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news
La Frana del Vajont
9 ott 1963 Longarone
BL
aggiornato al
19/12/2010
webmaster Isidoro Bonfa'
La
testimonianza del geologo Valerio Spagna immediatamente accorso sul luogo
del disastro
Poi a Belluno e verso Ponte nelle Alpi, come
attratto da un forte magnete. La strada era sbarrata dai Carabinieri: non
si poteva accedere nella valle del Piave. Ormai era chiaro che la diga del
Vajont aveva ceduto e alluvionato l'intera vallata.
Volevo raggiungere la diga, che conoscevo
bene perché l'avevo vista crescere dalle fondazioni al suo coronamento a
267 metri sul fondovalle. Sono ritornato verso Agordo e da lì ho preso la
strada del Passo Duran che sale fino a 1.600 metri per poi scendere verso
lo Zoldano. Man mano che scendevo, questa volta solo, verso la valle del
Piave proprio davanti a Longarone, un'aria di tragedia mi avvolgeva e la
testa mi girava. Le prime voci concitate venivano dalle abitazioni di
Longarone poste più in alto. Una fila di uomini sul bordo della strada che
guardavano in basso nella vallata. Ho lasciato la macchina e mi sono unito
a loro.
Passavano in rassegna a quelle che dovevano
essere le case che conoscevano, esclusivamente per la posizione che
avevano occupato, nominando quelli che l'abitavano. Era un elenco
doloroso: "la bottega della Giulia?" Nìja, nìja! recitavano in coro. "Dove
che stava el Nàni?" Nìja, Nìja! "La casa del postìn?" Nìja, nìja! E la
litania concitata proseguiva stringendomi un nodo alla gola, con quel
"niente!, niente"! cadenzato. Poi delle lampade da minatore rette da una
fila di alpini che tenevano sulla spalla ciascuno un rotolo di corda. Si
tenevano fra loro legati da un'unica lunga fune marciando in silenzio e si
sentiva, nel sottofondo di urla soffocate e di pianti dolorosi, l'incedere
degli scarponi sul detrito del sentiero che percorrevano.
A quel punto non potevamo fare a meno di
guardare in alto, verso la diga. Tutti guardavano in quella direzione con
un misto di paura e di odio. Era l'una di notte e la sezione della valle
del Vajont era occupata dalla luna che diffondeva un chiarore nitido in
una nottata neanche tanto fredda. Sembrava chiaro a tutti che la diga non
c'era più: quell'incisione a "V" della sezione valliva sembrava fin troppo
profonda perché apparisse ancora il corpo della diga. Ma ben presto ci
siamo accorti, con il passaggio della luna dietro il Monte Toc, che quell'incisione
valliva profonda che aveva fatto pensare fosse una sezione del cielo non
era altro che il riflesso luminoso dell'acqua che continuava a tracimare
copiosa dal bacino.
Solo con le prime luci dell'alba si vedeva
con chiarezza il grigio della murata a cupola del calcestruzzo della diga
con la cascata di residui rivoli d'acqua che andavano estinguendosi. La
piana del fondovalle del Piave appariva ora come una spianata bianca
e deserta, senza più case ed era completamente denudato il colle dove
sorgeva l'abitato di Pirago, riconoscibile come ubicazione solo dal
campanile rimasto miracolosamente accerchiato dall'ondata che aveva
smantellato e levigato tutto intorno il resto della frazione. Corpi
grigi completamente svestiti dalla furia delle acque, mani di donne
pietose che si aggiravano per ricomporli. Un'aria di completa disfatta e
un senso di inutilità da parte dei soccorritori che non potevano fare
assolutamente niente che non fosse un gesto disperato con le mani che
tenevano la testa. Dappertutto un mare di fango.
Le pietre, inglobate nel fango,avevano
preso l'aspetto di una colata di lava. Su quella superficie molle si
stagliavano le uniche forme intere: quelle grandi o più piccole dei corpi,
denudati o con gli abiti incollati addosso dal fango.
La grande distesa dove sorgeva Longarone mi
appariva come un'enorme landa deserta; un paesaggio allucinante e
sconosciuto per l'ambiente di un fondovalle alpino. Le forme umane che si
muovevano senza sapere dove andare e gli uomini del soccorso, impotenti,
apparivano piccolissimi.
Un
ultimo sguardo angosciato da Pirago sulla vallata. Presso la mia macchina
parcheggiata c'era un camion con le sponde abbassate: e stava caricando i
corpi che venivano via via estratti dal fango.
Ho ripreso la strada del Passo Duran e sono
andato direttamente a scuola senza cambiarmi. Il preside aveva radunato
gli studenti e il corpo insegnanti nel piazzale dell'Istituto. La radio
aveva dato la notizia del disastro. Sentivo le sue parole inadatte e
stonate perché non consapevoli dell'entità della catastrofe. Sono rimasto
impietrito quando ha soppesato il costo umano "che come sempre, e come in
miniera, è necessario e ineluttabile nel processo per lo sviluppo e il
miglioramento della condizione umana (!)".
Chiudevo gli occhi e vedevo quella
condizione umana nella distesa
di fango a Longarone che avevo appena lasciato e appena li riaprivo vedevo
i compagni della Terza che si stringevano intorno alla capigliatura
rossiccia scomposta di Dal Molin. Aveva gli occhi gonfi ma non piangeva:
la sua famiglia era interamente scomparsa.
Nei giorni che seguirono, altre vittime
venivano trovate nella vallata del Piave anche più a valle e fin quasi a
Feltre. In un'ansa del Piave, a Santa Giustina Bellunese, avevano tirato
giù un corpo imprigionato a più di due metri di altezza in un intrico di
rami lungo la sponda del fiume. E questo dava l'idea della portata
istantanea dell'ondata di piena che si era rovesciata dal lago del Vajont
e della sua energia distruttrice che si era abbattuta quasi 30 chilometri
più a valle.
Nelle settimane successive si è riversata
un'alluvione nelle pagine dei giornali. Nei mesi precedenti alla frana del
Vajont c'erano stati movimenti continui e sospetti, ma nascosti
all'opinione pubblica perché si stava completando la cessione degli
impianti della SADE al nuovo Ente ENEL, nato per nazionalizzare l'energia
elettrica sull'intero territorio nazionale.
Il progetto della diga ad arco di Digomàn, sul Cordevole e che doveva formare un nuovo lago a monte di quello di
Alleghe, non è pi proseguito. Restano ancora oggi, davanti all'abitato di
Laste, alcuni conci in calcestruzzo della spalla sinistra come un mònito
che azzerava l'orgoglio dei costruttori italiani. La diga di Kariba sullo
Zambesi in quegli anni era stata considerata un emblema dell'ingegneria
italiana nel mondo.
A fare da controaltare, l'accorato corsivo
sul Corriere della Sera di un appassionato bellunese famoso, lo scrittore
Dino Buzzati. Concludeva il suo articolo "Natura crudele" con l'urlo:
«il monte che si è rotto e ha fatto lo sterminio è uno dei monti della mia
vita il cui profilo è impresso nel mio animo e vi rimarrà per sempre.
Ragione per cui chi scrive si trova ad avere la gola secca e le parole di
circostanza non gli vengono. Le parole incredulità, costernazione, rabbia,
pianto, lutto, gli restano dentro con il loro peso crudele».
Non voleva vedere ancora quanto fossero
stati invece la crudeltà, l'insipienza e i limiti della cultura umana a
scatenare la Natura!
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Video dello
spettacolo di Marco Paolini
Coppia stereoscopica del
versante del distacco
LA DIGA
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Un tempo, leggevi queste cose e ti trovavi su www.vajont.org.
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