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di Floriano Calvino, Sandro Nosengo, Giovanni Bassi, Vanni Ceola, Paolo Berti, Francesco Borasi, Rita Farinelli, Lorenza Cescatti, Sandro Gamberini, Sandro Canestrini

Un processo alla speculazione industriale

La strage di STAVA

negli interventi della parte civile alternativa
Edizione a cura del Collegio di difesa di parte civile alternativa
© Trento, 1989

Alla memoria di 269 vittime
della speculazione e dello
sfruttamento insensato del territorio
e alla memoria di Floriano Calvino
che - dalla parte delle vittime,
come sempre - si schierò,
con intelligenza e con amore.

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INDICE

Presentazione - pag. 5

Premessa - pag. 9

LA PERIZIA DI PARTE CIVILE, di Floriano Calvino 15

CONSIDERAZIONI TECNICHE DOPO IL PROCESSO DI PRIMO GRADO, di Sandro Nosengo e Giovanni Bassi - 29

LE COLPE DEGLI IMPUTATI, di Vanni Ceola - 49

LA MONTEDISON: SUPERFICIALITA' E PROFITTO, di Paolo Berti - 75

IL SONNO DELLA RAGIONE HA DISTRUTTO STAVA, di Francesco Borasi - 89

I ROTA: DAI GELATI ALLE MINIERE, di Rita Farinelli - 113

LE OMISSIONI DI CURRO' DOSSI E PERNA, di Lorenza Cescatti - 129

IL RUOLO DEL DISTRETTO MINERARIO, di Sandro Gamberini - 143

DAL VAJONT A STAVA: LA MONTEDISON NON E' CAMBIATA, di Sandro Canestrini - 161

APPENDICE I

Dalla relazione della Commissione tecnico-amministrativa di inchiesta nominata dal Consiglio dei ministri - 179

APPENDICE II

Dall'articolo: «I bacini di decantazione dei rifiuti degli impianti di trattamento dei minerali» del prof. Giovanni Rossi (Industria Mineraria, nn. 10 e 11, 1973) - 193

PREMESSA

Alle 12 e 22 del 19 luglio 1985, in una piccola valle laterale alla valle di Fiemme in Trentino, la valle di Stava, si verificò uno dei più tragici disastri industriali accaduto in Italia: il crollo dei due bacini di decantazione costruiti nei pressi della miniera di fluorite di Prestavel.

I bacini venivano utilizzati per il lavaggio dei materiali scavati nella miniera e per il deposito delle scorie del materiale estratto. Essi vennero edificati l'uno sopra l'altro e dominavano la stretta e ripida val di Stava, abitata nei giorni del disastro, oltre che dai residenti, da numerose centinaia di turisti, i più alloggiati presso gli alberghi della zona.

Il crollo dell'argine del bacino superiore pose in moto l'enorme massa dei limi ivi depositati, che dopo essersi riversati in quello inferiore, mescolati ai materiali contenuti in quest'ultimo, si diressero, in una tragica corsa, giù per la valle fino all'abitato di Tésero ed oltre, spazzando via, lungo il loro percorso, ogni persona ed ogni cosa.
269 persone morirono: una strage. Molte di loro non furono più ritrovate. Vennero completamente distrutti 56 fra case ed alberghi, 6 capannoni artigianali, 8 ponti; altri nove edifici vennero gravemente danneggiati. Tutto travolto dai 170.000 mc di materiale fuorusciti dai bacini.
La memoria non può non tornare ai 2.000 morti del Vajont, altro bacino targato Enel, Sade, Montedison, travolti dall'acqua sollevata dalla frana del monte Tòc. Ma anche al processo che si svolse a Trento per giudicare i responsabili dei morti della funivia del Cermis, caduta proprio di fronte alla val di Stava. Quel processo terminò con la condanna di colui che rappresentava l'ultima ruota del carro: il manovratore della cabina.

Le analogìe fra i processi del Vajont e del Cermis e quello di Stava non sono poche.
L'allora Presidente del Consiglio, Giovanni Leone, che a Longarone, nel 1963, pellegrinando sui luoghi della tragedia aveva promesso giustizia, pochi anni dopo non ebbe alcuna rèmora ad assumere la difesa dell'Enel.

Di fronte ai superstiti di Stava, il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, affermò: «Sarà fatta giustizia, una giustizia non irata, ma serena e severa». Ma tre anni dopo, all'apertura del processo lo Stato, che avrebbe dovuto costituirsi parte civile, non si presentò, rimase assente, in violazione dei propri stessi interessi e di quelli della collettività nazionale.

L'istruttoria del processo dl Stava non iniziò in modo migliore. Anziché operare immediati sequestri dei documenti depositati in Provincia, il Procuratore della Repubblica, Francesco Simeoni si limitò, con atteggiamento incredibilmente ossequioso nei confronti del potere, a pregare cortesemente il Presidente della Giunta provinciale di consegnare la documentazione esistente presso gli uffici provinciali.
Ed alla domanda del giornalisti che paventavano per il processo di Stava la stessa conclusione di quello del Cèrmis, lo stesso Simeoni testualmente esclamò: «Questa volta faremo giustizia!»

La prima fase dell'istruttoria fu contrassegnata dalle polemiche fra alcuni difensori dl parte civile ed il Procuratore della Repubblica. Ai difensori di parte civile che richiesero la formalizzazione dell'inchiesta, nel rispetto del codice di procedura penale, il magistrato, non solo rispose negativamente, ma dichiarò che chi aveva presentato l'istanza 'rappresentava solo una piccola parte dei famillari delle vittime'.
Nel frattempo, ai cinque ordini di cattura, seguirono presto cinque ordini di scarcerazione, ai numerosi ordini di comparizione seguirono le archiviazioni e il proscioglimento degli imputati "politici" e di alcuni fra gli imputati "tecnici". Nel novembre 1986 venne depositata la consulenza tecnica del quattro periti d'ufficio, i professori Colombo, Datei, Fuganti e l'ing. Dolzani.

Il 20 novembre 1986 vennero inviati mandati di comparizione nei confronti dei 16 imputati rimasti dalla precedente scrematura.

Il 25 maggio 1987 il giudice istruttore, Carlo Ancona, depositò la sua sentenza-ordinanza. In essa rinviò a giudizio i dirigenti Montedison e Fluormine Alberto Bonetti, Antonio Ghirardini, Giuseppe Lattuca, Alberto Morandi, Fazio Florini e Sergio Toscana, i dirigenti dell'ultima concessionaria della miniera, Prealpi Mineraria, Vincenzo Campedel e Mario Garavana e i due responsablli del Distretto minerario della Provincia autonoma di Trento, Giuliano Perna ed Aldo Currò Dossi.

In accoglimento delle impugnazioni proposte dalla Procura della Repubblica e dalla Procura Generale della Repubblica, la Sezione istruttoria della Corte d'Appello rinviava a giudizio anche l'amministratore della Prealpi Mineraria, Aldo Rota, ed il responsabile del Servizio Minerario della Provincia autonoma di Trento, Giuliano Murara.

Il processo di primo grado si aprì, davanti al Tribunale di Trento, composto da tre giovani magistrati, Marco La Ganga, Alberto Pallucchini e Dino Erlicher, l'8 aprile 1988.
L'8 luglio il Presidente del Tribunale lesse il dispositivo della sentenza: Alberto Bonetti, Fazio Fiorini e Antonio Ghirardini vennero condannati alla pena di 5 anni di reclusione; Vincenzo Campedel e Aldo Currò Dossi alla pena di 4 anni; Sergio Toscana e Alberto Morandi a quella dl 3 anni e 6 mesi, a 2 anni e 6 mesi Giuseppe Lattuca, Giulio Rota e Giuliano Perna.
Giuliano Murara venne assolto per non aver commesso il fatto e Mario Garavana per insufficienza di prove.

Tre anni per celebrare il primo grado di un processo possono apparire molti. Ma per lo stato della giustizia in Italia, obiettivamente, non lo sono.
Le condanne sono state certamente miti. Il riconoscimento di responsabilità nella causazione della morte di 269 persone non può ridursi, in una società civile, in una condanna a due anni e sei mesi e neppure ad una a cinque anni di reclusione. Ad una pena, per di più, che non sarà mai scontata se - come ormai appare inevitabile - i prossimi giorni ci consegneranno l'ennesima amnistìa.
In tal modo i responsabili di 269 omicìdi, finiranno col non pagare neppure la contravvenzione che paga chi lascia l'automobile in sosta vietata.

Il 9 ottobre 1989 si aprirà il processo d'appello sul quale aleggerà, col suo peso insopportabile, l'imminente provvedimento di clemenza. Se così sarà, se l'amnistìa verrà a coprire anche i resti di Stava, «i colpevoli del disastro», come li definì nella sua perizia Floriano Calvino, l'indimenticabile geologo alla memoria del quale è dedicato questo libro, saranno la testimonianza vivente del baratro in cui è ormai finita la giustizia nel nostro Paese.

Quella «storia di straordinaria superficialità», quella «storia di ordinaria cinicità», come venne definita da un difensore la vicenda che ha sconvolto la vita di migliaia di persone, diverrà un'ulteriore pagina nera nella storia dell'Italia democratica.

Questo libro vuole essere testimonianza dell'impegno civile di molti professionisti, avvocati e geologi, all'interno del processo. Raccoglie alcuni documenti significativi, le perizie dei consulenti e le arringhe degli avvocati, che fin dai primi giorni si impegnarono nella lunga battaglia giudiziaria, assistendo numerosi superstiti e la loro ansia di Giustizia.

Vennero definiti "alternativi" dalla stampa perché, come raramente accade in un processo di questo genere in Italia, non si posero come obiettivo principale la ricerca del risarcimento del danno, bensì quello dello smascheramento del colpevoli, del ristabilimento della giustizia violata. La loro presenza ha rappresentato la coscienza critica del processo.

Il libro contiene inoltre stralci di due documenti particolarmente significativi: lo studio del prof. Rossi, apparso nel 1979 sulla rivista «L'industria Mineraria» e contenente, fra l'altro, un'analisi critica dei metodi di accrescimento dei bacini di Prestavel; e la relazione della Commissione ministeriale, che rappresenta una pesante requisitoria a carico dei responsabili del disastro.

Il libro, attraverso le arringhe degli avvocati di parte civile, dà una visione complessiva ed esauriente della tragedia di Stava. Vengono via via analizzati prima i problemi tecnici e poi le responsabilità dei vari imputati e degli Enti da cui dipendevano. Questo libro vuol essere un contributo per aiutarci - parafrasando Brecht citato da Sandro Canestrini - a 'non trovare naturale, quello che succede ogni giorno'.

Alcuni dei testi che formano questo libro sono la fedele trascrizione degli interventi svolti nel
corso del processo: mantengono per questa ragione lo stile discorsivo usato nelle arringhe.
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Un tempo, leggevi queste cose e ti trovavi su www.vajont.org.
Poi sbucarono - e vennero avanti - i delinquenti, naturalmente quelli istituzionali ....

  


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« VOMITO, ERGO SUM »

Fortogna:
nella foto sotto, il *Giardino delle bestemmie* attuale, un fal$o TOTALE dal 2004: un falso storico, fattuale, e ASSOLUTAMENTE IMMORALE da 3,5 mln di Euro. Un FALSO TOTALE e oggettivo - a cominciare dai FALSI cippi «in marmo di Carrara» - targato *sindaco De Cesero Pierluigi/Comune di Longarone 2004*.
Oggi questo farlocco e osceno «Monumento/sacrario» in località S. Martino di Fortogna riproduce fedelmente in pianta e in miniatura, come un parco "Italia" di Viserbella di Rimini, il campo "B" del lager nazista di Auschwitz/Birkenau. Fantastico, no? ed e' la verita' verificabile ma se solo ti azzardi a dirlo o far notare le coincidenze, sono guai. $eri. Perché... qui in Italia, e soprattutto in luoghi di metàstasi sociale e interessi inconfessabili come la Longarone 'babba' ... «la Verità si può anche dire. Ma però che non ci sia nessuno che l'ascolti (o legga!)»

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Ma tutto deve andare come da copione, in Longar-Corleone. Dal dicembre del 1964 qui è così: lo mise nero su bianco gente colle spalle ben più larghe delle mie, e in tempi non sospetti:

«E' quasi come in Sicilia, mi creda; a Longarone si configurano gli elementi tipici della mafia. Non è questione di partito 'A', o 'B'; c'è un determinato giro fatto di poche persone all'interno del quale non entra nessuno. Il potere è in mano a costoro, cinque o sei persone a Longarone, e poi qualche diramazione fuori, cioè altre persone nei posti giusti, perché un sistema del genere non può sopravvivere se non c'è corruzione».
Fonte: Giampaolo Pansa, sul Corriere della Sera del 9 ottobre 1973; sta riportato sul libro della Lucia Vastano. LIBRO CONSIGLIATISSIMO.

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