine naturale. Non ha mai pensato lontanamente a rinunciare alla diga che avrebbe dovuto chiudere la carriera del più grande progettista idraulico di ogni tempo. Egli non sapeva, evidentemente, quale terribile creatura stava ideando e la sua morte, nell'ottobre del 1961, porta chiari i segni dell'amarezza, dell'avvilimento, della più profonda delle delusioni. Egli, ormai, la tragedia l'aveva intuita. La morte gli ha impedito di evitarla.

S'è detto della lettera a Dal Piaz. Non è la sola in cui Semenza dà prova di temperamento e di ferma determinazione ormai al di là dei rapporti con gli amministratori della Sade e con lo stesso Vittorio Cini il quale, per la sua stessa natura d'uomo portato alla stima di ogni ingegno, è sempre stato tra i suoi più convinti ammiratori, come del resto è sempre avvenuto per Giorgio Dal Piaz.

Nel 1948 il progetto di Carlo Semenza assume dimensioni di un'arditezza senza pari. Scrive nuovamente a Giorgio Dal Piaz (11 ottobre 1948):

Anni fa (credo fra il 1940 e il '42) ebbi a porLe il problema della tenuta del serbatoio del Vajont verso la sella di S. Osvaldo (Val di Tuora). Ricordo che allora Ella ebbe a concludere favorevolmente. Si tratterebbe ora (in relazione a certe idee molto discutibili del resto anche da parecchi punti di vista) di esaminare la possibilità di elevare il livello del serbatoio oltre la quota attualmente prevista (677), eventualmente fin verso la 730. Alla diga penserei a prima vista che non dovrebbero sussistere dubbi sulla possibilità di aumentare la quota. Comunque gradirei anche qui il Suo parere ... Siccome mi pare di ricordare che Ella conterebbe effettuare un secondo sopralluogo nella valle, penso che potrebbe approfittarne per esaminare anche questo problema.
La risposta di Dal Piaz, del 15 ottobre, fu del seguente tenore:
Le confesso che i nuovi problemi prospettati mi fanno tremare le vene e i polsi.
Si tratterebbe di elevare la diga del Vajont fino a quota 730. Essa verrebbe ad avere quindi un'altezza di 255 metri circa. Dalle quote dei primitivi progetti del 1940 si salirebbe a livelli di non poco più elevati, che, Le confesso, dal punto di vista geologico, richiedono un esame scrupoloso. Ritengo, in via di massima, che, dato il tipo della stretta e la sua costituzione, nulla si opponga alla possibilità del ventilato innalzamento della diga. Bisognerà però fare un esame dei fianchi e specialmente di quello di destra dove a quote superiori a 677 m. si hanno delle variazioni litologiche che potrebbero essere interessate nel caso del nuovo invaso. Ciò non vuol dire, a priori, che il fianco non debba prestarsi bene anche a quote superiori, anzi ho l'impressione che le condizioni della roccia siano favorevoli, ma è prudente esaminare il problema sul posto. Nessun timore credo si possa nutrire per l'alto Vajont, dove la testata della valle è chiusa da massicci rocciosi abbastanza potenti e in buone condizioni strutturali. Qualche incertezza può esistere invece per il lato che ha il suo vertice al Passo di S. Osvaldo, dove l'enorme massa detritica non ha consentito di fare un esame minuzioso sulle presumibili quote raggiunte dalla roccia del solco vallivo. Altro problema è quello della stabilità del paese di Erto, le cui condizioni vengono naturalmente peggiorate dal considerevole innalzamento della quota di invaso e dai conseguenti fenomeni di bagna ed asciuga.
Specialmente sotto questi due ultimi argomenti (valle verso Passo S. Osvaldo e posizione del paese di Erto, oltre alla natura della roccia della sezione) il problema richiede uno scrupoloso esame dal quale confido che ne escano conclusioni favorevoli.

Fra non molto dovrò assentarmi da Padova per la penosa necessità d'integrare la assai magra pensione con proventi professionali, ma appena sarò libero da tali impegni non mancherò di tenerLa informata e di recarmi poi nella valle del Vajont per l'esame dei vecchi e nuovi problemi geologici.

Il geologo effettuò la visita al Vajont il 20 novembre e il 24 novembre 1948 comunicò all'ing. Semenza:
L'impressione d'insieme ricavata dall'esame preliminare del 20 corr. non è contraria ad un eventuale innalzamento della diga.
Il fianco destro, nonostante le cavernosità ad un certo livello, è più favorevole del sinistro, dove, proprio all'inizio dello svaso della sezione su questo lato, si presentano delle fratturazioni. Io penso che sarebbe opportuno che esaminassimo assieme la questione. Dall'esposizione ch'io potro farLe sul terreno nei riguardi delle condizioni strutturali della roccia, Ella potrà farsi un'idea se le esigenze statiche possono essere completamente soddisfatte, come io riterrei in via di massima.
Il 21 dicembre 1948 Dal Piaz redasse la relazione sulla struttura geologica della Valle del Vajont agli effetti degli smottamenti dei fianchi che possono derivare dal progettato invaso e dalle oscillazioni del livello del lago.
Negli anni seguenti, l'ing. Semenza fece effettuare una serie di accertamenti sui fianchi e sul letto del Vajont: nel 1951-'52 vennero effettuati i sondaggi verso il Passo di S. Osvaldo per accertare il profilo della roccia, constatandosi una «non indifferente permeabilita»; nel 1953 e nel 1956 vennero condotte indagini geosismiche in zona diga e lungo i fianchi a cura del prof. Pietro Caloi e della dott. Maria Cecilia Spadea dell'Istituto Nazionale di Geofisica di Roma, mentre nel 1954 vennero effettuati e studiati cunicoli e sondaggi presso Erto.

La posizione dei due grandi protagonisti della tragedia, nel 1953, è strana. Giorgio Dal Piaz riluttante e perplesso, Carlo Semenza ormai abbacinato dall'idea del «grande Vajont». Ad un certo punto, oltre ai noti Müller e Caloi, al prof. Milli di Agordo, ecco che la sorte mette Carlo Semenza contro il proprio figlio, il geologo Edoardo Semenza, che con il collega Giudici è tra i critici più accesi del progetto del padre.

Egli stende alcune relazioni che irritano profondamente Carlo Semenza, e questo proprio nel momento in cui Giorgio Dal Piaz sembra convincersi via via della realizzabilità dell'impresa del grande Vajont e stende alcune relazioni sostanzialmente favorevoli. L'ira del grande ingegnere nei confronti del figlio traspare da una lettera in data 24 maggio 1960.

"Riteniamo indispensabile che tu mostri preventivamente la relazione al prof. Dal Piaz, al quale preannuncio la cosa con la lettera che ti allego in copia. Se anche dovrai a seguito del colloquio attenuare qualche tua affermazione, non cascherà il mondo."
Egli, dunque, considera il figlio Edoardo un intemperante, incapace di frenare gli impulsi giovanili, e capace di compromettere con una relazione di poche pagine l'opera più importante di tutta la sua vita. Ma se questo è un aspetto dell'animo di Carlo Semenza che si sente un po' tradito dal proprio figlio nel momento più difficile della carriera, e la sua lettera assume in pieno il significato del «Tu quoque, Brutus?», l'altro aspetto - quello del dubbio ormai insinuato pervicacemente in lui - lo si riscontra nella lettera che alla stessa data scrive a Giorgio Dal Piaz.
"Mio figlio Edoardo ha predisposto la relazione. Gli ho detto che venga da Lei a mostrargliela. Ho piacere che Lei la veda. Anche se ci saranno eventuali sfumature di opinioni, poco male: resterebbero sempre sotto la responsabilità di mio figlio, se Ella riterrà opportuno che egli firmi la relazione."
Questo, dopo aver scritto il 26 febbraio sempre a Dal Piaz:
"Attendo con vivo interesse le sue osservazioni in merito. Mio figlio Edoardo, ieri, mi pareva così poco persuaso!"
Edoardo Semenza, segnando una sezione della Zona della Pozza, aveva così commentato: «Comunque sia, la situazione non è brillante».

La relazione Giudici-Semenza venne presentata in giugno.
Sulla stessa - annota il giudice Fabbri - va richiamata l'attenzione di chi legge, per l'importanza che essa assunse, dopo la catastrofe. In tale rapporto, si espongono i risultati dello studio compiuto dagli scriventi fra l'estate del 1959 e la primavera del 1960, nella zona interessata dal serbatoio del Vajont, al fine di eseguire un rilievo geologico di dettaglio; particolare attenzione è stata data ai fenomeni franosi già in atto e a quelli che potranno verificarsi in seguito alla creazione del serbatoio e alle sue oscillazioni di livello. Si descrive dapprima, con brevi cenni, la serie stratigrafica, per passare poi all'esposizione delle condizioni geologiche delle diverse zone della valle. Si trattano infine le aree che sono interessate da cedimenti e che potranno esserlo nel futuro.

Tralasceremo di trascrivere - prosegue il giudice Fabbri - ciò che concerne la serie stratigrafica e la descrizione geologica a zone, limitandoci ad osservare che per la porzione dal ponte di Casso all'imposta sinistra la relazione dice:

Si tratta evidentemente di un'ampia zona rocciosa staccatasi e scivolata, per gravità, complessivamente verso NE, come è probabile data la giacitura degli strati sottostanti. La serie appare sensibilmente concorde ai due lati della valle, ma ciò è spiegabile dato che lo scivolamento in sinistra si è verificato nel Malm (almeno per quanto riguarda la maggior parte della massa scivolata). Resta dubbia l'entità del movimento, come pure l'estensione della massa che ne è stata interessata.

Per il lato destro della valle, andando da est ad ovest, tranne disturbi molto limitati (faglie trasversali a piccolo rigetto) si ha un andamento tranquillo fino al dosso (prevalentemente composto di Malm) situato ad est della osterìa del Colombèr. In questo dosso gli strati del Malm, abbastanza regolari nella loro posizione, si trovano però al di sopra di un livello sabbioso e ghiaioso che raggiunge alcuni metri di potenza e che probabilmente si estende a gran parte del dosso. Marcate discordanze di giacitura con le rimanenti formazioni del versante destro, oltre al livello sabbioso e alla configurazione della valle, fanno pensare che i citati strati pervcngano dall'allora verticale sponda sinistra ed abbiano riempito un alveo del Vajont precedente all'attuale. Il fiume successivamente s'è aperto una nuova via attraverso il materiale franato fino a giungere alla roccia in posto, nella quale ha scavato il proprio letto. Questa interpretazione può essere avvalorata dall'ampia conca sul versante di sinistra della valle, interpretabile come una zona di distacco.

I geologi Giudici-Semenza si occuparono quindi dei cedimenti, scrivendo:
I cedimenti nel bacino del Vajont, prevedibili o già in atto, si possono raggruppare nclle seguenti categorie: frane di distacco, frane di scivolamento, frane di ammollimento e frane di tipo misto ...
Le idee saranno ancora più chiare se riporteremo le conclusioni cui era giunto Giorgio Dal Piaz il 2 aprile 1957 corredando con una relazione geognostica il progetto esecutivo della Sade per la realizzazione del grande, anziché del piccolo Vajont. Da quanto abbiamo avuto occasione di esporre possiamo trarre le seguenti conclusioni:
1) La Valle del Vajont, per il tratto che interessa il progettato sbarramento, risponde ad una tipica e meravigliosa gola d'erosione incisa nei calcari giuresi compatti, i quali formano una potente pila stratigrafica regolare e continua tanto sul lato destro, quanto sul lato sinistro;
2) I fianchi della sezione da sbarrare sono tra loro strettamente legati dalla roccia del fondo, formando nel loro insieme un tutto unico e solidale fra le varie parti, rispondente a condizioni statiche particolarmente favorevoli per la costruzione di una diga ad arco di notevole altezza;
3) Per la buona riuscita dell'opera e per garantire meglio la sua tenuta, vista la non comune altezza dello sbarramenio, è raccomandabile che la diga abbia un profondo incastro tanto sul fondo quanto sui fianchi, e che, per tutto lo sviluppo della sezione, sia fatto un largo impiego di iniezioni di cemento liquido a forti pressioni fino a rifiuto completo.
Egli tuttavia ha ancora forti dubbi e non li nasconde a Semenza, che in quel periodo invece è più che mai fortemente determinato a portare a compimento il grande, e non il piccolo Vajont.
Scrive Dal Piaz:
Ho tentato di stendere la dichiarazione per l'alto Vajont, ma Le confesso sinceramente che non m'è riuscita bene, e non mi soddisfa. Abbia la cortesia di mandarmi il testo di quella ch'Ella mi ha esposto a voce, che mi pareva molto felice. La prego inoltre di dirmi se devo mettere l'intestazione dell'Ente al quale deve essere indirizzata, e se devo mettere la data d'ora o arretrata. Appena avrò la sua edizione la farò dattilografare e Le farò l'immediato invio. Scusi il disturbo.
Il giorno seguente l'ing. Carlo Semenza riscontrò la nota.
Le allego copia del testo al quale Ella secondo me potrebbe in linea di massima attenersi. Ho lasciato punteggiata una frase che, se Ella crede, potrebbe mettere per illustrare le condizioni delle note cuciture fra strato e strato. L'appendice dovrebbe avere l'intestazione e la data che ho indicato sull'appunto. In ogni modo Le lascio ogni più ampia libertà. Le sono ancora vivamente grato per la Sua visita di lunedì che è stata per noi cara e preziosa.

P.S.: - A guadagno di tempo, sarebbe meglio che Ella ci consegnasse la relazione già stesa e da Lei firmata.

E la relazione ebbe la luce con la data del 31 gennaio e il titolo: Appendice alla relazione geologica del 25 marzo 1948 allegata al progetto della costruzione della diga sul Vajont.
In seguito alla relazione in data 25 marzo 1948 sulla sezione del Vajont a valle del Ponte del Colombèr, presa in esame per la costruzione di una diga di sbarramento, la Concessionaria ha studiato una variante che comporta la sopraelevazione della quota di massimo invaso normale del serbatoio fino alla quota 722,50 (724 metri in caso di piena eccezionale) e cioè di metri 45.50 più elevata di quella prevista nel progetto del 1948.

In vista di tale sopraelevazione sono state riprese in esame le caratteristiche geologiche generali e della stretta con particolare riguardo, naturalmente, alle zone dei due fianchi al di sopra del limite di invaso precedentemente fissato.

Le conclusioni della relazione del 1948 valgono sostanzialmente anche per la nuova soluzione prospettata, dato che la costituzione geologica, oltre che morfologica, delle due spalle non muta per una cinquantina e piu metri di maggiore clevazione. Le due fiancate rocciose infatti continuano con le stesse carattcristiche litologiche, stratigrafiche e con la stessa continuity e compattezza, senza apprezzabili variazioni. Anche le cuciture fra strato e strato [e qui l'ing. Semenza lasciò un rigo e mezzo punteggiato; il prof. Dal Piaz abusò della libertà concessagli scrivendo, in ben tre righi: «Anche le cuciture fra strato e strato sono normali; la successione stratigrafica consta di una serie di potenti banchi calcarei del Periodo Giurese regolarmente inclinati verso monte».]

Le gallerie per la deviazione stradale, testè eseguite all'incirca alla quota del nuovo livello d'invaso, hanno consentito di confermare le buone condizioni della roccia anche nella parte superiore, nell'interno del fianco destro, nel quale gli scavi sono particolurmente approfonditi. E appena necessario rilevare che le due fiancate della diga dovranno attestarsi sulla roccia con direzione verso l'interno delle spalle rocciose e con sufficiente incastro, in modo da impostare il manufatto contro roccia sana e compatta e che (sia pure tenendo conto anche dei provvedimenti di iniezione) dia pieno affidamento di resistenza e tenuta. Anche le opere di impermeabilizzazione naturalmente dovranno essere spinte fino ad adeguate profondita ed intcnsita, in relazione con la maggiore quota d'invaso, la quale dara luogo a maggiori pressioni statiche e di penetrazione. Il parere sull'aumento di altezza del cospicuo sbarramento e quindi nettamente favorevole, purche si adottino i provvedimenti cautelativi sopra ricordati.

Pochi giorni dopo l'ing. Semenza tornò a scrivere al Dal Piaz:
Il tempo corre ancora più velocemente dei nostri pensieri. Mentre La ringrazio ancora per aver così sollecitamente soddisfatto la mia richiesta dell'appendice alla relazione Vajont per il progetto procedurale, sta diventando di assoluta urgenza anche la presentazione del progetto per il Servizio Dighe per il quale si è pensato di preparare una nuova relazione con fotografie eec.
Vorrei quindi pregarLa vivamente di dirmi se Le sarà possibile affrontare questo sforzo in modo da poter essere pronti verso i primi di marzo. In caso contrario si potrebbe anche ripiegare come col progetto procedurale.
Al progetto esecutivo fu allegata la relazione del 1948. I caratteri della diga: quota di fondazione metri 463,90; quota di coronamento metri 725,50; quota di massimo invaso metri 722,50; altezza massima metri 261,60; lunghezza del coronamento metri 190,50; spessore alla base metri 21,11; spessore alla sommità metri 5,40; volume di calcestruzzo metri cubi 355.000; corda dell'arco medio di testa metri 169,00.

I lavori - citiamo ancora il giudice Fabbri - vennero iniziati senza autorizzazione di sorta nel gennaio 1957, come risulta dalla nota «urgente» al direttore generale della Sade, ing. Antonello, del 28 gennaio 1957, nella quale è scritto:

Il Genio Civile di Belluno si è lamentato che, pur non essendo stato ancora presentato il nuovo progetto del grande serbatoio Vajont, se ne siano già iniziati i lavori di scavo.
Occorre tener presente che in tempi molto recenti almeno un Ufficio del Genio Civile si è trovato in gravi guai per aspri rimproveri del Ministero per non aver denunciato tempestivamente l'inizio della costruzione di uno sbarramento. A seguito di tale fatto le disposizioni ministeriali sono divenute più rigorose.
Non possiamo quindi pretendere che il Genio Civile chiuda gli occhi e, pur promettendo prossima la presentazione del nuovo progetto, abbiamo dovuto aderire al desiderio dell'Ufficio di Belluno di una comunicazione generica, che abbiamo fatto con la lettera di cui accludiamo copia.
Riteniamo che il testo di tale lettera, quanto mai laconica, non sia in contrasto con altre comunicazioni eventualmente da Lei fatte in altre sedi e non pregiudichi eventuali aspirazioni di più favorevoli trattamenti in fatto di contributi.
Attenzione a questa parte, soprattutto alla parola «contributi».
In essa è la chiave che apre l'ultima delle tante porte che conducono alla conoscenza dei motivi veri che hanno portato al disastro del Vajont. Ecco dunque il Semenza che va fino al 1958. Sicuro, spregiudicato, protervo oltre che dotato di grandissimo talento e di immensa fiducia nei propri mezzi, tale da giustificare l'apprezzamento e la stima di Volpi prima, e di Cini dopo. Ma poi avvengono i disastri di Frejùs, quello più modesto ma assai più prossimo geograficamente al Vajont, di Pontesèi, tra Longarone e Forno di Zoldo. Un uomo innamoratissimo dell'opera cui stava dedicando tutto se stesso, e deciso a giungere fino in fondo, eccolo quasi all'improvviso piegarsi in sè, compreso in profonde riflessioni, non più teso a controbilanciare la decisa azione degli oppositori dell'opera, quali Müller e Caloi, ma perplesso e sgomento e, oltretutto, ferito nell'intimo per avere vagamente intuito un segno del destino nel fatto che il primo a parlare apertamente della possibilità di un disastro, laddove doveva essere la sua apoteosi di tecnico e di scienziato, fosse stato proprio suo figlio Edoardo.

11.

I fatti e le situazioni interiori dei protagonisti (e del protagonista principe, soprattutto) assumono da questo momento una dimensione shakespeariana. Così si esprime il giudice istruttore Mario Fabbri, che con la sua sentenza rivela, tra l'altro, una buona disposizione letteraria nell'esposizione dei fatti. La rapida rassegna del 1959 consente di concludere che, se da una parte i tecnici della Sade potevano ritenersi soddisfatti per il progredire dei lavori, dall'altra, con l'avanzamento nella costruzione, cominciavano a vedere il profilarsi di seri e gravi problemi, come dimostra la lettera del 9 dicembre dell'ing. Semenza al prof. Dal Piaz, nella quale è scritto:

«Spero di vederLa presto anche per parlare del Vajont che il disastro del Frejùs rende più che mai di acuta attualità».
È ben evidente che tale catastrofe, occorsa qualche giorno avanti - il 2 dicembre - aveva non solo insinuato nella mente del costruttore seri dubbi per l'opera che stava realizzando, e della quale veniva scoprendo i difetti, ma aveva riaperto una più seria e diretta ferita, consistente nell'insuccesso tecnico occorsogli a Pontesei, dove il serbatoio della Sade sul Maè, il 22 marzo 1959, aveva dato luogo al franamento della sponda sinistra con gravi conseguenze: la morte di un uomo, Tiziani Arcangelo, e il grave danneggiamento delle opere di sbarramento. Di tale evento, che da vicino toccò la società concessionaria e il direttore del Servizio Costruzioni idrauliche, torneremo a parlare più avanti...

Tutta l'opera di Carlo Semenza, nel poco tempo che gli resterà da vivere, sarà improntata alla più grande amarezza e al più profondo dolore. Si sarà notato che gran parte della sua corrispondenza era rivolta a Giorgio Dal Piaz, considerato l'«alter ego» ai fini del compimento dell'opera, oppure ai suoi critici: Müller, Caloi, il figlio Edoardo, Giudici. Agli altri, compresi i membri della commissione di collaudo, per non parlare dei funzionari del Genio Civile, egli riservava attenzioni assai limitate e comunque del tutto secondarie, appendice necessaria a un iter burocratico apportatore di noie e basta. Significativi, al riguardo, sono alcuni appunti del suo diario. Con i membri della commissione di collaudo, Dal Piaz e altri, furono effettuate visite agli impianti. Si cenò a Cortina. Il tono di Semenza, in queste note, è perfino sarcastico: "Mi sembrano tranquilli, ottimisti. Se ne accorgeranno tra sei mesi.".

Ed eccoci al 20 aprile 1961, quando i presagi di Carlo Semenza diventano tali che egli non può più tenerli racchiusi in sè e si confida, pertanto, con il solo che sia in grado di comprenderlo appieno: il suo maestro di Università, ing. Vincenzo Ferniani di Bologna.
Scrive Semenza:

Sciolgo la riserva sulla quale sono rimasto il pomeriggio del 23 marzo u.s. quando Le ho telefonato in occasione del mio passaggio per Bologna diretto in Sicilia, inviandoLe alcuni elementi circa le frane sul fianco sinistro del serbatoio del Vajont. Le allego: una planimetria scala 1/5000 sulla quale sono segnate in rosso le zone di distacco, eec.; altra tavola con alcune sezioni trasversali. Il 4 novembre dello scorso anno mentre il serbatoio era a quota ca. 650, si è staccata una frana di circa 800.000 metri cubi nella zona indicata in rosso con la dizione «frana 4.11.1960» sulla planimetria allegata, circa 500 metri a monte della diga.

La frana ha bensì chiuso complelamente la parte angusta e profonda della valle fino alla quota 600 circa, ma in se non ha né entita né importanza particolari: qualche distacco nella zona fra le sezioni 6 e 3 era già stato previsto come inevitabile.

Infatti l'orlo del terrazzo verso il serbatoio immediatamente a valle del torrente Massalezza (fra i punti 57 e 60 della planimetria, sottolineati in rosso) era da tempo in movimento e le sue condizioni di giacitura lasciavano presagire degli altri movimenti. Senonché rilievi più estesi ed accurati del terreno hanno dimostrato che si era iniziato un molto più vasto movimento nella parte più alta del fianco sinistro fino alle quote 1.200-1.400, come indicate nella planimetria dove la frattura, del tipo caratteristico del distacco superiore dei movimenti franosi, è segnata in colore rosso.

Prospezioni geosismiche fatte nella zona nel novembre 1959 avevano denunciato roccia compatta. Le stesse prospezioni ripetute ora (novembre 1960-febbraio 1961) denotano che la velocità di propagazione delle onde è molto diminuita. Il nostro consulente geofisico prof. Caloi ritiene che tutta la massa si possa considerare ora «cataclastica» vale a dire che ha subito un movimento ed è in sostanza frantumata; la roccia solida si troverebbe a profondità notevoli, forse oltre 100-200 metri.

La zona della diga, nel Dogger, è fuori discussione per la sua solidità.

Siccome la superficie delle due masse in movimento è dell'ordine di 2 chilometri quadrati, Ella vede subito che, se realmente dovessimo avere dei movimenti sino a profondità dell'ordine di 100 metri, la quantità di materiale che potrebbe cadere nel serbatoio sarebbe ingente, tale da creare, data la strettezza della valle, probabilmente un'ostruzione intermedia e quindi anche una divisione in due parti dello specchio liquido; quella a monte sarebbe chiusa, e il suo livello potrebbe risultare incontrollabile. E su questa parte giace, 50 metri sopra il livello massimo, l'abitato di Erto.

Ella può immaginare il mio stato d'animo in questa situazione.

Ai primi di novembre abbiamo avuto una visita della Commissione di collaudo (prof. Penta, ing. Sensidoni, insieme col prof. Dal Piaz), che già ha agito dalla costruzione. La mia proposta di costruire immediatamente sul fianco destro della valle, allo scopo di evitare il peggio, una galleria per il collegamento delle due eventuali parti del serbatoio che potrebbero venir separate da una frana, è stata accettata immediatamente ed è diventata addirittura... una raccomandazione del Ministero [sic]. Abbiamo poi abbassato il livello del lago fino a quota 600, anche per costruire la galleria stessa, che sarà pronta nel prossimo autunno. Lo scavo si svolge rapidamente in roccia ottima. Dopo l'abbassamento del livello del serbatoio, probabilmente anche in causa del freddo sopravvenuto, i movimenti sul fianco sinistro si sono praticamente arrestati e credo che fino a che il livello sarà tenuto basso non sarà il caso di avere preoccupazioni. Ma cosa succederà col nuovo invaso?

Quanto i fenomeni attuali siano dovuti alle piogge, eccezionali ed eccezionalmente continuate, della seconda metà dello scorso anno, e quanto invece siano effettivamente dovuti al serbatoio, nessuno saprà mai; il fatto è che malauguratamente le due possibili cause hanno coinciso nel tempo.
Se avessimo costruito il serbatoio alcuni anni fa, in annate meno piovose, e non fosse successo niente, oggi potremmo dire che la minaccia è dovuta unicamente alle piogge, ma purtroppo così non è, e dobbiamo sopportare le conseguenze di questa disavventura.

I fianchi della valle, specialmente nella zona orientale (A giallo) sono ripidi (veda le sezioni 1, 2 e 3) e non vedo che cosa si possa fare per fermare un movimento del genere.
Ho invece una maggiore tranquillità per la zona occidentale (B giallo) la quale ha già una parte che forma piede; potra bensì cadere, ma, penso, abbastanza lentamente. Stiamo poi rivedendo la posizione del paese di Erto il quale nel suo complesso è posato su roccia in posto (flisch); in qualche punto però alcune case giacciono su una coltre alluvionale la quale potrebbe essere insidiata dal serbatoio alle quote più alte.

Non Le nascondo che il problema di queste frane mi sta preoccupando da mesi: le cose sono probabilmente più grandi di noi e non ci sono provvedimenti pratici adeguati, a meno di pensare di far cadere buona parte di materiale addirittura, con grandi mine, come proporrebbe l'ing. Sensidoni; ma è il caso di arrivare a tanto?

I professori Dal Piaz e Penta sono piuttosto ottimisti: tendono a non credere che avvenga uno scivolamento in grande massa e sperano (anch'io lo spero) che la parte mossa si sieda su se stessa. Sono però entrambi d'accordo su ogni provvedimento di sicurezza, primo fra tutti la galleria «bypass».

Credo di averLe esposto la situazione nei suoi elementi essenziali. Mi spiace di dare anche a Lei qualche seccatura, ma il raccontarLe le cose mi da' la sensazione di alleggerirmi di una parte almeno dei miei pensieri; voglia perdonarmi. Dopo tanti lavori fortunati e tante costruzioni, anche imponenti, mi trovo veramente di fronte a una cosa che, per le sue dimensioni, mi sembra sfuggire dalle nostre mani.
Intanto la diga è finita. Per quanto riguarda il bullonaggio nella parte alta stiamo lavorando e l'opera verrà completata nell'estate. Per quanto invece riguarda la parte bassa, dove dovrebbe essere messo in opera il famoso puntone. Stiamo studiando i dati del nuovo grande modello di Bergamo nel quale abbiamo ricostruite le caratteristiche essenziali di stratificazione, diaclasi, eec. delle due spalle, realizzate addirittura con delle pile di blocchi romboidali.

Abbiamo avuto risultati interessanti e tranquillanti: notevoli deformazioni, ma nessuna tendenza al chiudersi della stretta a valle della diga, il che ci lascia perplessi sulla convenienza di spendere dei soldi per il puntone.

Io sono sempre convinto però - per un complesso di considerazioni anche intuitive - che un puntone sarebbe opportuno. Ma bisognerebbe vedere i risultati di alcune misure da farsi nell'anno prossimo, nel quale credo che in ogni caso effettueremo soltanto un parziale invaso.

Questo ultimo passo della lettera è fondamentale. Dimostra che, con Semenza vivo, non ci sarebbe stato il disastro del Vajont. Il giorno seguente, Carlo Semenza completa il quadro aggiungendo:
Nel rileggere la lettera che Le ho scritto ieri mi accorgo che non Le ho detto una cosa molto importante, e cioè che tutte le spie poste sul terreno e controllate da stazioni trigonometriche situate sull'altro lato della valle, negli ultimi mesi dello scorso anno hanno rilevato continui spostamenti verso valle, dell'ordine talvolta anche di qualche centimetro al giorno.
Alcune delle case nelle zone A e B sono gravemente lesionate e i muri delle strade analogamente; quindi la massa allora era in movimento, seppure lento. Come Le ho detto, dai primi di gennaio, con lo svaso del serbatoio e col freddo, praticamente tutto si è fermato. Tanto volevo precisarLe per evitare ogni malinteso.
L'ing. Ferniani fornì un cortese e affettuoso riscontro il 12 maggio 1961, scrivendo:
Non parli di disturbo. È stato un vero piacere incontrarla. Se avrà altre occasioni di passare da Bologna, sarò lieto che mi dia simili disturbi. Le confermo che io non vedo alcuna probabilità catastrofica. Una volta fatta la galleria, che ha tempestivamente iniziato, ha già provveduto al peggio, cioè che la frana tenda ad appoggiarsi sulla sponda destra. Ma io credo che in tutto o in gran parte si adagerà su se stessa.
Col prof. Dal Piaz e collaboratori studierei se è necessario il puntone progettato a valle della diga. In questo caso sarebbe bene farlo per tempo, perché è facile (in gergo minatori) 'tenere contenta la roccia' finché non si è mossa, più difficile dopo. Scrivo questo non già perché dubiti che la frana possa estendersi a valle, ma perché penso che possa ingenerare qualche scossa nella massa vicina.
Scrivo a stento perché le cataratte negli occhi aumentano. Troverà errori ... pazienza!
Fatti di rilievo, stando all'istruttoria di Fabbri, nel secondo semestre del 1961, quando già la tragedia era in gestazione, furono:
... la perforazione di quattro fori piezometrici in sinistra Vajont e la ultimazione di sette fori nell'abitato di Erto; la visita della commissione di collaudo al Vajont; la morte dell'ingegner Carlo Semenza; la ripresa degli invasi; la realizzazione a Nove di Vittorio Veneto del modello idraulico che doveva portare all'incriminazione del prof. Ghetti.
Morte di Semenza, uguale a ripresa degli invasi. Ecco il momento conclusivo della genesi tragica su cui sarà bene soffermarci un poco. Con rara efficacia di linguaggio, Mario Fabbri è riuscito a dare un quadro della situazione al 30 ottobre 1961, data della morte dell'ideatore della diga del Vajont.
"Il 30 ottobre 1961 decedette l'ing. Carlo Semenza.
Non è questa la sede per discutere se e in qual modo tale scomparsa abbia influito sulla sorte del bacino Vajont; non può, tuttavia, non osservarsi che egli morì con una enorme amarezza nel cuore, quella stessa profonda amarezza che aveva, poco tempo prima, confidato all'ing. Ferniani: «Non Le nascondo che il problema di queste frane mi sta preoccupando da mesi: le cose sono probabilmente più grandi di noi e non ci sono provvedimenti pratici adeguati... Dopo tanti lavori fortunati e tante costruzioni, anche imponenti, mi trovo veramente di fronte a una cosa che, per le sue dimensioni, mi sembra sfuggire dalle nostre mani».

Della fiducia dell'uomo che aveva concepito l'idea del grandioso bacino restava ormai ben poco. Egli, alcuni anni prima (gennaio 1949) aveva intrattenuto i dirigenti della Scuola Politecnica di Losanna e di Zurigo sul tema "Le dighe della Sade nel Veneto" e aveva affermato: «Dal punto di vista geologico, le rocce sono generalmente ottime: io ho dovuto progressivamente concepire un grande rispetto per i nostri calcari nel Veneto, per lo più dolomitici. La loro permeabilità, salvo il caso dei calcari nettamente carsici, si manifesta in generale nei piani trasversali, di modo che il passaggio d'acqua da una sezione a monte a una più a valle e normalmente molto scarso e facilmente sanabile con procedimenti di iniezione. In complesso i calcari sono onesti perché rivelano superficialmente i loro difetti». E aveva aggiunto: «Il nastro azzurro delle dighe ad arco, che, salvo errore, appartiene oggi al Lumièi, per pochi metri rispetto alla diga Diablo, e apparterrà domani alla diga di Santa Giustina sul Noce nel Trentino, passerà quindi a quella del Vajont; può darsi anche che ad essa possa spettare addirittura, in concorrenza forse con la diga Kosi nel Nepal, il nastro azzurro di tutte le dighe del mondo, perché abbiamo studiato una variante che porterebbe la quota massima di invaso a 727. La diga assumerebbe quindi l'altezza di 245 metri... La costruzione ci lascerebbe del tutto tranquilli e non incontrerebbe certamente nessuna obiezione da parte dello Stato. La scelta dipenderà, dunque, soltanto da un complesso di considerazioni idrauliche e pratiche, soprattutto finanziarie, per le quali, ripeto, stiamo facendo un esame molto approfondito».

La morte, pietosamente, evitò all'ing. Carlo Semenza di conoscere il funesto primato conseguito dall'impianto del Vajont nel 1963, tra tutte le dighe del mondo.

12.

Dopo il 30 ottobre 1961 - prosegue nell'istruttoria il giudice Mario Fabbri - la composizione organica della società Sade non subì grosse modificazioni.

L'ing. Biadene, già condirettore del Servizio costruzioni idrauliche, prese la direzione del servizio. Sul punto conviene richiamare le sue stesse dichiarazioni:

«Fino alla morte dell'ing. Semenza io fui alle di lui dipendenze con la qualifica di ingegnere di cantiere prima e quindi, dal 1955, come vicedirettore del Servizio costruzioni idrauliche con particolare incarico di occuparmi degli uffici lavori».

«L'ing. Semenza manteneva per sè i rapporti con i superiori, con i Ministeri e con i consulenti, mentre la mia attività era proiettata verso la periferia della Sade, cioè verso i cantieri».

«La progettazione è sempre rimasta all'ing. Semenza».

«Con il 1960 l'ing. Mainardis lasciò il servizio ed io gli succedetti nella direzione della Azienda idroelettrici, trasformata nell'occasione in Azienda produzione energia (Ape) che, per la parte amministrativa, veniva ad avere sotto di sè il Servizio costruzioni idrauliche (Sci). Poiché l'ing. Semenza si sarebbe venuto a trovare alle mie dipendenze, almeno amministrativamente, venni nominato condirettore dello Sci. Come ho detto egli rimase a capo del servizio e io ritenni opportuno mantenere nei suoi confronti quel rapporto di dipendenza già esistente, occupandomi dell'esercizio di centrali idrauliche e termiche e dell'amministrazione relativa. Preciso che per le centrali termiche si ponevano problemi non solo di esercizio ma anche di costruzione. Alla morte dell'ing. Semenza l'Ape assunse anche il terzo esercizio, cioè lo Sci, ed io fui così il direttore dei tre servizi riuniti».

Non dissimili - afferma ancora il giudice Fabbri - sono le dichiarazioni del presidente della Sade, Vittorio Cini:
Per quanto riguarda il funzionamento del Servizio costruzioni idrauliche, debbo dire che tale settore godeva di ampia autonomia, anzi di massima autonomia, maggiore di quella degli altri settori. Ciò per due ragioni: l'una consistente nel complesso dei problemi tecnici che imponevano una tale autonomia; l'altra consistente nel fatto che il servizio era affidato all'ing. Semenza che per la sua personalità offriva garanzia di competenza massima. ... L'organizzazione sopradescritta non mutò dopo la morte dell'ing. Semenza, allorché l'ing. Biadene assunse la direzione del Servizio costruzioni idrauliche. Ciò fu dovuto al fatto che l'ing. Biadene, per essere stato per lungo tempo il collaboratore numero uno dell'ing. Semenza; per essere stato da questi elevato al grado di condirettore e per essere stato, in sostanza, designato quale successore nella direzione del servizio, offriva, al pari dell'ing. Semenza, ogni garanzia di competenza e capacità.

13.

Parole, parole, parole. Nella realtà era come se la catastrofe fosse già avvenuta. Si noterà che per la prima volta sale sulla scena Vittorio Cini, il presidente della Sade. Prima, nella sentenza Fabbri, egli appare soltanto per esprimere il proprio entusiastico assenso alla realizzazione del grande Vajont. Ma adesso il grande vecchio parla per esaltare l'uomo scomparso e assicurare che la sezione tecnica della Sade aveva goduto sempre della più grande autonomia grazie (e soprattutto) alla straordinaria personalità del suo capo: Carlo Semenza. Dal canto suo, Alberico Biadene ha quasi l'aria di uno che si scusa. Semenza era grande, egli dice nella sostanza, ma era un accentratore. Io sono stato soltanto e sempre un secondo, più o meno con modesti ruoli, anche se sono stato fatto condirettore proprio da lui: i progetti se li è sempre fatti lui, se li è sempre realizzati, la gloria è sempre stata tutta sua ed io non sono che un povero Calibano cui è sempre stata negata ogni autentica soddisfazione. Se leggerete con attenzione tra le righe del discorso di successione, vedrete che la sostanza è proprio questa.

Del resto, a questo punto, il discorso prende una piega particolare. Saranno coincidenze finché si vuole. Ma la sensazione netta che si ha, è che il peso dei tecnici in quanto tali vada gradatamente diminuendo, mentre aumenta quello degli amministratori, dei veri leader della società Adriatica di Elettricità. Giorgio Dal Piaz è lo scienziato che, pure soggetto a Semenza al tempo delle grandi idee concernenti il grande Vajont fino a dare l'impressione d'esserne il succubo, sarebbe adesso il solo, per l'età e per la straordinaria statura morale pregressa, in grado di dire no. Non va dimenticata la lettera sua del 30 luglio all'ingegner Torno che ha materialmente costruito la diga del Vajont e che per la sua parte assolutamente nulla (Torno) ha da rimproverarsi:

Ognuno di noi ha bisogno soprattutto di avere la propria convinzione che a tutto è stato provvisto per eliminare le imperfezioni della Natura, dandoci l'intima tranquillità del nostro animo.
Egli già aveva scritto in una relazione riservata:
Come è detto nella mia relazione generale sull'impianto del Vajont, è certo che il problema di Erto è alquanto delicato e va quindi tenuto sotto continua sorveglianza.
Egli, infatti, conscio della accresciuta responsabilità derivantegli dalla morte di Semenza, tenta di opporsi con la commissione di collaudo all'invaso previsto per gli ultimi mesi del 1961. Ma un incidente automobilistico lo toglierà definitivamente dalla scena proprio in quel periodo. Morirà pochi mesi dopo, nel 1962. Da quel momento scompaiono di fatto tutti i principali interlocutori di Carlo Semenza e Giorgio Dal Piaz. Müller, Caloi, Giudici, Edoardo Semenza, lo stesso prof. Raimondo Selli, il massimo tra i geologi italiani che dopo una consulenza ebbe l'impressione d'essere sgradito e si ritirò elegantemente dalla scena. Il confronto non avviene più al livello Carlo Semenza-Dal Piaz da un lato, Müller-Caloi-Edoardo Semenza-Giudici dall'altro. Avviene a livello Biadene-Violin, il capo del Genio Civile di Belluno, succeduto ad un funzionario piuttosto spregiudicato che, dopo una relazione tutt'altro che tranquillizzante, si vide subito trasferire dall'allora presidente del Magistrato alle Acque ing. Pavanello. Il Violin, in effetti, è quel personaggio che richiesto di un parere sul Vajont in quanto capo dei servizi tecnici del Ministero dei Lavori Pubblici in provincia di Belluno, risponde candidamente: «A me, lo chiedete? Io il Vajont l'ho visitato solo da turista. La Sade mi passa i bollettini quindicinali e tanto mi basta». È il senso del discorso che vale, naturalmente, già riportato a suo tempo nel rapporto Bozzi.

Dal giorno dell'incidente a Giorgio Dal Piaz, 1a commissione di collaudo non s'e più riunita. ciò nonostante sono stati concessi permessi d'invaso fino alla fatidica quota 722, la quota del «grande Vajont», la «quota della morte». perché tanta fretta?
Vediamo ancora insieme qualche documento. Citiamo sempre dalla sentenza istruttoria di Fabbri.

L'autorizzazione pervenne alla società solo il 25 novembre ma, come si è visto, l'invaso era già iniziato nella seconda decade di ottobre. Il 5 dicembre la Sade (Direzione del Servizio Costruzioni Idroelettriche) inoltrò, con parere favorevole del Genio Civile, altra domanda di «invaso sperimentale limitato temporaneamente alla quota 680».
A seguito del permesso accordato da codesto Ufficio con f. n. 3032 del 16/XI/1961, trasmessoci tramite il Genio Civile di Belluno, abbiamo ripreso l'invaso sperimentale del serbatoio del Vajont, invaso che, in base ai deflussi medi prevedibili per il mese di dicembre, raggiungerà la quota accordata 640 verso la fine del corrente anno. Per ottemperare a quanto prescritto nel foglio sopracitato provvediamo ad inviare a parte, i dati di osservazione relativi al comportamento statico della diga, al comportamento dei capisaldi di controllo situati lungo le sponde ed ai livelli delle acque sotterranee rilevati attraverso gli appositi piezometri. L'invio avverrà in futuro al 5 ed al 20 di ciascun mese con dati aggiornati alle scadenze quindicinali. L'invaso, che attualmente è in corso si svolge con tutta regolarità come risulta dai diagrammi che inviamo. Pertanto, in relazione a quanto sopra e con riferimento alla nostra precedente domanda del 5/X/1961, chiediamo ora nuovamente di essere autorizzati a procedere all'invaso sperimentale da quota 640 a quota 680, quota che - con un incremento giornaliero medio di 0.30 m. - potrà essere raggiunta alla fine dell'aprile 1962.

Facciamo presente che la località Toc, per la quale si possono temere movimenti, è completamente disabitata poiché la popolazione si è già trasferita, come d'abitudine, nel paese di Casso ove suole permanere fino a primavera inoltrata. Facciamo anche presente che il capoluogo, Erto, e le altre piccolo frazioni che si trovano lungo le sponde a notevole distanza dalla zona in osservazione, hanno le abitazioni a quota minima rispettivamente 760 e 730 e cioè rispettivamentc almeno 80 m. e 50 m. al di sopra della richiesta quota di massimo invaso. Il franco rispetto alla quota minima del piano stradale risulta infine di m. 45,50.

Come già detto nella nostra precedente domanda, riteniamo quindi che l'invaso richiesto sia assolutamente cautelativo nei riguardi di eventuali pericoli e danni per cose e persone ... Nella speranza che codesto Ufficio, tenute presenti l'utilità di un invaso sperimentale per procedere ad una graduale messa in carico della struttura e la necessità di effettuare tale invaso durante la stagione invernale quando tutta la zona del Toc è disabitata ci accordi, con cortese sollecitudine, l'autorizzazione, ringraziamo».

Lo stesso giorno vennero inviati al Servizio Dighe i diagrammi di cui è detto nella domanda. Poiché l'autorizzazione tardava, il prof. Dino Tonini, il 20 dicembre, ritenne opportuno effettuare una visita al Ministero dei Lavori Pubblici, senza peraltro ottenere tutti i frutti sperati. Onde, il giorno seguente, invio all'ing. Sensidoni nota «riservata» che si illustra da sola:
«Caro Sensidoni, sono stato leri a Roma per parlare con te e il Presidente in merito al richiesto invaso del Vajont da quota 640 a quota 680 nella speranza di poter concretare i 20 metri da 640 a 660 che mi avevi quasi promesso in occasione della mia precedente visita.
La concessione di questi 20 metri era subordinata all'invio tempestivo dei rapporti sulla situazione al 15 dicembre, rapporti che siamo riusciti a far pervenire a te e ai membri della commissione di collaudo e al Genio Civile il giorno 18 mattina! La questione è per noi di particolare importanza perché durante il periodo delle feste, data la riduzione dei carichi, anziché sfiorare potremmo utilizzare l'acqua esuberante di Pieve di Cadore per l'invaso del Vajont.

Purtroppo non ho potuto vederti e quindi ho parlato soltanto con il Presidente il quale, ovviamente, si è riservato di prendere qualsiasi decisione se non dopo aver conferito con te. Nel complesso però mi è sembrato piuttosto reticente per i 20 metri eh,; vorrebbe ridurre a 10, con una gradualità di invaso di 25-30 cm. al giorno. Per superare le feste, i 10 metri non sono sufficienti (ce ne vorrebbero almeno 15) ma pur che niente vengano pure i 10 metri. Questa soluzione, però, comporta che ai primi di gennaio si debba rifare un'altra volta la pratica, scocciando amici e uffici. Voglio sperare ancora che il tuo autorevole intervento possa portare ai 20 metri; l'importante è che la concessione ci arrivi prima di Natale. Non mi faccio illusioni che la lettera ufficiale possa partire prima di quella data, ma una assicurazione, anche verbale, in proposito ci sarebbe, provvisoriamente, sufficiente.

Scusa la seccatura e la fretta, ma la questione ci preme moltissimo, sicuro di avere in te un ottimo avvocato. L'ing. Biadene ti telefonerà domani mattina in ufficio sperando di trovarti e di avere notizie in proposito».

L'effetto venne questa volta rapidamente raggiunto, come si deduce, tanto che l'avv. Conte (quel professionista che a Roma completava le sottili e tenaci trame intessute dal prof. Tonini del quale abbiamo già parlato) poteva scrivere:
«Caro Tonini, in relazione agli accordi presi di persona nel nostro colloquio di mercoledi scorso nella segreteria del Presidente Batini, sono passato questa mattina dall'ing. Sensidoni per sollecitare l'autorizzazione all'ulteriore invaso del serbatoio del Vajont. L'ing. Sensidoni mi ha riferito di avere parlato per telefono alcuni minuti prima con l'ing. Biadene, e di avere concordato un maggiore invaso di metri venti da raggiungere con un aumento progressivo di un certo numero di centimetri per giorno. Mi ha assicurato che farà di tutto perché la lettera sia firmata in giornata di domani e sia possibilmente anche spedita.
Mi ha raccomandato però che la prossima volta che saranno trasmessi i dati di esercizio del serbatoio, in funzione delle autorizzazioni all'invaso già concesse, essi siano quanto più vicini al limite di autorizzazione da eseguire e non lontani da tale limite, come avvenuto nel caso in esame e sul quale ha riferito il Genio Civile di Belluno con la nota 19 dicembre corrente».
Con estrema celerità il 23 dicembre 1961 il presidente Batini firmò, come l'ing. Sensidoni aveva assicurato, l'autorizzazione che di seguito si trascrive:
«Premesso che con nota 16/11/1961 ho autorizzato ad inviare il serbatoio del Vajont fino a quota 640, cioè fino al livello dell'acqua già realizzato in precedenza, nella prima fase sperimentale; considerato il soddisfacente comportamento statico della diga; che il movimento franoso permane nello stato di quiescenza, mentre il livello dell'acqua nel serbatoio è salito oltre la quota 635 e quelli delle acque sotterranee, rilevati ai piezometri, risultano sempre indipendenti dall'invaso del serbatoio, come dimostrano i corrispondenti diagrammi di osservazione aggiornati al 15/12/1961; autorizzo a titolo sperimentale la Società Adriatica di Elettricità, a parziale accoglimento della sua istanza 5/12/1961, a procedere con l'invaso fino alla quota 655 effettuando incrementi giornalieri massimi non superiori a 50 cm.».
Il 27 dicembre non era ancora pervenuta alla Sade la formale autorizzazione scritta, onde venne nuovamente interessato il prof. Tonini, come risulta da una nota di appunto verosimilmente scritta da un impiegato della Sade per il suo capo ufficio:
«Invaso Vajont: alle ore 10 e alle ore 16 il Genio Civile non aveva ancora ricevuto niente. Ho informato subito l'ing. Tonini il quale ha telefonato a Roma e ha saputo che la nota era ancora lì. Comunque l'ing. Tonini telefonerà lui all'ing. Biadene e l'ing. Biadene a Lei. Non aggiungo altro perché quando arriverà questa mia nota Lei sapra già tutto».
L'autorizzazione scritta perverrà solo il 13 gennaio 1962 nel corso dell'invaso.
Il 10 dicembre 1961 l'assistente governativo - ing. Bertolissi - redasse il suo primo rapporto informativo, che venne inviato al Servizio Dighe il 22 dicembre 1961:
«Si trasmettono i diagrammi relativi agli strumenti di controllo della diga del Vajont e le osservazioni, diagrammate, dei caposaldi esistenti in sponda sinistra e dei livelli di falda rilevati in alcune sezioni lungo l'abitato di Erto (sponda destra) ed al Toc (sponda sinistra). Circa i diagrammi degli strumenti in corpo diga, essi presentano andamento regolare, rispondendo la diga elasticamente sia alle sollecitazioni termiche che a quelle del nuovo carico idrostatico.
Le osservazioni dei caposaldi sono tranquillanti. Si comunica che la società sta approntando una serie di caposaldi anche lungo la sponda destra. che verranno rilevatf non appena in funzione, cioè in previsione dell'ulteriore invaso del serbatoio.

Per quanto riguarda i livelli di falda, essi finora non danno notizie utili, essendo ancora breve la loro storia: abbassamenti o rialzi del livello stesso, del tutto indipendenti dal serbatoio (almeno finora) sono attribuibili alle caratteristiche geologiche della zona per cui non esiste una vera falda acquifera. Sono state eseguite alcune prove di attingimento per eliminare il dubbio che i fori fossero a tenuta stagna ed alimentati dall'alto. Tali prove hanno dati i risultati previsti.
Da tutti i diagrammi allegati si riscontra che l'invaso eseguito dalla societa su autorizzazione del Servizio Dighe, è stato mediamente di un metro al giorno».

Dal rapporto dell'ufficio studi della Sade è dato conoscere la situazione a fine dicembre dell'anno 1961, al Vajont:
«I punti di controllo situati nella zona del Toc non hanno rilevato nessun movimento» ...mentre «i controlli della falda freatica eseguiti nei fori piezometrici del Toc indicano che il livello delle acque sotterranee è influenzato dal livello del serbatoio soltanto nella parte più esterna della sponda dove l'incremento della quota osservata è pressappoco lo stesso di quello dell'invaso. Nella parte più interna (a circa 600 metri dalla sponda), in corrispondenza della sezione di misura 1, il livello sotterraneo sembra essere influenzato solamente dalle piogge. In corrispondenza della sezione di misura 2, l'osservazione dell'andamento della falda nell'interno della montagna non è possibile perché, come è noto, il foro piezometrico P4 è ostruito alla profondità di 40 m. I controlli della falda freatica eseguiti nei fori piezometrici nella zona di Erto, indicano che, in tale zona, l'andamento naturale della falda sotterranea non e stato disturbato dall'invaso.

«In conclusione quindi si può affermare che l'analisi di tutte le osservazioni eseguite nella diga, nelle sue imposte e sulle sponde del serbatoio, confrontate con le analoghe misure effettuate in occasione dell'invaso precedente, rilevano una situazione nei complesso normale, sia nel comportamento statico della struttura, sia per quanto riguarda la sicurezza delle spalle di imposta e la stabilità delle sponde del serbatoio compresa la zona franosa del Toc».

14.

Per il lettore che non l'avesse notato (ma è certo che non ve ne sarà uno) giova sottolineare la differenza di linguaggio tra il prima e il dopo la morte di Carlo Semenza e quella di Giorgio Dal Piaz.

Gioverà appena ricordare che nei 1960 c'erano state frane, che il bacino, fatto a clessidra, minacciava addirittura di otturarsi e che era stato necessario effettuare un cunicolo "bypass" per il passaggio delle acque tra la sezione a monte e quella verso lo sbarramento. Tutti fatti noti che aiutano a comprendere le perplessità prima, lo sconforto dopo, e la disperazione infine del più grande dei tecnici. Egli ha lottato con se stesso prima ancora che con Caloi e con Müller, e a lungo, prima di riconoscere che il grande Vajont, «uno dei sogni della mia vita», come ebbe a scrivere al prof. Marzolo, direttore dell'Istituto di Idraulica dell'Università di Padova, era non già la sua apoteosi, bensì l'espressione più drammatica del suo fallimento.

Ma quando a tali conclusioni egli giunse, non esitò un istante a trarre le conseguenze e bloccò tutto, ordinò che fossero eseguiti nuovi studi, non eluse, bensì provocò il giudizio dei suoi critici (15 febbraio 1960, lettera a Caloi: «Le sarei grato se Ella volesse confermarci che anche in profondità sono da escludersi delle superfici di discontinuità, indicandoci almeno approssimativamente le quote alle quali possono ritenersi estesi i risultati della Sua ricerca. Come Ella sa, è questo che soprattutto teme mio figlio Edoardo ...»).
Perché dopo la sua morte questo tono scompare, e il dialogo tra scienziati e tecnici e sostituito quasi d'acchito, brutalmente, dal linguaggio dei burocrati, di Stato e d'azienda, entrano ed escono dalla comune avvocati con l'incarico di sveltire le pratiche, i critici scompaiono e i rapportini diventano quanto mai rassicuranti, si dà luogo all'invaso prima ancora che pervenga l'autorizzazione ufficiale? perché quelle affermazioni improntate alla più grande sicumera («La diga del Vajont è imposta in un tratto di valle in roccia di sicura stabilità, come hanno dimostrato pienamente le estese e lunghe ricerche eseguite in sede di progetto, durante la costruzione della diga e, successivamente, le sistematiche misure di controllo, con l'impiego di numerosi apparecchi a lettura e a registrazione, installati anche nella roccia di fondazione ...», nota dell'ing. Batini); perché tutto questo, perché?

Perché molte cose andavano maturando. Il centrismo, in Italia, era sul punto di spegnersi e stava nascendo il primo governo di centro-sinistra, capeggiato dall'uomo più aborrito dalla Destra economica italiana: Amintore Fanfani. Riandiamo per un attimo al passo della lettera inviata da Semenza al direttore generale della Sade, ing. Antonello, il 28 gennaio 1957.

«... Non possiamo quindi pretendere che il Genio Civile chiuda gli occhi e, promettendo prossima la presentazione del nuovo progetto, abbiamo dovuto aderire al desiderio dell'Ufficio di Belluno di una comunicazione generica, che abbiamo fatto con la lettera di cui accludiamo copia. Riteniamo che il testo di tale lettera, quanta mai laconica, non sia in contrasto con altre comunicazioni eventualmente da Lei fatte in altre sedi e non pregiudichi eventuali aspirazioni di più favorevoli trattamenti in fatto di contributi...»
Già: i contributi. È necessario chiarirci un attimo le idee su questo punto. Nel 1934 l'allora ministro dell'Industria Giuseppe Volpi di Misurata, presidente e fondatore della Sade, aveva fatto approvare dal governo fascista una sua legge secondo la quale alle società idroelettriche concessionarie erano rimborsate le spese per la realizzazione degli impianti fino all'80 per cento, salvi restando loro i diritti di sfruttamento trentennale. Una legge «ad hoc», evidentemente, che non è stata mai abolita, a quanto mi consta; non lo era almeno al momento della tragedia e, se mai, è da ritenersi 'assorbita' con l'avvenuta nazionalizzazione. Poiché, come lo stesso Semenza era costretto a scrivere, «le aspirazioni di più favorevoli trattamenti in fatto di contributi» erano tali da portare le società concessionarie (Sade, Edison, Valdarno e altre) ad essere coperte da ogni rischio finanziario; dal momento che, come più volte ha avuto modo di scrivere Ernesto Rossi, per chi era sostanzialmente il solo a fare i conti era facile dimostrare che il centodieci per cento era, nella realtà, l'ottanta; e poiché, per effetto di quella stessa legge, il contributo a fondo perduto dello Stato era concesso soltanto se il collaudo degli impianti veniva effettuato, si deduce con estrema facilità che la Sade aveva urgenza di collaudare la diga e il bacino del Vajont per entrare in possesso del contributo statale, valutato intorno ai venti miliardi, e che le perplessità di Carlo Semenza, non meno di quelle del vecchio Giorgio Dal Piaz, o delle prese di posizione critiche di Müller, Caloi, Edoardo Semenza, Giudici, costituivano intralci che si andavano facendo di giorno in giorno sempre più fastidiosi.

15.

Chissà mai se Semenza avrebbe potuto resistere alle pressioni del consigho di amministrazione della Sade perché fosse effettuato tempestivamente il collaudo dopo l'annuncio, dato da Fanfani, della nazionalizzazione delle fonti di energia elettrica. Ciò infatti, che prima era solo considerata una fastidiosa attesa, diventava, da quel momento, una inderogabile necessità, con scadenze tecniche ben precise perché, se il collaudo non fosse stato effettuato entro i termini della nazionalizzazione che, come si vedrà, sono rimasti limitati al giugno 1963, dei venti miliardi probabilmente non si sarebbe più parlato.

E anche qui bisogna intenderci su ciò che è il contributo, in base alla legge 1934, e ciò che è l'indennizzo dovuto alla legge di nazionalizzazione. Di fronte all'offensiva propagandistica effettuata dalle destre in quell'occasione per compiere l'opera di sbarramento nei confronti del nuovo governo di centro-sinistra (appoggio esterno dei socialisti) varato nel febbraio del 1962, e per ostacolarne la più importante realizzazione, vale a dire la nazionalizzazione dell'energia elettrica, bisogna dire che lo Stato ha dato una ben modesta prova di sè. Gli impianti che ha pagato qualcosa come seimila miliardi, erano stati in realtà già pagati e strapagati, e con i contributi, e con i diritti di sfruttamento, con i comuni montani costretti in continuazione a promuovere cause alle società concessionarie per il pagamento dei 'sovraccànoni'. Hanno avuto pertanto, prima il contributo della 'legge Volpi', e dopo l'indennizzo della "legge di nazionalizzazione": doppio pagamento, per un unico prodotto. Ma, come abbiamo visto, la diga del Vajont non era stata collaudata.
Bisognava fare presto, prestissimo.

Aveva fatto fin troppo bene Carlo Semenza a non fidarsi che di se stesso. La sua corrispondenza, infatti, assume un tono con i suoi critici, e un altro con quelli che potremmo definire i suoi subalterni, non escluso il Biadene che, da quanto si rileva dalle sue stesse parole, deve sempre avere nutrito nei suoi confronti un complesso marcatissimo di inferiorità. Semenza, non dimentichiamocelo, nei rapporti umani era affabile, ma nel lavoro aveva tutto dell'autocrate, tanto da potersi esprimere con tono perfino distaccato nei confronti dello stesso Vittorio Cini: "Mi pare che tutto sommato lui (Cini) sia soddisfatto della cosa, ma se anche non lo è, non è che conti molto, il tecnico sono io e conta ciò che decido io".
Biadene non aveva (e non ha) sicuramente questa statura umana e professionale, al punto che, una volta avuta l'investitura di capo dei servizi tecnici della Sade in un momento di estrema delicatezza, ha messo lui stesso le mani avanti per dire, in sostanza: "guardate che quello, il morto, gli affari se li è sempre fatti da solo, qualche volta si degnava di scrivermi o di parlarmi, ma in realtà non mi ha mai considerato più di tanto". E se tanto vale per Biadene, ognuno immagini per conto suo cos'era mai di Pancini.

16.

Ecco, dunque, quali uomini avrebbero dovuto dire no al grande vecchio della finanza veneta e italiana, Vittorio Cini, quando questi, cosciente di avere perduto la sua battaglia politica con il centro-sinistra, s'era all'improvviso trovato nelle condizioni di dire, all'incirca, che facessero quel che volevano, ma collaudassero il Vajont: si venga a casa con i contributi e non se ne parli più.
Non voglio qui ripetere il capitolo del mio libro - il secondo della seconda parte (Vedi, nella presente edizione, da pagina 82 a pagina 94. N.d.R.) - dove queste cose sono già dette in modo che mi pare abbastanza chiaro, anche se allora si trattava soltanto di ipotesi di responsabilità, non essendo allora disponibile l'attuale documentazione. Basti solo dire, a mò di conclusione di questa parte del discorso, che il collaudo è stato tentato e solo quando ormai la fine era imminente. Biadene, scrivendo a Pancini e pregandolo di rientrare dall'estero precipitosamente, s'è lasciato sfuggire la frase: «E che Dio ci aiuti!».

17.

E dopo? I fatti sono troppo noti per essere qui sia pure brevemente riepilogati. Lo stupore destato dai risultati dell'inchiesta parlamentare Rubinacci; la costernazione ancora più profonda delle risultanze della commissione Gortani/Desio; l'angoscioso appello di Protti che non trovava esperti per una controperizia: tutto questo costituisce l'ultima, disperata, anche se proterva negli aspetti esteriori, difesa del monopolio agonizzante per salvare se stesso, più che dal danno economico, dal giudizio della Storia.
Perché, in fondo, chi ha capito che lì era in giuoco qualcosa di più della sorte di qualche ingegnere burocrate e di qualche diecina di miliardi, è stato proprio ciò che è rimasto del monopolio elettrico, che ha dapprima tentato di scaricare tutta la colpa sull'Enel, riuscendo perfino a farsene un alleato. Mettere allo scoperto tutta la storia del Vajont significava spiegare il perché, in cinquant'anni di storia economica, alcuni feudi erano diventati, come aveva sempre sostenuto apertamente Ernesto Rossi, degli autentici "stati nello Stato"; come la corruzione, il servilismo, la paura, la meschinità talvolta, si siano spesso sostituiti al senso di responsabilità e al discernimento critico. Una ristretta classe di imperatori della Finanza che ha sempre seguito da altezze stratosferiche l'evolversi delle vicende umane poteva perfino dire: «Tenetemi su il Toc finché non se lo prende lo Stato, e dopo se la veda lui», e non pensare che la montagna avrebbe potuto anche disobbedire.
Il processo del Vajont, nella sua sostanza vera, avrebbe sviscerato tutto questo, ed era questo che bisognava evitare. Uscire dalla comune con la gloria e non con l'ignomìnia. Quanto meno, con la coscienza il più possibile tranquilla. E quanto fosse tranquilla la coscienza di Vittorio Cini, per citare uno dei grandi protagonisti della vicenda che nell'aula giudiziaria non comparirà mai, abbiamo avuto modo di vedere.

Sembrava perfino che il risultato fosse dato per scontato. All'angoscia di Protti, alla fine di quel 1965, corrispondeva un senso di disfacimento morale delle popolazioni che ha dato vita appunto a "Le ombre di Erto e Casso". Così la conclusione: «Qualunque altra cosa possa succedere, non sara più una cosa importante», che dice lo stato d'animo di quei giorni. Ma ci sbagliavamo tutti, evidentemente.

Evidentemente gli dèi della grande finanza sono giunti al crepuscolo. La nuova società dei manager (ricordate la battuta? per un padrone che muore è un manager che subentra) non vuole ombre, né remore dietro di sè. Il neocapitalismo potrà concepire nuove forme di concentrazione industriale e finanziaria e anzi i fatti più recenti tendono a confermarlo: ma su un piano di rapporti ben diverso rispetto ai pubblici poteri, che a loro volta tendono a consolidare la loro parte di influenza su basi meno farraginose, in senso progressivo, se non proprio progressista. Gli uomini nuovi hanno idee nuove e un Vajont di mezzo, tra il vecchio e il nuovo, costituisce motivo di imbarazzo per i secondi, non meno che per i primi.

Per un Vittorio Cini che sulla scìa aperta da Volpi di Misurata va tramontando, c'è un Valeri Manera che sorge. La Sade Finanziaria è diventata una tranquilla società che gestisce supermercati. Valeri Manera è vergine da ogni responsabilità o corresponsabilità nelle vicende del Vajont. Prima ancora che un capitano d'industria (per essere presidente degli industriali veneziani ha dovuto comperare un modesto jutificio a San Donà di Piave e trasformarlo), egli è il tipico manager nel senso più completo del termine, in quello cioè inteso da Giannino Marzotto nell'episodio ricordato: quello che presuppone la trasformazione in senso profondo della vocazione imprenditoriale. E uguale discorso va fatto a Milano, e a Torino. Per un Giorgio Valerio che declina, ecco un Piero Bassetti che si impone, una specie di sinistra kennedyana, se vogliamo, che scalza gli ultimi residui del liberismo classico, del «laissez faire». La contestazione può avvenire solo a livello ideologico, fuori del sistema: e allora il discorso cambia. Ma nel Sistema non vi sono alternative a quella che è oramai una irrefrenabile tendenza al rinnovamento delle strutture e dei rapporti nelle classi e tra le classi.

Ogni economia, oggi, in campo occidentale, è un'economia mista. E come tale deve lasciare spazio e responsabilità al dirigente, al manager, sia egli padrone o semplice funzionario. A questa categoria appartengono i Lissandrano, i Piantini, lo stesso Giannino Marzotto nei confronti del padre Gaetano, per molti versi Valeri Manera nei confronti di Vittorio Cini, Piero Bassetti nei confronti di Giorgio Valerio: alla classe dei cortigiani, dei burocrati senza volontà e senza idee appartengono gli imputati del processo del Vajont. Il vero pericolo e il vero limite sono costituiti proprio dalla personalità dei tecnici rinviati a giudizio.

Comunque vadano adesso le cose, due magistrati tanto bravi quanto modesti, Mario Fabbri, il giudice istruttore, e Arcangelo Mandarino, il procuratore, hanno lavorato con pazienza e con tenacia, spesso contro tutto e tutti, ma con la precisa volontà di fare luce, piena luce su tutta la storia. Potremmo perfino dire che basterebbero quegli atti istruttori a dare tranquillità alla coscienza di chi si è sempre battuto perché la storia del Vajont non fosse, come tante altre, frettolosamente dimenticata.
La loro opera, dopo momenti di profonda amarezza, di grande disagio morale, ridà un senso alla Giustizia, e pone la tragedia nella sua esatta dimensione. Spetta, ora, al processo e ai suoi protagonisti d'essere all'altezza del compito che la Storia ha ad essi affidato.

Venezia, 6 novembre 1968

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