Alla memoria di 269 vittime della speculazione e dello sfruttamento insensato del territorio e alla memoria di Floriano Calvino che - dalla parte delle vittime, come sempre - si schierò, con intelligenza e con amore.
Una grande alienazione, una grande rimozione, grandi silenzi. Che altro erano quelle udienze senza fine, scandite da un salmodiare monocorde su inafferrabili calcoli statici, dal fitto parlottìo delle cifre, da fluviali ricerche lungo il percorso delle proprietà, delle responsabilità, delle pratiche? Certo, anche gli algoritmi hanno una loro evidente e vistosa eloquenza, hanno un fragore accusatorio importante, in un processo in cui si discute principalmente in punta di perizie, nel quale si disserta se una certa ingegneria è stata un'ingegneria di precisione o un'ingegneria di avventura, dove il nodo da sciogliere è, in buona sostanza, il seguente: dove si è spezzato, quando si è spezzato, come si è spezzato quell'equilibrio possente e fragile, necessario e vulnerabile, tecnico e morale, in base al quale una qualunque impresa di civiltà industriale è (o non è) a misura della vita umana, è (o non è) a misura delle leggi penali, è (o non è) a misura dell'ambiente naturale.
Anche gli algoritmi dunque entrano - e come entrano! - in un discorso di giustizia. E tuttavia ecco per chi, come me, giurista non è, ecco lo sconcerto, ecco il turbamento, ecco il brivido sottile e gelido di un processo in cui si giudica una delle stragi più orrende di questo secolo, lo sconvolgimento di una vallata d'incanto, lo scempio di una comunità compatta nelle sue attese e nella sua laboriosità, e che si svolge come in una sorta di sterilizzatissimo laboratorio, in una sorta di procedimento 'in vitro', perfetto, sincronizzato, calibrato, disinfettato, però senza un sussulto di adrenaline umane, senza un singulto di passione, senza una scossa non dico di collera (siamo in tribunale, lo so ...) ma almeno d'insopportazione per questo "due più due" ingegneristico, tecnico, manageriale, che quando non fa quattro produce quel che produce. Produce duecentosessantanove morti a Stava fra la gente in vacanza e la gente che lavora, in una tarda mattinata di luglio, quasi all'ora del desinare.
Ci sarà pure stato un calcolo non semplicemente statico dietro quei bacini d'argilla male pensati e peggio costruiti. Ci sarà pure stata una speculazione non meramente ingegneristica dietro quel raschiare tutto ciò che c'era da raschiare nella montagna di Stava. Ci sarà pure stato un fondo, una fine, che si dovevano prevedere in quel passarsi di mano quella vecchia miniera, in quell'affare partito in grande e finito in piccolo, in quel 'business' che all'inizio faceva gola ai grandi monopòli e alla fine, all'ultima spremitura, arriva nelle mani di quegli strani personaggi dai molti mestieri, di poche parole e di slanci modesti, che abbiamo conosciuto al processo. Ci sarà pure stato un dubbio, un trasalimento, un turbamento qualsiasi in quel mesto passamano di pratiche da una scrivania all'altra, da un ufficio all'altro, da un timbro all'altro di burocrati e controllori, esperti e politici che hanno sprofondato nel rossore la forte ed efficiente autonomìa trentina, tanto perfetta nel rimuovere il fango e nell'organizzare funerali televisivi, quanto imbambolata, incerta, contraddittoria, confusionaria, nell'impedire quel fango e nell'evitare quei funerali. Insomma come sono maturati quei calcoli di morte, come s'è speculato su quella miniera, come non si è previsto che il fondo sarebbe arrivato, come s'è svolta quella sorveglianza dormigliona?
C'è, deve esserci, tutta una storia di dubbi non verificati, di scrollatine di spalle, forse di ammiccamenti colpevoli in questa sciagurata vicenda di Stava, nell'ingordigia che l'ha accompagnata, e nell'infinita serie di trascuratezze che l'hanno determinata. E allora perché quegli imputati così estraniati, simili a sfingi patetiche e senza emozioni? Perché quella colossale rimozione di memoria umana e di memoria politica che, a pochissimi giorni dalla strage, s'è messa in moto per far sì che della tragedia nulla rimanesse al di là della scomoda incombenza processuale? Perché il frettoloso 'maquillage' che, a tempo di record, ha tolto dalla levigatissima immagine di questa bella provincia ogni più piccola traccia dell'immane sfregio? Perché quel processo di "non ricordo" e di linguaggi cifrati, simili a lunghi silenzi della memoria e della coscienza?
Questo volume, oltre che un documento e una testimonianza, è anche - mi sembra - l'espressione più avanzata e aggressiva di un'aspirazione di giustizia che va oltre il dato tecnico e matematico delle pene, delle attenuanti e delle aggravanti, per coinvolgere il dato umano e il dato etico che rendono drammatico il "senso" del processo. Anche il dato politico, certo, ma nel senso meno scontato del termine, posto che l'ispirazione di questi interventi proviene - come si legge nell'arringa di Sandro Canestrini - «da regioni filosofiche, religiose, politiche, culturali diverse».
Regioni diverse, dunque, ma certamente non in contrasto - almeno sul piano umano ed etico - con la "regione" religiosa, culturale, filosofica dell'uomo che il 17 luglio 1988, per cinque interminabili minuti, è rimasto inginocchiato in silenzio fra le tombe dei morti di Stava e, rivolgendosi ai superstiti, ha detto, citando una celebre enciclica: «Il carattere morale dello sviluppo non può prescindere dal rispetto degli esseri che formano la naturavisibile. Il domìnio accordato dal Creatore all'uomo non è un potere assoluto, né si può parlare di libertà di "usare e abusare", o di disporre le cose come meglio aggrada». Parlo dello stesso uomo, il Papa, che un momento prima aveva severamente ammonito che Dio è « drammaticamente coinvolto » nel dolore degli uomini, nel dolore delle ingiustizie.
Piero Agostini
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Fortogna: nella foto sotto, il *Giardino delle bestemmie* attuale, un fal$o TOTALE dal 2004: un falso storico, fattuale, e ASSOLUTAMENTE IMMORALE da 3,5 mln di Euro. Un FALSO TOTALE e oggettivo - a cominciare dai FALSI cippi «in marmo di Carrara» - targato *sindaco De Cesero Pierluigi/Comune di Longarone 2004*. Oggi questo farlocco e osceno «Monumento/sacrario» in località S. Martino di Fortogna riproduce fedelmente in pianta e in miniatura, come un parco "Italia" di Viserbella di Rimini, il campo "B" del lager nazista di Auschwitz/Birkenau. Fantastico, no? ed e' la verita' verificabile ma se solo ti azzardi a dirlo o far notare le coincidenze, sono guai. $eri. Perché... qui in Italia, e soprattutto in luoghi di metàstasi sociale e interessi inconfessabili come la Longarone 'babba' ... «la Verità si può anche dire. Ma però che non ci sia nessuno che l'ascolti (o legga!)»
Ma tutto deve andare come da copione, in Longar-Corleone. Dal dicembre del 1964 qui è così: lo mise nero su bianco gente colle spalle ben più larghe delle mie, e in tempi non sospetti:
«E' quasi come in Sicilia, mi creda; a Longarone si configurano gli elementi tipici della mafia. Non è questione di partito 'A', o 'B'; c'è un determinato giro fatto di poche persone all'interno del quale non entra nessuno. Il potere è in mano a costoro, cinque o sei persone a Longarone, e poi qualche diramazione fuori, cioè altre persone nei posti giusti, perché un sistema del genere non può sopravvivere se non c'è corruzione».
Fonte: Giampaolo Pansa, sul Corriere della Sera del 9 ottobre 1973; sta riportato sul libro della Lucia Vastano. LIBRO CONSIGLIATISSIMO.